il caso

Mamma, ho perso
la voglia di studiare

Una ricerca americana: in cinquant'anni dimezzato il tempo sui libri

di Elena Elisa La Stampa, 27.8.2010

TORINO
Basterebbe parafrasare Quintiliano: «Se anziché dedicare spazio alle scampagnate, alle passioni e ai piaceri che turbano l’anima, si pensasse più allo studio, il tempo disponibile sarebbe sufficiente per apprendere». Una certezza granitica quella del maestro di retorica che, attorno al 70 d.C., già anticipava i risultati di una ricerca americana del 2010: il sapere delle nuove generazioni è scarso? Chiaro, è perché i ragazzi stanno poco sui libri; un’ovvietà oggi supportata dalla scienza: in cinquant’anni gli studenti hanno dimezzato il tempo medio destinato allo studio, passando da 24 ore settimanali ad appena 14.

A rilevarlo i ricercatori dell’Università della California che hanno spiegato, conti alla mano, la tendenza al ribasso individuandone le ragioni. Che sono ben precise, sono cinque e che in America hanno messo d’accordo, sociologi, educatori e alunni. E in Italia? I professori, chi più chi meno, applaudono. Fischi, invece, dai protagonisti. Per lo meno i 5.000 studenti interpellati sul sito www.skuola.it: «Ma se noi studiamo un’ora e mezza al giorno ed è tantissimo!». Chi sta male e chi sta peggio, resta il fatto che il tempo passato sui libri si è ridotto. Ma per colpa di chi?

Spiegazione numero uno: non esistono più i professori di una volta. Sono poco severi e troppo rassegnati: perché mai, quindi, gli studenti dovrebbero darci dentro? «Condivido - rincara Rino Di Meglio, coordinatore nazionale della “Gilda degli insegnanti” - ma è sbagliato pensare che i docenti non siano esigenti a causa dei ragazzi. Piuttosto è per l’atteggiamento dei genitori. Oggi a essere severi gli insegnanti rischiano lavate di testa pubbliche: ai colloqui arrivano padri e madri agguerritissimi». Circostanza che fa pensare immediatamente alla platea di un reality. Ed eccola la ragione numero due del disamoramento dello studio a casa: la televisione.

Non sono passivi
Per gli americani sarebbe la passività a cui la tivù ha abituato le menti ad avere un ruolo determinante nell’incapacità dei ragazzi di concentrarsi sulle pagine di un libro: «Banalità - si oppone Alessandra Cenerini, presidente dell’Adi, associazione docenti italiani - le nuove generazioni si sono risvegliate dal torpore. Oggi sono “multitasking”, hanno dimestichezza con diavolerie informatiche e telematiche: aprono blog, discutono sui social network, mettono foto, scaricano filmati. I “nativi digitali” sono tutto meno che passivi. Sono svogliati perché già passano un sacco di tempo a scuola: 36 ore a settimana sono troppe». E quindi a casa si rilassano abbuffandosi di Internet?
In soccorso del web arriva la regola numero tre. Sostiene la ricerca californiana: le ore di studio diminuiscono già negli Anni ‘80, la media settimanale era attorno alle 16,8, perciò siti e chat che si sono sviluppati più tardi e di cui i ragazzi vanno pazzi, hanno poca responsabilità. Per Gregorio Iannacone, presidente dell’Andis, associazione nazionale dirigenti scolastici, bisogna andar cauti: «Internet ha sveltito i tempi di studio. Una volta per una ricerca servivano pomeriggi interi: andare in biblioteca, prendere appunti, riscriverli, consultare altri libri: un lavoro infinito». Che agli studenti di oggi viene risparmiato. «Ma poi - avverte Iannacone - bisogna vedere la qualità del compito. Troppi studenti pensano che tutto sia risolvibile con il copia-e-incolla».

Ottimizzare gli sforzi
Spiegazione numero quattro: i ragazzi di tutte le epoche hanno applicato il principio «il massimo del risultato con il minimo dello sforzo», ma oggi lo completano così: «e se il massimo non arriva, chi se ne frega». Corollario della teoria è l’idea della società descritta dagli studenti: non premia il merito, manda avanti chi ha fortuna, chi sa vendersi bene o può contare su buoni agganci. Perciò, dicono i ricercatori, gli studenti si chiedono: «A che serve impegnarmi?». Per gli esperti italiani è questo il tasto dolente su cui dovrebbe lavorare la collettività mentre ironicamente si oppongono alla «teoria numero cinque»: se per gli analisti Usa, lo studio delle lingue straniere, è stato notevolmente ridotto, motivo per cui si arriva a 14 ore complessive a settimana la spiegazione non vale in Italia. Commenta Di Meglio: «No. Spiacenti ma da noi le lingue straniere non incidono. I nostri ragazzi le hanno sempre studiate con lo stesso impegno: poco ieri e poco oggi».