università.
Mazzarella (Pd): ecco perché la riforma intervista di Federico Ferraù a Eugenio Mazzarella il Sussidiario, 2.12.2010
Il suo emendamento,
detto anti “parentopoli” (le università non possono assumere dalla
lista nazionale professori parenti di chi già insegna o è rettore o
è nel Cda di un ateneo, ndr) è uno dei pochi che hanno messo
d’accordo maggioranza e opposizione. Disponibile e aperto al
dialogo, Eugenio Mazzarella, del Pd, professore di filosofia
nell’Università Federico II di Napoli, non fa però sconti alla
maggioranza e conferma che il problema rimane quello dei fondi che
servono per attuare la riforma.
«Il ddl per funzionare
davvero ha bisogno di fondi. Anche l’assunzione di 4.500 associati
in tre anni - all’inizio ne erano previsti 9mila - non è scontata,
perché la copertura è affidata alla prossima finanziaria sulla base
dell’esito dell’asta delle frequenze e dunque come tale è incerta.
Insomma, non si sa se i soldi ci saranno».
«Dunque c’è una
sproporzione tra aspettative e risorse che è enorme. Da questo però
si vede che l’impianto del ddl è stato determinato da una scelta
politica che ha sacrificato il futuro del paese ai cordoni della
borsa. Mi auguro che il governo riesca a garantire la misura
prevista, che peraltro è molto ristretta, se pensa che quei 4.500
posti vengono incontro ad una platea di 27mila ricercatori
strutturati, più alcune decine di migliaia di ricercatori non
strutturati ma con 10-15 anni di attività. Nella sostanza si offre
un’opportunità ogni dieci soggetti che vi possono aspirare».
«Il ministro dichiara
di assumere 1.500 posti l’anno per tre anni, in realtà le risorse a
disposizione per il primo anno consentiranno di coprire 200, massimo
250 posti. È un risultato di compromesso che è servito a Fli per
votare la legge».
«È una proposta su cui
si era ampiamente ragionato: c’erano opinioni difformi ma in larga
parte convergenti. È del tutto ragionevole che ci siano due fasce,
ordinari e associati, e una terza fascia, quella dei ricercatori, a
tempo determinato. Quest’ultimo costituisce un incentivo se c’è un
ragionevole sbocco in ruolo per chi ne ha usufruito bene, ma se
mancano le risorse è solo un’anticamera del precariato.
«No, non c’è stata
nessuna strumentalizzazione. Quelli che hanno protestato l’hanno
fatto perché percepiscono una società dove la loro vita è precaria,
anche nell’università. In piazza c’era la paura dei giovani che la
qualità futura della loro vita non sarà come quella dei loro
genitori. Non è in gioco un semplice ope legis: quel che è mancato a
questo governo è di non aver investito sulla situazione di
precarietà di chi si impegna in un comparto decisivo per il futuro
del paese com’è quello della ricerca».
«Capisco che data la
situazione economica il governo non posa farsi carico dell’ansia e
di precarietà che attanaglia tutti i giovani italiani, ma almeno
facciamo come hanno fatto altri in Europa: facciamo di tutto perché
i giovani dai quali dipendono le sorti del paese non debbano
sottostare a quella precarietà».
«Ha portato
probabilmente meno vantaggi di quanti si riprometteva, ma senza
l’azione dei finiani non avremmo visto interventi migliorativi. Se
la riforma fosse rimasta quella che ci è stata consegnata al Senato,
sarebbe stata irricevibile. Mi auguro che qualsiasi governo ci sarà
dopo il 14 dicembre, si decida a tirar fuori i soldi da investire in
un asset strategico per il paese».
«È uno dei vulnus di
questa riforma, cominciata con quattro parole d’ordine che avevamo
tutti condiviso: autonomia, merito, responsabilità, valutazione.
L’autonomia è finita sotto il tritacarne di circa 170 norme che
chiedono 500 linee di attuazione e mille regolamenti. Poi non si può
non menzionare l’“autonomia”- si fa per dire - rappresentata dalla
clausola di salvaguardia, fortunatamente bocciata in aula. Il ddl
inaugura un’autonomia sotto tutela per tutti gli atenei, però con
una deroga per quelli che contratteranno col ministero un percorso
di merito virtuoso, premessa per sottrarsi alle disposizioni di
gestione che valgono per tutti quanti gli altri organi accademici.
Questa deroga rappresenta chiaramente un cavallo di Troia per
spingere in direzione di un gruppetto di atenei di serie A, dotati
di autonomia reale, lasciando indietro gli altri, in regime di
autonomia sorvegliata e per giunta senza fondi». «I regolamenti per attuare la nuova concorsualità e per sbloccare il diritto allo studio, che appare fatto di briciole. Occorre muoversi subito, per evitare una vacatio concorsuale che potrebbe durare tra i 5 e i 7 anni. Ma soprattutto, occorre uno sforzo condiviso nel paese per credere nell’università. Tradotto, vuol dire che non possiamo continuare ad investire lo 0,8 per cento del Pil mentre l’Europa lo fa con l’1,3 per cento». |