Valutazione sì,
valutazione no,
valutazione non so

 di Franco De Anna, da ScuolaOggi 11.8.2010

Dal web ai quotidiani gli interventi, a proposito e sproposito, sulla problematica della valutazione nella scuola si moltiplicano, a volte apodittici e assertivi, a volte affannosi e difensivi, a volte predicatori delle nuove tecniche e del nuovo impegno.

Ovviamente ogni intervento meriterebbe, anche quando suggerisce il cestino come destino meritato, puntuali commenti, precisazioni, analisi critiche.

Non è il caso di svilupparle in queste pagine. Valga solo una considerazione generale: tale dibattito, così eterogeneo nelle categorie utilizzate e così variegato nei registri della comunicazione testimonia di una situazione di “transizione” nella cultura valutativa “agita” nella scuola, contrassegnata da contraddizioni e da opacità allarmanti, che fanno da contraltare all’enfasi con la quale l’argomento viene trattato sotto il profilo tecnico (dalle rilevazioni INVALSI a progetti come quello Qualità e Merito) e sotto il profilo “politico” (ehm…).

Una transizione resa problematica ed opaca sia perché non sono chiare le mete e gli approdi che si vorrebbero raggiungere, sia perché forse ancora meno chiari sono i punti di partenza e i percorsi fin qui seguiti. “Da dove veniamo e dove andiamo” sono entrambi oggetto di interrogativi e necessitanti di approcci critici adeguati.

Come in ogni transizione autentica, l’approdo non è certo scontato: nei processi reali si intersecano soggetti, volontà, stratificazioni del passato e speranze del futuro la cui combinazione rende incerto il risultato.

E’ una caratteristica di tutti i processi di transizione sfuggire agli automatismi e determinismi dei processi, delle volontà, dei “comandi”; ma è altrettanto vero che una delle leve di guida “attraverso” la transizione è sempre rappresentato dalla coerenza, compattezza, riconoscimento comune delle culture dei protagonisti dei processi.

Il confronto in corso sulla valutazione interroga, appunto, la “cultura valutativa” disponibile al popolo della scuola; intendendo con il termine “cultura”, riferito ad un ceto professionale come i docenti, un mix di “senso comune”, valori condivisi, deontologia, strumentazioni tecnico professionali.

Tutto ciò rappresenta il drammatico punto debole dell’oggi e dell’impresa di attraversamento della transizione che abbiamo di fronte.

La fenomenologia è complessa, ma volendo semplificare possiamo polarizzare i comportamenti reali che oggi riscontriamo nella scuola: da un lato la tentazione della “vendetta pedagogica”, dall’altro l’opportunismo lassista che bypassa l’inquietudine e l’impegno sempre connessi con “l’elaborazione del giudizio” (magari demandandolo all’automatismo delle “misurazioni”).

La prima è stata liberata e si è alimentata dal semplice passaggio alla “scala numerica”, ai dispositivi del calcolo delle “medie”, e dalla esortazione alla “serietà” ammantata mediaticamente di “nuovismo” (come se qualcuno avesse mai predicato la necessità di non essere seri). La repentinità del “passaggio” lascia trasparire un sedimento profondo di “incultura valutativa” che non può che allarmare.

Come se una parte del corpo docente, riottosa ma silente di fronte alla complessità di approcci valutativi che provengono da un più consapevole passato (valga per tutte le citazioni la Legge 517), si sentisse finalmente “liberata” a “dare i numeri” e delegare ad essi e al loro automatismo ogni più approfondita riflessione.

La seconda, pur muovendo da una cultura valutativa improntata ad approcci “di accompagnamento” o se si vuole “promozionali” (vedi la Legge citata, tra l’altro una delle meglio scritte nella normativa del nostro sistema di istruzione), come se, incapace di mantenerne la profondità, si accontentasse di stare nel suo “perimetro”, manifestandosi, appunto, come opportunismo lassista.

Come dico spesso non si troverà mai, nel testo della 517, il termine “standard”. Ed esso popola invece oggi ogni discussione e confronto sulla “valutazione”.

La questione “standard” si propone oggi come essenziale per rielaborare cultura valutativa. Le ragioni sono molte, e molte condivisibili anche essendo pienamente avvertiti delle “derive di adattamento” che la problematica degli standard di apprendimento comporta.

Abbiamo bisogno di “misurarci con i risultati misurabili”, sia per vincoli e impulsi internazionali, prima di tutto dall’Unione; sia per la necessità che il sistema di istruzione “dia conto” di sé, del suo concreto funzionamento, dell’uso delle risorse pubbliche che comporta, della funzione sociale che esercita. Sia, aggiungo, per le necessarie analisi critiche che si impongono anche, e forse soprattutto, a chi su tali funzioni essenziali dell’istruzione continua a giocare la propria scommessa, personale e politica (per esempio i molti che sostengono la necessità vitale dell’investimento in istruzione e formazione).

Come sappiamo le comparazioni nelle rilevazioni internazionali sui livelli di apprendimento indicano risultati “non sostenibili” per il nostro sistema; possiamo e dobbiamo esercitare tutte le analisi critiche circa strumenti e modalità di rilevazione e comparazione; ma nulla ci autorizza a “tranquillizzare” quella coscienza critica, neppure le differenziazioni di analisi che lo stesso INVALSI propone nella considerazione del “valore aggiunto” (depurare i dati dalle variabili relative ai contesti socio-conomico-culturali ha certo significato analitico; ma i valori assoluti mantengono la loro portata inquietante). Ma non è questo l’argomento che voglio proporre.

Basti uno spunto. Dalle analisi dei dati relativi alle rilevazioni INVALSI sulla scuola elementare emerge per esempio che il rapporto tra la varianza dei risultati riferita al complesso della popolazione rilevata e la varianza dei risultati “tra” le stratificazioni di essa (tale rapporto potrebbe esser assunto come un “indice di equità” della funzione della scuola) dimostra due cose entrambe “destabilizzanti” della nostra tranquillità di coscienza.

  1. La stratificazione geografica delle rilevazioni dimostra non solo la differenza tra Nord e Sud (cosa abbondantemente nota) ma che laddove i risultati sono migliori (il Nord) essi hanno anche un minore rapporto tra le due varianze. Risultati migliori si accompagnano ad un maggiore “indice di equità”. Risultati peggiori si accompagnano ad un indice di equità inferiore. 

  2. Rimanendo entro la medesima stratificazione, nel passaggio dalla seconda alla quinta elementare, sia per italiano che per matematica, il rapporto tra le due varianze aumenta: a parità di contesto, la permanenza nella scuola aumenta le differenze, non le colma. L’indice di equità diminuisce anche all’interno del medesimo contesto con la permanenza a scuola.

Come dire: la funzione di emancipazione e di promozione sociale che tanta parte dell’opinione democratica ha affidato in passato e affida ancora oggi alla scuola sembra smentita dai fatti. E ciò prima, durante e non ostante la Gelmini.

Non era dissimile la situazione della scuola italiana quale emergeva dalle più antiche rilevazioni internazionali (IEA, per esempio negli anni ’80).

I valori medi rilevati nel nostro sistema ci facevano occupare sempre posti molto arretrati nelle graduatorie internazionali; ma, a differenza di oggi, esaminando, per esempio il terzile più alto, ci consolavamo riscontrando che i nostri “migliori” studenti erano tanto “migliori” come quelli degli altri. (Oggi non è più così, la comparazione è peggiorata significativamente).

Siamo stati sempre un sistema ad elevata dispersione dei risultati e a basso indice di equità sociale per quanto riguarda le funzioni del sistema scolastico. La Gelmini ha tante responsabilità, ma non questa.

Colmare tale disequità sociale è stato l’impegno di tanta parte dell’opinione democratica nella scuola; ma occorrerà pure che ci si interroghi, fatto salvo il giudizio su quell’impegno, sul modo in cui si è espresso, sulle politiche scolastiche cha ha determinato, sugli strumenti che ha adottato, sulla cultura che ha promosso.

Per esempio, i dati delle vecchie ricerche IEA che ho ricordato risalgono ad anni di spesa scolastica affluente, destinata ad aumentare sia i tempi di apprendimento che gli organici della scuola. Quelle politiche, per come sono state condotte, hanno pagato in termini di “equità sociale”? La domanda è sgradevole me ne rendo conto; può far venire il mal di testa. Ma la decapitazione non è mai stato un rimedio contro la cefalea.

Quella opinione democratica sulla scuola ha storicamente assunto l’obiettivo di fare della scuola un fronte di emancipazione, eguaglianza, una condizione di colmatura delle differenziazioni sociali. Assumendo che il condizionamento proveniente dai contesti socio-economico-culturali deprivati si riflettesse sulle prestazioni di apprendimento, ha teso e preteso di operare per la colmatura di tali differenze anche attraverso una “cultura valutativa” di “accompagnamento” di “promozione”.

E’ tale spirito, che è stato interpretato e vissuto da molti di noi “sul campo”. E ciò costituisce un valore, per la nostra scuola e per il nostro Paese.

Ma i risultati ci obbligano, proprio per non lasciare spazio ed argomenti ai “liquidatori”, a non accontentarci di pure e semplici riproposizioni.

La “promozione sociale” o il “risarcimento delle disuguaglianze” possono e devono animare lo spirito e l’ideale di chi si batte per la scuola; ma la “promozione” non può sostituire la “preparazione” come fattore operativo del funzionamento del sistema.

Riconoscere e ribadire la funzione di condizionamento che i fattori socio-economico-culturali operano rispetto ai livelli di apprendimento, mentre fa giustizia di ogni approccio valutativo che suoni come “vendetta pedagogica” non può, per esempio, farci dimenticare quanto precoce sia tale condizionamento, i cui risultati precedono spesso di gran lunga le età scolari. All’ingresso nella scuola, molti giochi son già stati conclusi.

Questo potrebbe voler dire, per esempio, qualificare una politica democratica per l’istruzione in termini di priorità di investimento “in bambini” (mi si passi lo slogan).
Reclamare una politica di investimento in istruzione, cosa assai sensata, non può farci dimenticare che se tale investimento filtra attraverso la costanza dei fattori organizzativi degli studi (le classi, le ore di lezione, le classi di concorso, i programmi, le cesure ordinamentali, l’incastellatura formale dell’organizzazione del lavoro scolastico, ecc…) i risultati non sono dissimili da quelli verificati nel corso degli ultimi trent’anni. Come in ogni impresa,“l’organizzazione del lavoro” è uno snodo fondamentale capace di dare produttività (ed abbassare il rischio aggiungo io) di una politica di investimenti in istruzione. Ambienti di apprendimento (spazi, tempi, relazioni), più che “ore di lezione”.

Ancora: i risultati contraddittori di trent’anni di politica scolastica (rispetto alla scommessa del valore di equità sociale della scuola) ci rammentano che la “distribuzione sociale” della redditività dell’investimento in istruzione ha proceduto “controgradiente” rispetto alla distribuzione sociale della ricchezza. Brutalmente: la “redditività” per pochi pesa sul contributo di molti. Il nesso istruzione, welfare, fiscalità generale deve essere modificato per qualificare e validare una vera e propria politica di investimento in istruzione da parte dello schieramento democratico, e a partire dai livelli più elevati di istruzione.

Come è stato interpretato concretamente in oltre mezzo secolo di politica scolastica il lascito dei padri costituenti (l’istruzione inferiore per almeno otto anni gratuita ed obbligatoria: non cinque anni di elementare e tre di media, ma un “set” di saperi, valori, conoscenze, competenze essenziali all’esercizio della cittadinanza, alla partecipazione ed al controllo della cosa pubblica, alle chances di crescita materiale e spirituale del cittadino) dovrebbe essere oggetto di riflessione e di critica storica attenta, proprio oggi, di fronte ai rilievi ed alla fase storica critica che attraversa il nostro sistema di istruzione (altro che politica del cacciavite!!).

Io credo che in questi decenni solo la scuola elementare abbia “davvero” funzionato, per la sua parte, in termini di “promozione popolare”. E non per caso la criticità del nostro sistema si quantifica proprio nella incapacità di “governare” il passaggio alla “secondarietà” degli studi. A partire dalla Scuola Media.

Annidata tra le positive istanze della “promozione sociale” e del “risarcimento” dei condizionamenti socio-economico-culturali, ha in realtà operato come “paradigma culturale” cui riferire la stessa “cultura scolastica” (e quella detenuta dalla maggior parte dei docenti) un modello di “cultura da ceto medio professionale”.

Ad essa sono stati parametrati i processi valutativi della scuola e prima ancora i suoi contenuti e le sue modalità di gestione dei processi di apprendimento.
E quando le istanze della promozione sociale e del risarcimento dei più deboli declinano sull’orizzonte, come in questa fase storica, nella valutazione degli apprendimenti emergono le contraddizioni dalle quali sono partito e che rendono così problematica la transizione che attraversa la “cultura valutativa” disponibile alla scuola.

Ricorderete un vecchio lavoro di ricerca sociologica di Barbagli sugli insegnanti. Si intitolava “L vestali della classe media”. Erano gli anni della scuola di massa (“tutti a scuola”, ma non in una “scuola per tutti”). Ebbene, molti in quegli anni, citando il lavoro, ne deformavano il titolo che riportavano come “Le vestali della scuola media”. Ecco, mai lapsus fu così rivelatore.

Ci sarebbe molto da fare.

Solo un aneddoto sul campo. Esami di Stato appena conclusi. Una Commissione di un Istituto Tecnico ai lavori della quale partecipo come ispettore. La Commissaria di italiano, per la verità esasperata dalla impreparazione del candidato chiede “Come è finito fra’ Cristoforo?”. Il candidato “Speriamo che stia bene”. Ho a stento trattenuto le risa per il carico di ironia che accompagnava l’ignoranza della risposta.

A latere la commissaria mi confida allarmata “Così perdono la stessa identità culturale…”. Ho trattenuto a stento la domanda “L’identità di chi?”