Università alla paralisi

di Alessandro Dal Lago il manifesto, 22.4.2010

Arrivano giorni oscuri per l’università. Se i ricercatori si asterranno dalla didattica, verrà a mancare un buon terzo dell’offerta formativa (il che non è solo un problema quantitativo). Non ci sono i soldi per contratti sostitutivi, anche se sono pagati una miseria, ed è assai dubbio che i professori si sobbarchino la didattica fin qui assicurata dai ricercatori. Ma c’è un altro problema: verranno a mancare i requisiti minimi di legge per l’esistenza dei corsi di I e II livello. L’università potrebbe trovarsi, dal prossimo autunno, nella paralisi. Ma è la situazione strutturale, di lungo periodo, a essere veramente preoccupante. La Corte dei conti ha rilevato il fallimento delle lauree brevi (moltiplicazione dei corsi, stabilità degli abbandoni, inevitabile declino della qualità, spesa assorbita in modo schiacciante dal personale).

A ciò si aggiunga la scarsa competitività (espressa dal bassissimo posto dei nostri atenei nelle classifiche internazionali), l’antica questione dei fuori corso (una specialità tutta italiana) e il sub-finanziamento della ricerca. Quello 0,8 del Pil speso in formazione superiore (e quasi tutto a carico del settore pubblico)fotografa impietosamente la realtà italiana: noi spendiamo percentualmente il 40% in meno della media europea, il che vuol dire, anche tenendo conto della spesa per studente, la metà delle risorse impegnate dai paesi più sviluppati.

Ciò che la Corte non può valutare è il senso di sfascio e frustrazione che circola tra i docenti; ormai, i parametri imperanti in qualsiasi atto o iniziativa sono astrattamente quantitativi: limiti di bilancio, requisiti minimi, punti docente, restrizioni sull’uso del telefono e delle fotocopie…

E questa impotenza è sommersa da una coltre di decreti e regolamenti che pretendono di fissare, in un linguaggio standard, ereditato dal burocratese europeo tradotto in gergo italico-ministeriale, come valutare qualsiasi obiettivo culturale, scientifico o formativo. La verità è semplicemente questa: soldi per la ricerca non ce ne sono; e, quanto alla didattica, basti sapere che dei mille studenti che esamino ogni anno, ottocento non li vedrò mai, ombre che si materializzano in una tesina o in un compito in classe, un rito didattico vacuo che, in queste condizioni, umilia me e loro.

Rispetto a questa realtà, i contenuti del Ddl Gelmini non sono nemmeno acqua fresca, ma un sigillo finale messo a un’agonia iniziata all’epoca di Berlinguer, quando si sono gettate le basi per trasformare l’università in una specie di Cepu, con la mitologia vetero-aziendalistica dei debiti e dei crediti; quando si sono create le premesse per moltiplicare i corsi e le cattedre, senza intaccare in nulla, e anzi aumentando, il potere dei gruppi accademici nazionali di controllare il reclutamento. I bizzarri criteri di composizione delle commissioni di concorso inventati dall’attuale ministro (estrazione + votazione et similia) non mutano in niente la pratica secolare della cooptazione guidata.

La riforma della cosiddetta governance aumenta il potere dei rettori e dei consigli di amministrazione, facendo del senato accademico un comitato di consulenza. Mescola le carte, ingrandendo i dipartimenti e unificando le facoltà deboli in enti dai contorni vaghi (mentre le facoltà forti, come ingegneria e medicina, aumentano il loro peso specifico): così, il potere dei professori-manager si accresce, soprattutto in una fase in cui le risorse diminuiscono. Quanto ai privati nei consigli di amministrazione, si spalanca la strada all’ingresso incontrollato e, se i rettori vorranno, maggioritario di interessi estranei al fine dell’università, e in cambio di nulla. Marcegaglia docet. Il Pd si è finalmente occupato di università. Ma a giudicare dal documento reso pubblico ieri, non si va al di là di richieste puramente rituali, e ovviamente inascoltate, come aumentare il finanziamento e portarlo alla media europea. Per il resto, bisognerebbe che l’attuale opposizione si interrogasse sul modo in cui ha gestito l’università quando governava. E quindi sull’idea liberista di università e ricerca che ha contribuito a imporre al paese.