Prove Invalsi. E dopo? Gianni Gandola, da ScuolaOggi 10.2.2010 Si è tenuto recentemente presso l’università Bicocca di Milano un convegno di presentazione dei risultati delle prove Invalsi. Com’è noto nel maggio scorso ha avuto luogo la rilevazione degli apprendimenti in Italiano e Matematica degli alunni delle classi seconde e quinte mediante una prova esterna standardizzata. Essa ha riguardato 5.303 scuole primarie italiane (il 68,2% del totale delle scuole primarie). Complessivamente hanno sostenuto le prove 350.000 alunni. I test erano effettuati su un campione di scuole, su base facoltativa. Tutto il materiale (prove, rapporto finale, ecc.) è rinvenibile nel sito dell’Invalsi. Al convegno milanese erano presenti il presidente dell’Invalsi, prof. Cipollone, che ha tenuto la relazione introduttiva e diversi e qualificati esponenti del mondo politico e accademico (l’on. Valentina Aprea, l’ex ministro Fioroni, la preside Susanna Mantovani, il prof. G. Catalano, ed altri).
Interessanti le osservazioni, spesso bipartisan, e i contributi
portati negli interventi. Ma la vera domanda –quella in prospettiva
centrale – l’ha posta nelle fasi conclusive del dibattito, la prof.
Kanizsa (preside Scienze della formazione primaria) allorché con
garbo e semplicità si è chiesta ed ha chiesto: e adesso? Dopo le
rilevazioni dell’Invalsi, cosa succede? Perché è questo il nodo
cruciale, da cui si dovrebbe partire.
Ha scritto giustamente Fiorella Farinelli in un precedente
articolo che "bisogna guardare a come si lavora nelle scuole,
alle caratteristiche organizzative e didattiche, alla qualità
dell’impegno educativo dei dirigenti scolastici, alla preparazione
professionale degli insegnanti, alla minore affezione delle scuole
–anche quando si poteva- al tempo pieno". Ora, a noi sembra che –
sul piano delle politiche scolastiche – si stia andando in direzione
decisamente contraria. In direzione "ostinata e contraria", come
diceva De Andrè, ma purtroppo in altro senso. Stiamo assistendo ad
una consistente riduzione delle risorse economiche e professionali
(questa sì "epocale", per dirla alla Gelmini), con tagli di
personale, riduzione dei fondi alle scuole (in particolare per il
funzionamento didattico e organizzativo, ma per il funzionamento
ordinario degli istituti più in generale).
A tutto questo si aggiunge, sul piano pedagogico e organizzativo, la
riproposta della figura del maestro unico che rappresenta un
arretramento culturale notevole rispetto all’esperienza del team
docente (tempo pieno e moduli). E’ stata la stessa Aprea ad
osservare che le opportunità di apprendimento sono legate al "tipo"
di scuola, che la scuola al sud è una scuola povera e che il tempo
pieno (di cui l’Aprea, già direttrice didattica in provincia di
Milano, pare riconoscere tuttora il valore) è concentrato
prevalentemente al Nord. Insomma, l’Invalsi ha svolto il suo compito ma, in assenza di interventi da parte della politica, rischia di svolgere una funzione prettamente notarile. Il problema di fondo resta quello già accennato. Una volta che si sa quali sono i livelli (e i limiti) di apprendimento dei nostri alunni, cosa si fa concretamente per migliorarli? Servono politiche scolastiche adeguate, sul piano del "tempo scuola" offerto agli alunni, delle strutture scolastiche, della formazione (quindi della "qualità") dei docenti. Non si vede nulla di tutto questo all’orizzonte. Anzi. Se l’unica risposta in campo resta la finanziaria del ministro Tremonti, allora c’è poco da sperare. |