Arriva l’anno horribilis della scuola italiana

Il caos è totale. Classi sovraffollate, migliaia di docenti precari perderanno il lavoro. C’è crisi in tutti gli ordini di scuola. In corso una vera battaglia culturale per la democrazia, per la qualità dell’insegnamento e per la libera circolazione delle idee.

di Luigi Jovino da il mediano, 27.8.2010

Sarà “l’anno horribilis” della scuola italiana. Le premesse ci sono tutte. Migliaia di docenti precari dovranno penare per conservare i posti di lavoro e tanti non saranno confermati. Il calo consistente di maestri, professori e del personale ausiliario porterà alla chiusura sistematica di diversi plessi periferici di scuola primaria e della scuola dell’infanzia. In sofferenza anche i residui istituti di montagna che con difficoltà garantivano la formazione a piccole comunità di persone che esercitano una grandissima funzione ecologica e culturale. Le classi, inoltre, sono al limite del sovraffollamento e rischiano anche gli insegnanti di sostegno che devono aiutare i più deboli.

La riforma delle superiori, molto confusa e poco delineata sta gettando nel panico i dirigenti scolastici che tra l’altro a causa dei tagli imposti dal Governo centrale, sono costretti a chiedere sempre più soldi alle famiglie per l’acquisto dei materiali didattici, per far funzionare i laboratori residui e per comperare gesso e carta igienica. Le tensioni salgono a mille e si prevedono scioperi e proteste a catena. La scuola italiana non si era mai trovata in un caos simile. Neanche nel dopoguerra, quando ci ha salvato la buona volontà e la voglia di ricominciare. Siamo di fronte ad incognite epocali e ad una svolta storica, senza che i cittadini abbiano realmente coscienza della gravissima situazione. Gli studenti, su cui ricadono le conseguenze negative, sono sempre più disorientati e giocoforza difettano in impegno ed abnegazione. Naturalmente la colpa non è loro, ma cresce in modo incredibile la curva delle incompetenze.

Siamo quasi all’ignoranza di Stato e molti indicatori di qualità ci portano agli ultimi posti nelle classifiche di merito internazionali. Alcuni semiologi, pochi anni fa, hanno fatto un’indagine ed hanno scoperto che i nostri teen agers conoscono a stento 9 mila termini. Dieci anni fa le parole conosciute erano sull’ordine delle 12 mila. I nostri studenti, e quelli campani in particolare, risultano poco “ferrati” in matematica e nelle scienze ed in Europa sono il fanalino di coda. Eppure abbiamo dalla nostra l’esperienza dei professori don Savino Coronato, di Renato Caccioppoli e della loro erudita scuola di matematica che ha fatto proseliti in tutto il mondo. Le cose non vanno meglio a Roma dove si accede alla facoltà di Fisica rispondendo esattamente a 37 test su 100. Cinque anni fa il limite minimo era fissato a 42.

Da considerare che il test è stato concepito per concedere la frequenza a chi risponde esattamente a 51 domande su 100. In tutti i campi della formazione, insomma, si registrano vertiginosi cali di tensione e di attenzione e la scuola, tranne rare eccezioni, sembra sempre meno adatta a capire e ad interpretare l’innovazione nel campo del lavoro e della tecnologia. Due anni fa i rettori delle università romane (Sapienza, Tor Vergata e Roma tre) hanno lanciato un appello affinchè i giovani si iscrivessero alle facoltà di Ingegneria, Fisica e Chimica. “Se andremo di questo passo – hanno denunciato – dovremo importare ingegneri dall’India e fisici dai paesi del Nord Europa”. Questo a dispetto dell’affollamento delle facoltà di Scienze della comunicazione, di Legge, di Lettere e di Sociologia, influenzate dall’ideologia dello Star system. Si potrebbe pensare che in una situazione del genere era d’obbligo una riforma. Credo che neanche la persona più sprovveduta possa negare questa necessità.

Le nuove riforme, però, hanno contribuito ad accrescere il caos e in molti casi assomigliano ad un deliberato disegno di distruzione e sottomissione della scuola pubblica, unica agenzia di formazione del consenso non sottoposta al controllo dei mezzi di comunicazione di massa. Ho notato con molto disappunto che una considerazione del genere non appartiene neanche ai partiti di sinistra. Nessuno si rende conto che si smantella la scuola per una strategia diretta del potere. Eppure dovrebbe essere chiaro a tutti che una scuola che fa libera formazione rende le persone meno schiave e meno influenzabili dalla televisione. È capitato tante volte. Gli insegnanti dopo fatti di cronaca sconvolgenti o di gravi disastri naturali, hanno attutito a scuola le conseguenze negative delle immagini e delle parole diffuse. Hanno spiegato e hanno dialogato a lungo con gli alunni e a volte sono riusciti a mitigare se non addirittura ad invertire il senso di alcuni messaggi dettati fuori le righe.

Non vorrei sbagliare ma alcuni anni fa i ministri della Pubblica istruzione qualche volta hanno chiesto l’intervento di presidi, maestri e professori in situazioni in cui era necessario approfondire il dialogo con i ragazzi. Oggi non accade più. Neanche a pensarci! Funzionano l’informazione teleguidata e i messaggi a reti unificate. Pensiamo, invece, a come deve essere formativa l’iniziativa di quelle scuole che insegnano a leggere il giornale, ad ascoltare il telegiornale o che addirittura scompongono i messaggi pubblicitari, mettendo a nudo le tecniche di persuasione occulta. Una scuola che fa questo lavoro crea oggettivamente problemi. A molti fa paura. Ecco perché hanno fatto abortire tanti nobili tentativi. È in atto il tentativo di subordinare la scuola pubblica a quella privata, dove non si formano i cittadini, ma i dirigenti. E non è un caso che Bossi, uomo forte dell’Italia odierna abbia dato ordine ai suoi uomini di menare duro ai professori “Perchè sono quelli che non votano Lega”.

Non si capisce neanche perché a tracciare la “riforma epocale” sia stata delegata una anonima e sconosciuta avvocatessa del Nord Italia, diplomatasi ad un liceo confessionale che ha come unica competenza quella di avere una sorella insegnante iscritta alla Cgil. Non è neanche logico che ai dirigenti scolastici le note della riforma della scuola dell’obbligo siano arrivate siglate dal ministro della Finanza e non da quello della Pubblica istruzione. Insomma lo sfascio è totale e siamo sull’orlo del baratro. Però sarà dura. Per fortuna possiamo contare su una rete diffusa di operatori scolastici cui non sfuggono le regole della corretta formazione e che certamente lotteranno per mantenere alti i valori dell’insegnamento e della democrazia. I reazionari hanno tentato più volte di distruggere una scuola in cui c’è libera circolazione di idee.

Non è neanche tanto lontano da noi il tentativo di eliminare dall’insegnamento il Darwinismo, considerato unanimemente una delle più grandi rivoluzioni del pensiero umano. E ancora oggi vengono recapitate circolari di provveditori che chiedono ai dirigenti di segnalare insegnanti facinorosi che parlano e insegnano liberamente o che criticano il Governo o che non si alzano in piedi quando muoiono militari in missione di pace o che non restano seduti quando a soccombere sono studenti ed operai. Credo che non sia un problema di ideologia, ma un dilemma culturale che ciclicamente attraversa la nostra nazione. È una battaglia di idee. Si scontrano diverse concezione sul modo di insegnare e sulla trasmissione dei contenuti.

Ricordo che quando alla Regione Lazio fu eletto Francesco Storace ci fu subito il tentativo di eliminare dai libri di testo la storia contemporanea, quella che parla della Resistenza e della fondazione della Carta costituzionale. Per difendersi dagli attacchi di migliaia di intellettuali che firmarono calorosi appelli, Francesco Storace fece affiggere un manifesto con scritta bianca su fondo nero in cui era riportata solo questa frase “Qual è la vera cultura?” In verità nella scritta c’era un apostrofo in più che neanche il computer vuole riconoscere come vero.