SCUOLA

Anche i licei devono diventare
"laboratori" del sapere

Ethel Serravalle, il Sussidiario 27.4.2010

Per ragionare sulle Indicazioni nazionali è inevitabile partire dall’autonomia delle istituzioni scolastiche e dal superamento dei “programmi” tradizionali, mandati in soffitta dalla distinzione tra lineamenti generali del sistema d’istruzione, oggetto di norma parlamentare, e loro attuazione di cui è la scuola militante a portare diretta responsabilità, in misura decisamente più netta rispetto al passato. Se non ricordo male il lungo dibattito sull’autonomia, la decisione di concederne significative quote alle scuole, soprattutto sul piano didattico e organizzativo, fu motivata dall’esigenza di migliorarne efficacia e qualità di risultati, già allora non esaltanti, e parlo di circa vent’anni fa.

Parve allora che la valorizzazione della professionalità dei docenti e la pratica dell’autogoverno giustificassero e quasi imponessero una maggiore flessibilità operativa per passare concretamente dalla logica dell’adempimento formale al perseguimento di risultati reali, in quanto tali verificabili. Il rischio che l’enfasi posta sulle situazioni specifiche delle singole scuole riducesse di fatto lo slancio operativo e facesse perdere di vista gli importanti obiettivi culturali e formativi su cui tutto il paese doveva impegnarsi venne fronteggiato con il ricorso ad Indicazioni nazionali a cui fare riferimento nella formulazione dei POF. Quelle per il primo ciclo già ci sono e sono probabilmente da rivedere. Quelle per i licei sono finalmente in arrivo e ne possiamo parlare, azzuffandoci quanto basta.

Sotto questo profilo le Indicazioni nazionali, oggi per i licei, domani per l’istruzione tecnica, dopodomani per l’istruzione professionale potranno davvero rappresentare un fondamentale strumento di orientamento per scelte consapevoli e informate. Paradossalmente, ma non troppo, nel redigerle si dovrebbe tener conto della necessità di evitare sia le formulazioni ambigue, sia il ricorso a termini troppo tecnici e/o iniziatici con l’aggravante di minuziosi elenchi di traguardi intermedi che appartengono, quelli sì, alla competenza dei docenti per essere chiaramente leggibili e comprensibili da parte degli studenti chiamati a valutare la propria disponibilità ad occuparsi fattivamente per anni ed anni di ciò che il menù prevede, regolandosi di conseguenza.

E se una cattiva politica scolastica e la demagogia imperante hanno via via confuso le acque e le menti sul ruolo della scuola, sul valore della cultura nelle sue molteplici componenti, sugli obiettivi da raggiungere per proseguire gli studi a livello universitario, per entrare a fronte alta nel mondo del lavoro, per affrontare le sfide dell’istruzione permanente che riguardano tutti, non è vietato svoltare e le Indicazioni nazionali possono aiutare a farlo nella direzione giusta, quanto più saranno oneste e limpide nell’individuare ed esplicitare l’asse culturale portante di ciascun percorso e le modalità di approccio che il suo approfondimento comporta.

Quelle per i licei hanno questo pregio, proprio perché corrispondono a ciò che normalmente intendiamo per formazione liceale: se un aspetto è carente, e penso soprattutto agli studenti e alla noia con cui sovente vivono la scuola, è una più netta presa di posizione a favore dei laboratori e del loro uso sistematico nella didattica, di tutte le discipline, ciascuna con le sue peculiarità operative.

La nostra è una scuola in cui si parla troppo e si valorizza troppo poco il riscontro sistematico di elaborazioni autonome e di applicazioni concrete, individuali e di gruppo, il più possibile creative, concernenti ciò che ciascuno viene apprendendo. Sto parlando delle competenze che nella pratica dei docenti bravi venivano accuratamente sviluppate e verificate, prima o dopo che Berta smettesse di filare. Proprio nella scuola delle competenze sarebbe il caso che si evitasse la tradizionale overdose quotidiana di passività. E non tanto riducendo l’orario, quanto passando molto del tempo previsto in laboratorio, che può essere anche l’aula, per alcune materie, purché l’unico verbo da coniugare non sia ascoltare.

Quanto alla scelta dei contenuti, due cose non andrebbero mai dimenticate. La prima è che la scuola secondaria superiore è il luogo in cui si viene costruendo, attraverso l’istruzione e l’apprendimento, non solo l’identità di ciascun individuo, ma anche quella di una consistente parte della popolazione, se non altro in termini di conoscenza dei valori fondamentali, delle memorie comuni, della capacità di convivere, dialogare e collaborare, senza perciò pretendere che tutti si appassionino agli stessi campi del sapere o che tutti vogliano realizzarsi facendo lo stesso lavoro.

La seconda è che siamo una nazione con una sua identità: linguistica, culturale, storica, artistica, di ricerca scientifica e matematica, di impostazioni giuridiche ed economiche, di stili produttivi, e che la scuola non può trascurare per nessun ambito i saperi generalmente condivisi all’effettivo livello di maturazione raggiunto. Sarà semmai una intelligente ed aggiornata attività didattica e organizzativa da svolgere soprattutto in laboratorio, di fronte a problemi da risolvere e a progetti da realizzare, a far cogliere nuove possibili integrazioni, aggregazioni, trasversalità che costituiscono nuovi potenziali orizzonti della conoscenza teorica e della prassi operativa. E questo vale per i licei, per l’istruzione tecnica e professionale e per gli stessi corsi di formazione professionale.