scuola

Grazie ai tagli della Gelmini,
i ricercatori sono costretti a cambiare lavoro

Paolo Musso il Sussidiario, 5.8.2010

Sembra che nessuno si sia ancora reso pienamente conto della gravità della situazione nelle Università italiane e, in particolare, di cosa rischia di succedere a settembre. La prima cosa da capire è che a causa dei continui tagli esiste oggi un numero enorme di corsi (dell’ordine delle decine di migliaia) privi di un titolare, che vengono coperti attraverso supplenze che spesso sono a titolo gratuito e anche quando sono retribuite vengono pagate una miseria (intorno ai 3600 euro lordi all’anno per un corso-tipo di 48 ore). Queste supplenze vengono tenute perlopiù dai ricercatori, che quindi svolgono di fatto le stesse mansioni dei professori ordinari e associati, venendo però pagati molto meno e avendo molto meno potere.

Come se non bastasse, il continuo taglio ai fondi ha fatto sì che ormai anche la ricerca venga svolta in buona parte a proprie spese, come io faccio da sempre (per capirci, quest’anno ho avuto 906 euro di fondi per la ricerca, che non coprono nemmeno la partecipazione a un congresso internazionale: se voglio fare altro, devo pagarmelo di tasca mia). Detto in termini più chiari, se l’Università è riuscita a sopravvivere fino ad oggi è solo perché si è di fatto trasformata in una gigantesca organizzazione di volontariato.

A fronte di questa situazione, negli ultimi mesi i ricercatori, anziché vedersi in qualche modo premiati per il loro lavoro si sono trovati di fronte a norme che li penalizzerebbero ulteriormente in maniera molto pesante. Anzitutto, nella formulazione originale del DDL Gelmini, che per il futuro abolisce la figura dei ricercatori a tempo indeterminato, era previsto per quelli già in servizio la possibilità di una “corsia preferenziale” (ancora da definire nei dettagli) per diventare professori associati, senza però alcun aumento di stipendio, il che non sarebbe neppure una semplice istituzionalizzazione dello status quo, ma comporterebbe addirittura un danno per i ricercatori stessi, rendendo obbligatorio ciò che ora fanno volontariamente e cancellando il sia pur modesto beneficio delle supplenze retribuite.

Su questo erano in corso delle trattative, ma nel frattempo è arrivato il provvedimento Tremonti che prevede il blocco degli aumenti per 3 anni, senza per di più la possibilità di ricuperare successivamente gli scatti perduti. Ciò significa che questa decurtazione dello stipendio uno se la porterà dietro per tutta la vita, penalizzando maggiormente chi è all’inizio della carriera e guadagna meno, risultando di fatto equivalente ad una vera e propria “tassa dello sceriffo di Nottingham”, inversamente proporzionale al reddito.

Per queste ragioni, la maggior parte dei ricercatori italiani, con l’appoggio della grande maggioranza dei professori, ha deciso di non accettare più supplenze, né gratuite né retribuite, fino a quando la situazione non cambierà in modo sostanziale. Bisogna aver chiaro che questa protesta non è uno sciopero, che per sua natura è destinato prima o poi a finire. I ricercatori hanno semplicemente deciso di tornare a fare il proprio mestiere, rifiutandosi di continuare a svolgere mansioni a cui per legge non sono tenuti. Dunque, in assenza di aperture significative da parte del Governo, la protesta si protrarrà a tempo indeterminato, al limite anche per sempre, il che comporterà per quasi tutti gli Atenei l’impossibilità di rispettare i requisiti minimi di legge in moltissimi corsi di laurea e quindi l’impossibilità di far partire l’anno accademico.

Ciò significa in primo luogo che è interesse di tutti cercare un accordo coi ricercatori, che ne riconosca il lavoro fin qui svolto e dia loro adeguate prospettive economiche e di carriera. E, in secondo luogo, che il dibattito sull’Università così come si è svolto finora è viziato all’origine da un grande equivoco: infatti, anche eliminando tutti gli sprechi e tutti i corsi di laurea inutili (come peraltro è auspicabile che accada) l’Università risulterebbe comunque gravemente sottofinanziata, perché il risparmio fin qui garantito (e d’ora in avanti non più garantito) dall’attività di supplenza dei ricercatori è molto superiore al totale degli sprechi suddetti, dell’ordine di diverse centinaia di milioni di euro all’anno, dato che altrimenti sarebbe necessario assumere un professore per ciascuno dei corsi scoperti. Quindi qualsiasi riforma seria dell’Università deve necessariamente prevedere più (e non meno) risorse, altrimenti il sistema è destinato al collasso: non nel giro di decenni, ma già dall’anno prossimo.