Cari studenti, cosa volete davvero? di Michele Boldrin* Il Fatto Quotidiano, 3.12.2010 Una fetta ampia (forse maggioritaria forse no, non importa) dell’università italiana è scesa in piazza in veemente protesta contro il ddl Gelmini approvato dalla Camera. Ora è di ritorno al Senato per il via libera definitivo che, a questo punto, mi auguro non avvenga, vista la natura abortiva dello sconnesso cumulo d’articoli in questione.
Fossi io il ministro, non è questa la riforma che proverei a fare:
nonostante molti (come Francesco Giavazzi, sul Corriere del 30
novembre) continuino a sostenere che “piuttosto di niente, meglio
piuttosto”, l’impressione è che il “piuttosto” si riduca questa
volta a tre patetiche manovre a corto raggio. Contenere la spesa,
perché Giulio Tremonti non sa dove altro tagliare; creare dei
consigli di amministrazione dove dinosauri locali di partiti e forze
sociali possano continuare a far danno camarillando con i baroni
cittadini; rimandare per l’ennesima volta alle calende greche
qualsiasi meccanismo meritocratico generando, sottobanco, un
ope-legis-di-fatto per circa 15 mila ricercatori. A quelli cui questi puzzolenti “piuttosto” sembrano sufficienti per metterci la faccia, non so che dire. Evidentemente hanno una nozione diversa dalla mia del tipo di università di cui questo Paese in via di sottosviluppo avrebbe disperato bisogno. Ma su questo torniamo un’altra volta, che farlo ora sarebbe mettere il carro dinanzi ai buoi. Veniamo dunque a quest’ultimi, che sono un paio o forse persino un trio. E hanno a che fare con la protesta popolare in atto. Bue numero uno: le piazze e le torri d’Italia che oggi si riempiono d’incazzatissimi e indignatissimi rivoltosi erano vuote sei mesi fa, un anno fa, due anni fa, eccetera. Erano ancor più vuote quando, tre o quattro anni fa, il precedente ministro, tal Fabio Mussi, contribuiva con la sua arrogante ignavia al declino della nostra università.
Evidentemente, non solo le masse che ora insorgono ritengono che il
ddl Gelmini peggiorerebbe di molto l’esistente – cosa difficile da
intendere perché platealmente trattasi di more of the same – ma
soprattutto che era ed è di loro gradimento quanto oggi offre
l’università italiana! Così non può non essere perché, altrimenti,
sull’antica torre e sull’ancor più antica basilica, i ricercatori e
gli studenti universitari ci sarebbero saliti da tempo, e non lo
hanno fatto. Perché? Bue numero due: come ha documentato su NoiseFromAmerika.org Paola Potestio il 25 novembre, la riforma Berlinguer (1999) è stata usata dai professori universitari per aumentarsi lo stipendio (attraverso valanghe di promozioni interne) e per assumere i propri fedeli “allievi” (aumento di un quarto del loro numero a parità del numero di studenti). Questo ha massacrato il bilancio di un gran numero di università e ingolfato il sistema complessivo il quale, a causa dell’incetta di personale dalla dubbia competenza nel periodo 2000-2008, non ha oggi le risorse e nemmeno la possibilità strutturale di assorbire, men che meno su base meritocratica, le nuove generazioni di potenziali ricercatori.
Mentre questo scempio avveniva (complici prima il ministro Moratti
con il suo troppo timido avvio di un processo di valutazione che il
letale Mussi paralizzò poi completamente e la Gelmini non ha
riavviato), dov’erano le masse che oggi insorgono? Mentre l’ennesimo
sacco dell’università avveniva, lento, inesorabile ed evidente sotto
i loro occhi, perché nessuno s’arrampicava sulla torre o la basilica
per denunciarlo e, magari, fermarlo? Veniamo all’ultimo bue, quello più vicino al carro. Roberto Perotti l’ha descritto sul Sole 24 Ore con parole semplici e chiare: “Il problema di fondo dell’università italiana è molto semplice, accanto a migliaia di docenti che fanno il loro lavoro con passione e competenza, ve ne sono [almeno altrettante, ndr] migliaia che non hanno né passione né competenza, ma non vi è alcun modo di prendere provvedimenti contro di essi. Il motivo è altrettanto semplice: tutto procede per anzianità, non c’è modo di premiare chi opera bene e penalizzare chi opera male. Tutto qui.” Appunto, tutto qui. Da questa considerazione che, piaccia o meno, è quella fondamentale, Perotti prosegue individuando lucidamente i limiti di fondo di questa riforma democristiana che sono, esattamente, i tre “piuttosto” che elencavo all’inizio. Il che mi permette d’arrivare rapidamente al carro della questione.
La nostra università è da decenni in disfacimento, un disfacimento
che ha già prodotto abbondante degrado e che è accelerato negli
ultimi anni. Ha quindi bisogno di drastiche e decisive riforme e non
solo di risorse aggiuntive. Ha bisogno anche di quelle, il che rende
i tagli tremontiani ancor più insolenti e forieri d’ulteriore
degrado. Ma soprattutto serve un ridisegno complessivo di come le
risorse vanno spese, di come misurare e valutare socialmente la
qualità di ciò che esse producono e di come, soprattutto,
all’interno del sistema si premia il merito e si punisce ed espelle
il demerito. A queste angoscianti questioni il ddl Gelmini dà
risposte distorte ed insufficienti, non v’è dubbio alcuno. Ma né
Gelmini né i suoi compari di governo fanno attenzione a ciò che si
scrive su Il Fatto, non è quindi a loro che qui mi rivolgo. Mi rivolgo, invece, alle migliaia di giovani studenti e ricercatori che, credo in buona fede e spinti da una situazione ogni giorno più angosciante, sono in questi giorni insorti, con questo giornale probabilmente sotto il braccio. Cosa volete fare, ragazzi e ragazze? A favore di cosa siete scesi in piazza, oltre che contro il ddl Gelmini? Perché è questa, non altra, la questione che dovete avere il coraggio d’affrontare. Se non eravate mai stati contro l’orribile istituzione in cui da decenni lavorate e studiate, non sarebbe forse il caso di fare un passo indietro per iniziare un cattolicissimo esame di coscienza, chiedendosi: perché sto, di fatto, difendendo l’esistente? E se non è l’esistente che voglio, cosa diavolo voglio? È urgente che questo movimento, se davvero ha a cuore il futuro dell’università e quindi della società italiana e quindi il proprio, cominci a porsi seriamente una tale domanda. È tempo di scendere dai tetti e di entrare nelle aule, per studiare e capire come l’intelligenza diffusa possa cambiare l’orrendo stato di cose esistente. Forse le pagine del Fatto Quotidiano potrebbero servire anche a questo.
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