SCUOLA

Il vero dialetto è l’italiano
che si insegna in classe

Feliciana Cicardi, il Sussidiario 8.9.2009

Nessuno nega che i dialetti abbiano la dignità di una lingua, anzi. Sono delle lingue a pieno titolo con una propria grammatica ed un lessico robusto che spesso porta con sé sfumature semantiche interessanti e di efficacia comunicativa a volte maggiore del lessico dell’italiano.

Non si possono dimenticare autori dialettali di grande levatura quali Belli, Tessa, Porta, Biagio Marin, e l’elenco sarebbe lungo. Un “caso” contemporaneo è incarnato da Andrea Camilleri che nei suoi numerosi romanzi crea una contaminazione piacevole e piena di levità tra l’italiano e il dialetto siciliano. Certo, se non si è siciliani, per apprezzare appieno i libri di Camilleri occorre leggerne più di uno, trarre dal contesto il significato di termini in vernacolo e – magari – aiutarsi con il glossario appositamente stilato che fa da accompagnamento alle opere stesse dell’autore.

Né si può dimenticare che molti termini di determinati dialetti sono entrati a pieno titolo nel vocabolario ufficiale della lingua italiana. E allora: dialetto sì, dialetto no nella scuola? La questione va formulata diversamente. Esiste nel terzo millennio l’Italiano per tutti gli italiani? E i ragazzi in età scolare quale italiano comprendono e, soprattutto, parlano e scrivono?

Se è vero, come è vero, che la lingua si apprende attraverso un “bagno di lingua”, attraverso un’immersione nella lingua stessa ascoltata e parlata, allora nasce una prima osservazione. In un universo mediatico la lingua a cui sono esposte le nuove generazioni non è più solo la lingua di cui sono intessuti i libri (romanzi e libri di testo), la lingua che si impone è quella della televisione la quale molto merito ha avuto nel costruire l’unità linguistica italiana, ma col tempo è rimasta vittima di se stessa e si è lasciata aggredire da lingue foneticamente marcate su vari dialetti o regionalismi e con costrutti non prettamente puri, linguisticamente parlando.

La lingua italiana è molto plastica, mutevole nel tempo, è confezionata in sottocodici e registri, e l’italiano ‘standard’ del 2009 non è quello degli anni sessanta. L’italiano che si cerca di insegnare a scuola spesso non rispecchia la varietà d’uso della lingua usata quotidianamente dagli alunni; è uno “scolastichese” a volte lontano dalle modalità linguistiche di comunicazione. L’italiano scolastico rischia per alcuni (non sono poche eccezioni) di rappresentare una seconda lingua e non la lingua materna che si usa nelle quotidiane interazioni verbali. Si crea quindi uno iato tra la lingua che serve per “imparare” e una lingua viva che serve per vivere. Senza pensare al lessico e alle forme sincopate di cui è costituito il “gergo” degli studenti, grazie anche alla struttura linguistica richiesta da SMS, telefonate flash ed e mail che assomigliano sempre più a post-it.

Se negli anni cinquanta/sessanta il dialetto e le sue forme venivano espunte dalla scuola attraverso “multe” inflitte agli alunni (50 lire per ogni volta che si usava il dialetto, e allora era una bella sommetta) oggi i ragazzi non si espongono così apertamente alla gogna, ma le inflessioni dialettali e gli errori dialettali permangono nella scuola, in una sorta di lingua meticciata. Sono presenti “scorie” dialettali nel raddoppiamento generalizzato delle consonanti nel meridione, come nell’eliminazione delle doppie nel Veneto; fenomeni che creano non poche difficoltà nell’apprendimento strumentale della lingua scritta a partire dalla scuola primaria.

In questo ultimo decennio si sono manifestati in termini esponenziali negli alunni fenomeni di dislessia. È un dato questo statisticamente provato e che crea non pochi problemi a docenti e discenti: oltre a costituire un forte deterrente nell’apprendimento della lingua scritta la dislessia inficia anche la possibilità di accedere a testi di studio e quindi alla cultura e alle conoscenze. Si riscontrano altresì, in presenza di tale disturbo, seri problemi nell’approccio e nell’apprendimento di una seconda lingua (inglese, spagnolo, francese che sia). Si stanno studiando, e proponendo poi nelle scuole, dei programmi specifici di recupero che però non danno sempre esiti significativi. Va da sé che la difficoltà a padroneggiare uno strumento per la conoscenza e la comunicazione crea frustrazione e, conseguentemente negli alunni, disinteresse per la scuola e per lo studio in generale.

La scuola ha quindi il difficile compito di recuperare negli alunni il gusto per la lingua italiana, ricercando un giusto equilibrio tra una lingua ingessata eminentemente scolastica ed una lingua d’uso, corretta sì ma viva. Ha altresì il dovere di offrire un’alfabetizzazione linguistica seria e robusta a tutti o quasi i suoi utenti (“non uno di meno” recitava uno slogan di qualche anno fa) individuando strategie e metodologie efficaci ma non punitive per chi è debole linguisticamente.

La scuola deve poter contare su docenti (tutti i docenti, non solo quelli di italiano) che sappiano offrire agli alunni una lingua italiana corretta ma viva, che sia riconosciuta dagli alunni stessi come potente strumento di comunicazione e di conoscenza. La lingua italiana è un gran bel gioco interattivo se si conoscono le regole che rendono il gioco utile e fruibile per lo sviluppo della propria mente e della propria identità sociale e culturale. E allora il dialetto? Oggi non rappresenta più la bestia nera della scuola, pertanto si possono orientare le energie per calibrare correttamente lo strumento lingua italiana che nella scuola è ancora trattato come materia di studio, prima ancora che come elemento indispensabile per stabilire rapporti significativi e per aprirsi a conoscenze che “interessino” la mente e la vita.

I ragazzi plurilingue padroneggiano più lingue nella misura in cui sono esposti a e possono usare più lingue. Chi parla più il dialetto come lingua con grammatica e sintassi specifiche? E la conoscenza della cultura locale oggi non passa in primis dall’apprendimento del dialetto locale. In Friuli, dove la parlata locale è riconosciuta dalla legge 482, in alcune scuole si insegna parlando “furlan”. Sembra che l’esperimento sul campo non sia particolarmente seguito ed apprezzato. Incominciamo a far sentire italiani i nostri ragazzi attraverso la padronanza di uno strumento comunicativo efficace e facilitante rapporti sociali e culturali. Se nasce il gusto del comunicare attraverso la lingua può nascere la voglia di conoscere altri codici linguistici. E qui, per favore, federalismo e centralismo statale non c’entrano. In un’epoca di europeismo e di globalismo la torre di Babele è francamente anacronistica e pericolosa.