L’esorcismo meritocratico di Emanuele Rainone da ReteScuole, 13.12.2010 Che le parole abbiano un significato è cosa alquanto dubbia, ma se ne può discutere: all’infinito. Che le parole siano suoni che vengono emessi dagli esseri umani e usati in un certo modo per fare od ottenere qualcosa è cosa che può darsi per pacifica. Per parlare della parola ‘meritocrazia’ forse è utile partire proprio da qui. Se indico una mela rossa ad un extraterrestre che non conosce i significati di ‘rosso’ e di ‘mela’ e la mia intenzione è quella di fargli capire il significato di ‘mela’ lui potrà sempre pensare che gli indico il ‘rosso’. La cosa non si risolverebbe neanche se gli indicassi per cento volte mele di colore diverso, perché potrà sempre pensare che con quello stesso gesto sto indicando il picciuolo o qualcos’altro o nel caso più assurdo – ma possibile – che il nome ‘mela’ indichi proprio il gesto dell’indicare. Questo nel caso più semplice, non oso pensare cosa possa venir fuori con la parola ‘meritocrazia’. Quando si parla di scuola sembra che basti parlare di meritocrazia per mettere tutti d’accordo e far dondolare tante teste vuote in senso di approvazione, ma spesso si ha la sensazione che non si sappia di cosa si stia parlando e che quando qualcuno sventola questa parola da un qualsiasi pulpito è come se stesse indicando qualcosa e tutti, al posto di guardare in un certa direzione, si concentrino affascinati e compiaciuti sul dito che indica. Come tutte le parole usate ed abusate nel linguaggio politico, ‘meritocrazia’ viene lanciata come un oggetto sonoro nel dibattito pubblico per ottenere consensi, a volte urlata con grande clamore, come se dietro di essa si celasse un significato dorato, stabile, fisso, qualcosa che solo per il fatto di essere nominato abbia la fantomatica capacità di risolvere tutti i problemi. Ma questo non è il ruolo delle antiche e delle sempre contemporanee divinità che basta nominare per poter risolvere, mediante un rito o un esorcismo, un problema? Nume: divinità della religione e della mitologia classica, numen, da nuere ‘far cenno col capo, annuire’ poi ‘volontà divina operante: divinità’. Appunto: ‘far cenno con il capo, annuire’, quando si parla di meritocrazia non fanno solitamente – da destra a centrosinistra – tutti cenno con il capo? Ma è un rito, un esorcismo. Del resto che ogni parola non sia altro che una divinità decaduta lo sappiamo da tempo, dietro ogni parola non c’è un significato, ma un rito, un esorcismo, un richiamo a qualcosa. Ma cosa diavolo ci sta dietro a questa benedetta parola, su cui sembrano tutti d’accordo come incantati da una divinità e contro la quale soltanto alcuni sparuti gruppi sembrano gesticolare la loro disapprovazione venendo guardati dal resto della popolazione come dei retrogradi o degli eretici? Rito, esorcismo, mitologia: potere. Un interrogativo mai risolto e irrisolvibile dell’antropologia riguarda il fatto se lo stregone o il sacerdote ‘ci fa o ci è’: se crede veramente ai suoi poteri o se fa finta per mantenere una posizione di potere. E questa è la natura di qualsiasi potere; così è per il nostro Ministro dell’Istruzione, non tanto per suo merito personale, quanto per la funzione che occupa, suo malgrado: se crede veramente nei poteri fantomatici e taumaturgici della ‘meritocrazia’ - qualsiasi cosa possa significare nella sua testa - oppure se sia convinta che la parola sia soltanto un paravento per mascherare un grumo ben solido e chiaro di interessi. Insomma: ideologia pura, e la più bieca. Sospendiamo il giudizio, ma interroghiamoci: quali problemi dovrebbe risolvere questo esorcismo meritocratico? Si vuole una scuola migliore di quella che abbiamo. Tutti sembrano essere d’accordo. Ma ‘migliore’ è un’altra di quelle parole infide che vengono usate in modo equivoco e se ad essa non viene associato un qualsiasi criterio di valutazione per stabilire come e quando qualcosa sia ‘migliore’ di un’altra, rimane una parola vuota. Un’altra bella parola che serve solo per strappare qualche applauso. Qualità, migliore, merito. Sono tutte parole che rimandano ad un'unica questione, ad un’unica grande parola che tiene insieme l’intero discorso e che è la croce di qualsiasi politica pedagogica: valutazione. Per esprimere un giudizio devo avere un criterio di valutazione. Ora, se parlo di merito e di qualità senza indicare un criterio, o non so cosa sto dicendo o sto bluffando. Quando non si sa cosa fare si fanno esorcismi, ossia si parla d’altro per esorcizzare la propria incapacità, si invoca un dio per risolvere un problema. Si ha l’esigenza di valutare il lavoro che viene fatto a scuola, ma non si sa come fare, e allora si invoca la ‘meritocrazia’. Perché non si ha la più pallida idea di cos’è una scuola, cosa significa ‘fare scuola’. Il problema fondamentale delle attuali politiche meritocratiche di Brunetta e Gelmini è che dai loro discorsi si ha la netta impressione che basti inserire un qualunque criterio di valutazione per risolvere un problema. Il problema della ‘meritocrazia’ non sta solo nella sua radice profondamente antidemocratica ma nel fatto che per il solo fatto di imporsi come unica soluzione annulla qualsiasi riflessione sul concetto di valutazione: per una cultura del merito qualsiasi criterio, anche il più arbitrario, va bene. Qualsiasi. Il problema quindi, ancor prima di investire una riflessione sulla relazione tra cultura meritocratica e cultura democratica, è pedagogico in senso eminente: il dominio meritocratico è la negazione di qualsiasi cultura della valutazione intesa come momento intrinseco al processo pedagogico. Se qualsiasi criterio va bene significa che l’obiettivo di una politica meritocratica non è la valutazione come momento inscindibile e costitutivo del processo ma quello di creare in modo del tutto indifferente dalla materia che si sta trattando – che sia la scuola o la pubblica amministrazione - delle differenze. L’obiettivo è quello di esercitare, mantenere, rafforzare un potere: creando una gerarchia. Questo lo si può fare per smunta ideologia, per semplice incapacità o per bieca ignoranza. I provvedimenti di Brunetta e Gelmini per istillare nel corpo (dei) docenti il bacillo della meritocrazia sembrano essere proprio il risultato di un miscuglio di vari elementi: una fede dirigista, verticista e aziendalista come metodo universale di risoluzione dei problemi rivestita da una vaga ideologia antisessantottina, una manifesta incapacità a comprendere quali siano i reali problemi di una scuola del terzo millennio, una profonda inadeguatezza a capire lo sfondo culturale di crisi dei saperi dell’Occidente come orizzonte di senso a partire dal quale è possibile parlare di ‘crisi della scuola’ senza cadere nella solita deprecatio temporis, una malcelata volontà punitiva nei confronti degli insegnanti – tipica manifestazione rancorosa di ogni potere di fronte a ciò che non capisce e non può capire-, una ridicola ma altrettanto pericolosa ed eversiva politica di classe. Della scuola italiana, letteralmente e fascistissimamente, se ne fregano. Davanti a qualcosa che non conoscono, che non hanno mai conosciuto e non vogliono sforzarsi di conoscere, non sanno fare altro che formulare un esorcismo meritocratico: ‘La scuola? Non importa cosa si fa a scuola, cosa si impara, se ci si va con piacere, se si formano dei cittadini consapevoli e con senso critico. Per fare funzionare una scuola abbiamo bisogno di un criterio, qualsiasi va bene, per premiare il merito. Importano solo i risultati. Come facciamo a stabilire i risultati? Ci sono dei test sul mercato? Qualche accademico ha prodotto dei test? Sì, bene, ci fidiamo, un criterio vale l’altro. Sono oggettivi? Certo: sono dei test. Come si chiamano? Invalsi. Bene, mi piace, chi garantisce? L’Istituto della Valutazione. Ma sono veramente oggettivi, nel senso di quantitativi? Misurano veramente cosa diavolo c’è nelle teste dei nostri ragazzi? Mah, Ministro non è possibile misurare, se mi è permesso …..nel processo educativo parole come ‘oggettività’, ‘quantitativo’, ‘misurare’ non hanno molto senso…. Ma che dice! Stia zitto stiamo facendo un esorcismo e Lei mi interrompe parlando del processo educativo! Va bene così, misurare, misurare, Invalsi, suona bene: abbiamo un criterio per premiare il merito, ora le cose possono funzionare. Andiamo avanti con l’esorcismo. Le scuole con i migliori test Invalsi avranno più soldi dallo stato. Quanto ai professori chi meglio del dirigente e dello staff può decidere delle loro prestazioni? Dividiamoli in tre scaglioni. Ma perché proprio tre? Non importa, un numero vale l’altro, il tre è quello che di solito si usa di più e sembrerà un qualcosa di naturale, suona bene. Ai primi gli diamo un bel premio, ai secondi nulla e ai terzi se continuano a rimanere in fondo li licenziamo. Viva il merito, viva la riforma della scuola’. |