LE IDEE

A scuola cresce anche
il divario tra Sud e Sud

Marco Rossi Doria La Stampa, 13.8.2010

Sono usciti i dati dell’Invalsi raccolti, durante la primavera, in 9600 scuole, 87.800 classi e con 1.716.000 bambini delle classi seconda e quinta della scuola primaria e della prima media. Questi si aggiungono a quelli della prova strutturata fatta da tutti i ragazzi durante l’esame di terza media. Si tratta di test che iniziano a misurare la capacità di lettura e comprensione, alcune competenze grammaticali di base, alcuni fondamenti, per questa età, della matematica. In futuro si potranno trovare prove più prossime al lavoro effettivo delle scuole.

Con un numero maggiore di variabili controllate, con migliore equilibrio tra difficoltà proposte e abilità misurate e senza ambiguità - come è stato nel caso della prova di terza media - tra funzione di rilevazione e prova d’esame con intento di certificazione. Ma, al di là dei miglioramenti necessari, resta il fatto che la scuola ha a disposizione una quantità enorme di dati finalmente confrontabili sui quali poter riflettere pubblicamente. Un bene in sé.

La sola uscita di questi dati ci dice che - mentre molta parte della classe politica è impegnata in una rissa perpetua senza vero confronto sui risultati e i problemi reali - decine di migliaia di docenti italiani hanno saputo e voluto valutare con cura i risultati del proprio operare. E lo hanno fatto accettando in pieno un sistema di controllo e autocontrollo e dunque - come dice il rapporto - «senza alcun atteggiamento opportunistico», cioè senza imbrogliare, con onestà intellettuale. Si tratta di una novità culturale e politica in senso alto, uno di quei gesti silenziosi di un’Italia che vuole, cerca e prova a fare meglio della sua classe dirigente. Ed è riduttivo dire che ciò è avvenuto perché è stato imposto: altre volte le valutazioni imposte sono naufragate.

Qui si tratta di un atto collettivo di civismo responsabile - nella pubblica amministrazione e relativo a una cosa delicata quanto complessissima quale è il valutare cosa si insegna in relazione a cosa si impara. Tale atto ha visto un’attivizzazione di migliaia di docenti italiani della scuola di base. I quali hanno dato luogo a una prima vera rilevazione partecipata. Sia a Nord che a Sud. Pur sapendo i docenti del Mezzogiorno quale abissale differenza vi sia nelle condizioni reali di lavoro e in quelle sociali e culturali di partenza dei propri ragazzi. È, dunque, avvenuto qualcosa che tende ad avvicinarci al resto del mondo e a superare le storiche diffidenze che ogni italiano ha verso la cultura dei risultati. Il fatto che i dati, scuola per scuola, saranno restituiti ai docenti a fine agosto e che molte scuole intendono usarli per progettare meglio le attività a settembre, indica che è più promettente un potenziamento professionale partecipato e collegiale che misure di controllo e sanzione dall’alto, tanto sbandierate.

I risultati dei dati ci dicono alcune cose gravi e note. Che l’italiano ha bisogno di grande cura precoce. Che siamo indietro in matematica ovunque. Ma soprattutto che le scuole del Sud riflettono la divisione in due del Paese e quella tra le diverse zone dello stesso Mezzogiorno. Si vedranno i dati disaggregati. Ma è facile prevedere che saranno peggiori nelle periferie urbane, dove si concentrano povertà, monoreddito, famiglie numerose e disoccupazione, dove i livelli di alfabetizzazione dei genitori sono più bassi, dove gli enti locali non hanno attivato interventi compensativi, dove gli edifici e le strutture sono peggiori, dove mancano asili-nido e dove è più macroscopico quel terribile divario con il Nord sul tempo-scuola, che oggi vede il Meridione con l’8,3 per cento delle classi di scuola primaria a tempo pieno contro il 42,6 del Nord-Ovest, il 34,3 del Centro e il 25,3 del Nord-Est.

Forse è davvero giunto il tempo per mettere queste cose - e non altro - all’ordine del giorno dell’agenda politica.