scuola
L'utopia del '62 ha fallito. Giovanni Cominelli il Sussidiario, 2.8.2010 Poiché la politica è furiosamente intenta ad altro, possiamo ritagliarci uno spazio estivo per ri-pensare, fuori dalle contingenze politiche, il destino del nostro sistema educativo nazionale. Che sia travolto da una crisi irreversibile solo pochi “negazionisti” lo... negano. Si dividono in due categorie: quelli che... “la mia esperienza” e quelli che...”non cambierà mai nulla”. Alla prima categoria appartiene chi dice: “sono un bravo maestro, i ragazzi mi seguono affascinati verso le vette del sapere, come Dante Beatrice. Mi seguono, quali che siano le condizioni ambientali”. La teoria è: c’è sempre del positivo, che importa del sistema e dell’ambiente circostante? Conta l’esperienza, il resto è “progetto”, “politica”, “ideologia”. Alla seconda categoria appartengono i realisti cinici: “la condizione è questa da sempre, cambiare è impossibile, siamo minoranza, tanto vale adattarsi e ricavare qualche spazio di libertà e qualche fringe benefit, qui e oggi”. La traiettoria è “dalla minoranza creativa alla minoranza conservatrice”. Spesso le due posizioni convivono schizofrenicamente inconsapevoli nella stessa persona e nella stesso soggetto collettivo. Eppure, la stragrande maggioranza degli insegnanti, dei genitori, dei ragazzi fa quotidianamente tutt’altra “esperienza”: la crisi del sistema educativo è ormai un fatto pubblico e globale. E’ una crisi di culture e di strutture, che hanno funzionato per circa duecento anni e che oggi sono squassate dallo tsunami della globalizzazione. Gli istituti scolastici, organizzati in sistemi nazionali, stanno cessando di essere luoghi della conoscenza e perciò dell’educazione. Sono centri di erogazione dei servizi del Welfare: assistenza, socializzazione, intrattenimento, parcheggio, differimento. Il tempo della società italiana si sta stirando in avanti: adolescenza lunga, giovinezza a oltranza, maturità rinviata. La scuola e l’Università si sono passivamente allineate alla transizione lunga verso la vita reale. Non che i ragazzi non accedano più al sapere: ma non passano più principalmente attraverso la scuola. Le conseguenze sono oggetto di una vasta letteratura, che qui possiamo solo sintetizzare in una sola: la rottura del paradigma millenario dell’educabilità, la disruption del filo diacronico che tiene insieme le generazioni. Generosa di indagini e di analisi fenomenologiche, la suddetta letteratura sul sistema educativo continua, tuttavia, ad essere dominata dai tradizionali blocchi ideologici di cultura politica per quanto riguarda l’individuazione delle cause. “Cultura politica” significa qui, per un verso, una certa visione del rapporto tra la società italiana, le istituzioni, il sistema educativo – una politics - e, per altro verso, un conseguente set di proposte di politiche – le policies -. C’entrano poco le antropologie e le pedagogie, comunque curvate dentro “la visione”. Quanto al centro-destra, l’idea di fondo che si è affermata nell’ultimo periodo è che la crisi del sistema sia dovuta alla “catastrofe del ’68”: lassismo antiautoritario, 6 politico, egualitarismo esacerbato, “tutti promossi”, umiliazione sociale e professionale degli insegnanti, fine dei Programmi nazionali, perdita della Grammatica ecc... Ergo, occorre ripristinare lo status quo antea. Che è, come ben noto, quello del filo resistente che lega diacronicamente – facendo riferimento ai principali Ministri dell’Istruzione - Gabrio Casati (1859), De Sanctis (1861), Daneo-Credaro (1909), Benedetto Croce (1920), Giovanni Gentile (1922), Pietro Fedele (1925), Giuseppe Bottai (1938), Guido Gonella (1946), Aldo Moro (1957), Luigi Gui (1962). Attraversando tre regimi – liberale, fascista, repubblicano – e culture pedagogiche spesso contrapposte – dal positivismo all’idealismo al personalismo, all’attivismo, al cognitivismo, alla teoria del capitale umano - il sistema educativo ha mantenuto fino al 1962 finalità inalterate e assetto ordinamentale compatto: una scuola di base, che serve all’alfabetizzazione primaria; una scuola post-elementare articolata in due o tre canali, di cui solo quello della scuola media aperto a sbocchi superiori; una scuola superiore liceale iperselettiva, che forma le classi dirigenti; una scuola superiore tecnica, che forma le professioni tecniche. Curriculum, ordinamenti, assetto istituzionale ed amministrativo statal-centralistico, politica del personale si tenevano coerentemente. La scuola era frequentata da una minoranza di ragazzi. La “catastrofe” accade nell’anno di grazia 1962, anno primo del governo di centro-sinistra – Fanfani presidente del Consiglio, Luigi Gui, ministro dell’Istruzione -, quando viene introdotta la Scuola media unificata. Il dibattito al riguardo era incominciato circa 100 anni prima, fino alla Carta della scuola di Bottai (1939). Furono Luigi Gui, Pier Luigi Sullo (1969), Ferrari Aggradi (1969), Riccardo Misasi (1972), Franco Maria Malfatti (1974) a tentare di gestire gli effetti sconvolgenti che l’irruzione improvvisa di masse di studenti nella scuola media e, a cascata, nelle superiori e nell’Università provocò sul vecchio sistema. Il “fatale ’68” ne fu la conseguenza più rilevante, non certo la causa. E’ dal 1962 che la vecchia e nobile scuola della conoscenza per pochi incomincia a cambiare funzione e destino. Aprendosi a tutti, cessò di essere per pochi; ma cessò anche di essere “di qualità”. Quanto alla sinistra: a suo tempo appoggiò quasi compatta l’istituzione della Scuola media unificata e l’apertura del sistema a grandi masse. Anch’essa, come la DC, fu prigioniera dell’illusione di mantenersi fedele al paradigma gentiliano e, contemporaneamente, di aprirlo al popolo. Solo che “scuola gentiliana di massa” è un generoso un ossimoro. Quantità e qualità sono categorie che solo le gherminelle dialettiche di Engels riuscivano a far convivere sulla carta. La “qualità” gentilianamente intesa non è compatibile con la quantità. Nel sistema gentiliano la qualità è funzione di una scuola per i pochi, quelli in grado per ragioni socio-culturali pre-esistenti di accedere al sapere, hegelianamente organizzato in discipline. Trastullandosi in questa dialettica sia la Dc sia il PCI hanno finito per sottoprodurre, già con la legge n. 910 dell’11 dicembre 1969 di Ferrari Aggradi - che consentiva l’accesso a tutte le Facoltà universitarie da parte di tutti i diplomati di ogni ordine - un sistema ad alto degrado. Il movimento del ’68 lo aveva richiesto; le classi dirigenti della Prima Repubblica hanno sventuratamente risposto sì, come la monaca di Monza. Il ’68 è un alibi retorico e un’autoassoluzione, senza nessun fondamento storico. E ora? Oggi, estate 2010, il sistema offre mille segnali di obsolescenza e di fallimento. Eppure la politics e le policies di ambedue gli schieramenti restano prigionieri culturalmente del vecchio paradigma. Il centro-destra pensa sostanzialmente di poter restaurarlo nella sua purezza, con qualche aggiornamento. Donde: ritorno alla disciplina, alla “serietà”, al rigore, alla selezione. Ritorno solo annunciato e predicato, nella realtà impraticabile. Basta guardare agli esiti degli esami di maturità di quest’anno! Il centro-sinistra insiste nell’illusione di una riformabilità del paradigma, badando bene a non metterlo in discussione. La storia intellettuale europea insegna che i paradigmi che non sono più in grado di contenere i nuovi dati di esperienza, non si riformano, semplicemente si buttano via e se ne costruiscono altri. Ha ragione Marshall Smith, consigliere di Arne Duncan, Ministro statunitense dell’Istruzione: “cambiamenti marginali non servono all’interno del vecchio sistema: consentono solo miglioramenti marginali”. Nuovi dati e nuove concettualizzazioni stanno emergendo dalla pratica italiana, europea e mondiale negli interstizi di un sistema in declino. Questo giornale spesso li documenta. L’elaborazione di un nuovo paradigma è già incominciata. Lo si può definire quello della “Personalising Education”. Nella sua prospettiva cambiano radicalmente dimensione le tessere del puzzle educativo: il curriculum, gli ordinamenti, gli assetti istituzionali e amministrativi, le politiche del personale e, last but non least, la filosofia degli investimenti in educazione. Ma su ciò, alla prossima puntata. |