Gelmini, libro e moschetto

di Furio Colombo Il Fatto Quotidiano, 5.12.2010

Il 30 novembre, giorno di approvazione della riforma dell’Università italiana in un Parlamento in stato d’assedio, è una data da non dimenticare. Perché quel giorno l’impenetrabile blocco militare intorno al palazzo, i cortei di giovani e docenti in tante città italiane, la forza della protesta, la voce che non arriva, l’allucinante pacatezza del dibattito in aula hanno rappresentato in tutti i suoi aspetti il mondo (valori e organizzazione) secondo Berlusconi. Ma hanno rappresentato anche un altro fatto pericoloso: l’opposizione è come una maschera di cera che si adatta alla forma di ciò che intende negare. Accetta lo scambio di opinioni punto per punto, senza rifiutarne la logica. E diventa il rivestimento di un contraddittorio di cui si perde subito traccia e memoria. Diventa una sequenza di sfumature. Provo a ripetere ciò che ho detto appena entrato in aula quel giorno, nel brusio scarsamente interessato di tutti. Non è un reclamo, è soltanto cronaca. “Intervengo per dire che gli studenti non sono qui fuori, come si dice in molti nobili interventi. Qui fuori c’è un anello militare di tutte le polizie che blocca la città, come nel giorno in cui è stato trovato il corpo di Aldo Moro. La città è stata messa in una situazione di emergenza. In piazza del Parlamento si deve strisciare tra il blindato e il muro per accedere a quest’aula. Ma in quest’aula non si deve far sentire all’avvocato Gelmini la voce degli studenti, dell’università italiana di cui lei sta preparando la fine. Non c’è nulla, in questa Camera, che rappresenti ciò che sta avvenendo nelle città italiane contro questa ignobile legge”.

Ecco dunque tutti gli ingredienti di un modo di governare: muovere il paesaggio intorno a un treno immobile (immobile da quindici anni) per dare l’impressione del viaggio e poi celebrare il punto di arrivo, che non esiste. Spostare, come nel G8 di Genova del luglio 2001, soltanto i vasi di fiori. Il pestaggio avviene dopo, e le accuse sono a carico di chi protesta o si oppone, con la tecnica di ingigantire (se necessario, inventare) il pericolo. L’importante è che tutto diventi teatro, e che l’attenzione al teatro sia il centro dell’evento.

La messinscena della forza pubblica

Il 30 novembre, dunque, noi – l’Italia ai tempi di Berlusconi – abbiamo avuto un’altra cattiva legge, un’altra soppressione di libertà, un’altra doppia e deliberata moltiplicazione del successo del governo (baci, abbracci, scrosci di applausi, vera e propria celebrazione) e condanna del “colpevole sabotaggio dell’opposizione”. Come si vede, stare al gioco di una finta e impossibile buona creanza parlamentare (emendamento a fronte di emendamento, modifica di questo comma o di quello, ma niente incrinature al buon lavoro in aula) non lascia traccia: alla pacata opposizione perbene vengono attribuite comunque le manifestazioni per le strade, la partecipazione eversiva di presunti centri sociali (invece che di veri Phd senza lavoro, senza finanziamenti, senza futuro), annunciati (e per fortuna falsi) “gravi incidenti” e “feriti gravi”, azzerando e respingendo con sdegno qualsiasi intenzione di “migliorare il testo”.

Ecco i tre volti della giornata da non dimenticare: la messinscena della forza pubblica; la qualità della legge; la strategia d’aula.

Il teatro dell’emergenza militare (carabinieri, forze di polizia, guardia di finanza) è stato tutt’altro che una rozza esagerazione. Il ministro degli Interni Maroni, in perfetta e politica malafede, ha forzato prefetti e questori a vedere, nella estrosa, fantasiosa e tenace protesta universitaria, un’insurrezione con rischio nazionale. Le più importanti città italiane – ma soprattutto Roma – sono state chiuse da una morsa militare che, di per sé, rappresentava e propagandava (le elezioni potrebbero venire presto) un grave e consistente pericolo. È un pericolo organizzato dai partiti che si oppongono alla legge Gelmini e discende sulle piazze, negando la verità, che è il contrario: un immenso dissenso di base ha raggiunto (ma solo in parte) persone e gruppi dell’opposizione. Deve restare ben chiara l’operazione politica, condotta in calcolata malafede: fingere la rivolta violenta per accusare e screditare ogni opposizione, per quanto mite. La Lega Nord Bossi-Maroni, braccio armato del berlusconismo nella vita interna italiana, ha dato alla legge Gelmini sostegno militare, chiudendo strade e piazze, pur avendo offerto pochi e incompetenti interventi in aula. Sulla legge è stato detto invano moltissimo. Fra i tanti argomenti per dire no a questo paesaggio di cartone detto “riforma dell’Università”, basterà scegliere quelli che Francesco Giavazzi – per una volta stranamente sospeso nel vuoto – elenca come pregi in un suo editoriale (Il Corriere della Sera, 30 novembre): “La legge crea una figura nuova di docenti giovani in prova per sei anni e confermati solo se raggiungono risultati positivi nell’insegnamento e nella ricerca. Chi grida allo scandalo dimostra di non conoscere come funzionano le università del mondo”. Chi decide, con quali regole?

La finta riforma del governo del fare

Qualcuno di noi – coloro che hanno vissuto e insegnato nel mondo – potrebbe spiegare che cosa accade e come, alla Columbia University o a Princeton, quando si tratta di “tenure” (conferma dei docenti). Ma Giavazzi lo sa bene. E sa una cosa in più. Può indicare un’altra confrontabile democrazia industriale del mondo in cui l’università – sistema, organizzazione, docenza, ricerca – sia affidata a un giovane avvocato incompetente? E poi: “La legge limita l’autoreferenzialità dei professori prevedendo la presenza di non accademici nei consigli di amministrazione delle università”. Vuol dire il privato. Ma è possibile, nel mondo della “cricca”, di Cosentino tuttora al lavoro per il Pdl e (pensano i giudici) per la camorra, di inchieste come quella su Finmeccanica, che il “non accademico” – ovviamente e fatalmente omogeneo al potere – sia visto come garanzia? E ancora: “Per la prima volta la legge prevede che i fondi pubblici alle università siano modulati in funzione dei risultati”. La frase spaventa, come spaventa la finta riforma della legge-teatro del governo del fare. Quali risultati? Giudicati da chi? Tremonti o Gelmini? E non sarà necessario, in una università rigidamente controllata dal potere di Roma, un po’ di gentilezza accademica verso il governo per vedersi riconoscere “buoni risultati”?

Infine volete sapere della strategia d’aula dell’opposizione. È fatta di due parti: da quel che si dice (o si scrive) e dal come si dice. In questo caso le parole sono aspre, i discorsi duri. L’intervento finale di Franceschini certo da condividere. Ma nell’aula isolata dalla preordinata emergenza militare, nel procedere ordinato dei sì e dei no (un rispetto che i Repubblicani americani non si sognerebbero mai di dedicare a Obama, e per questo si fanno notare e abbattono i punti di approvazione del loro presidente) l’immagine che si imprime e che resta è: ignorando gli immensi cortei di giovani italiani che si oppongono, “la Camera approva”.
Una opposizione che non alza la voce e cammina disciplinatamente allo stesso passo della maggioranza imperiosa, quando dice educatamente “no” non si nota. Poiché l’opposizione non ha saputo rompere in alcun punto e in nessun modo le sequenze ordinate, vuol dire che niente di eccezionale sta accadendo. Resta il sigillo finale con cui andremo alle urne: “La Camera approva”. Resta il distacco completo da coloro che l’opposizione avrebbe dovuto e voluto rappresentare.