i test standardizzati
presi tra due fuochi

di Alberto Martini da La Voce.info, 5.8.7.2010

Il ministro dell'Istruzione annuncia il ricorso a test standardizzati per misurare le competenze e i progressi degli studenti. E' una decisione largamente condivisibile, nonostante le critiche degli insegnanti. Ma non certo per le ragioni indicate dal ministro. I test sono un modo per capire e tentare di risolvere i problemi del sistema scolastico sulla base di evidenza empirica su cosa funziona e cosa non funziona. Non possono invece svolgere altri compiti, come ad esempio migliorare la didattica. Né tanto meno la loro adozione si trasforma automaticamente in crescita dell'economia.

Con un comunicato del 15 luglio 2010 inneggiante alla meritocrazia, il ministro dell’Istruzione annuncia una decisione largamente condivisibile: istituzionalizzare l’uso di test standardizzati Invalsi in ogni ordine di scuola, per misurare conoscenze e competenze degli studenti due volte l’anno, all’inizio e alla fine, e osservare i progressi compiuti.

Questa decisione saggia viene criticata a sinistra con una dose stupefacente di retorica e superficialità  e disinformazione, e motivata dal Ministro con una dose altrettanto stupefacente di retorica e superficialità  e disinformazione.(1)
I commenti all’articolo sul comunicato del Ministro apparsi sul sito di La Repubblica il 17 luglio sono in buona parte di docenti, presumibilmente di sinistra.  Ebbene, praticamente nessuno di questi commenti rivela una visione matura del problema: quello che si trova nei commenti è solo il malcostume di commentare le decisioni insultando il decisore ed evitando accuratamente di entrare nel merito delle questioni.

 

QUELLO CHE I TEST NON FANNO

Ma veniamo al merito della questione. Innanzitutto, non ha senso definire i test Invalsi “oggettivi”. Non sono oggettivi, sono solo standardizzati, cioè uguali per tutti. Questa è la loro forza. Possono essere discutibili nei contenuti, limitati nello spettro di competenze che coprono, possono contenere errori o inesattezze, ma sono utili perché consentono confronti, nel tempo, tra scuole e aree geografiche, tra gruppi sociali.

Non ha neanche senso affermare che i test permettono di “rilevare le carenze di ogni singolo studente”. È evidente che queste vengono rilevate giorno dopo giorno dagli insegnanti: sarebbe molto grave se la scuola aspettasse un test una volta o due all’anno per scoprirle.

Né ha senso parlare di “valutare oggettivamente i rendimenti delle singole classi”. Quello che un test standardizzato può fare è rivelare anomalie nei risultati ottenuti da una singola classe (e più realisticamente da una singola scuola) quando è confrontata con le altre classi (o scuole).

Ma occorre essere molto cauti nell’interpretare questi confronti. La scuola A può dare nei test risultati peggiori della scuola B  per almeno tre ordini di motivi:

a) perché ha studenti più scadenti in partenza;

b) perché ha docenti più scadenti;

c) perché ha avuto dirigenti più scadenti. Purtroppo tende ad esserci correlazione positiva tra questi tre fattori, il che rende ancora più difficile ricavare dal confronto una diagnosi precisa per il singolo caso, tantomeno l’attribuzione di precise responsabilità.

 Occorre un’accurata analisi statistica per isolare l’effetto “studente” dall’effetto “docenti” e dall’effetto “dirigente”: è un'operazione fondamentale per poter valutare la performance dei diversi soggetti, ma per farla c’è bisogno di un robusto quadro informativo, di cui i punteggi nei test sono solo un elemento. E per quanto accurata e onesta, l'analisi darà indicazioni di massima, su cui è possibile basare azioni di rinforzo e stimolo, non certo decisioni impegnative e delicate quali la retribuzione del singolo docente o la sua carriera.

 

SONO SOLO UNA DIAGNOSI, NON LA CURA

Ha ancora meno senso affidare interamente ai test l'obiettivo di migliorare la qualità della didattica e per giunta attraverso meccanismi di tipo premio-punizione. Il problema non è se una tale visione della scuola sia è di “destra” o di “sinistra”, il problema è che semplicemente non funziona, come dimostra l’abbondante esperienza internazionale e la connessa letteratura scientifica.

A cosa servono dunque i test standardizzati? I test scolastici sono come quelli clinici, servono a identificare patologie, debolezze, carenze. Ancora di più assomigliano agli studi epidemiologici perché identificano problemi a livello collettivo, e non a livello del singolo paziente, pur richiedendo dati sui singoli pazienti. 

Test clinici e scolastici condividono un’altra caratteristica: hanno senso se c'è la volontà di curare il paziente una volta individuato un problema, non di colpevolizzarlo o peggio di punirlo.  (2)

“Lei ha la glicemia a 150”.  Cento euro di multa! “Lei ha la minima a 120”.  Si vergogni!

Questo è il cuore del problema, che né il Ministro né i suoi detrattori di sinistra sembrano capaci di riconoscere.  I test nella scuola sono un modo di capire e tentare di risolvere  i problemi sulla base di evidenza empirica su cosa funziona e cosa non funziona.  E non invece sulla base di interessi corporativi o esigenze di bilancio, entrambi mascherati in modo più o meno maldestro con ideologismi vecchi (“bisogna cambiare il “sistema”) o nuovi  (“il merito è il motore della crescita”)

 

(1) In realtà c’è già una legge, la 276 del 2007, che richiede la misurazione dei progressi sottoponendo a test gli studenti di II e V elementare, I e III media, II e V superiore. L’Invalsi già lavora su questi test: ad esempio, il 17 giugno 2010 si è svolta la prova standardizzata per la terza media. Il comunicato del ministro tace del tutto su questo fatto.

(2) Un rischio del nuovo corso ministeriale è passare da nessun test a troppi test. Già quelli individuati dalla legge 276 forse sono troppi. A scopo diagnostico, ne basterebbero tre ben fatti: V elementare, III media e V superiore, con l’aggiunta di una anagrafe degli studenti funzionante. L’esempio della Polonia da questo punto di vista è da imitare.