I dialetti: una risorsa, con qualche rischio

 Pavone Risorse 8.9.2009

I dialetti sono una risorsa per il paese che ha la fortuna di ospitarli, rappresentano la tradizione di una comunità, anche della più piccola ed isolata, la loro storia. In Italia, da sempre attraversata da una miriade di popoli ed eserciti, se ne contano a centinaia: in Abruzzo sono almeno dieci i “ceppi” principali e a Pescara chi abita ai colli parla un dialetto diverso da chi vive lungo il litorale. E che dire di quelle comunità che hanno conservato la lingua del paese d'origine, come l'albanese o il greco in alcune zone del Mezzogiorno d'Italia, o il tedesco, il francese, il serbo-croato al Settentrione? L'Italia, insomma, è una babele di lingue. E allora, che senso ha la proposta della Lega Nord di istituire una cattedra di insegnamento di dialetto in ogni scuola? Quale dialetto dovrebbero studiare, per esempio, gli studenti del Liceo Scientifico “Leonardo Da Vinci” di Pescara, a metà strada tra colli e litorale? E gli studenti di Muggiò, al confine tra la provincia di Milano e quello di Monza? Il milanese o il brianzolo? E quale brianzolo? Quello dell'Alta o della Bassa Brianza?

E tuttavia i dialetti presentano anche tratti comuni, più nei contenuti che nella forma, come si evince da talune massime, come quella che segue, proveniente dalla Valtellina, terra leghista: “chi sùmena spin al vaghi miga a pé biòt”, letteralmente “chi semina spine, non vada a piedi nudi”. Insomma, chi semina vento raccoglie tempesta (nella vulgata napoletana:“chi va pe chisti mare, chisti pisce piglia”). Fare del dialetto un arma di lotta politica è molto pericoloso e non solo per le sue ricadute culturali, soprattutto in un paese dove a fatica si parla correttamente la lingua ufficiale, l'Italiano appunto.

Significa fare risorgere i, mai sopiti per la verità, antagonismi tra le migliaia di campanili presenti sul nostro territorio. Una pratica che si rivolta, però, contro i suoi stessi promotori, in quanto dimostra come non esista affatto una “Padania”, come neppure un “Regno del Sud” o una “Repubblica del Centro”. Basta andare allo stadio, a vedere, che so, Atalanta-Brescia, Verona-Vicenza, Genoa-Milan, Inter-Juventus, Pro Sesto-Novara oppure Bari-Lecce, Napoli-Roma, Pescara-Chieti o anche Pisa-Livorno, Ternana-Perugia, Ascoli-Sambenedettese. Si dirà che lo stadio è un'altra cosa, un luogo da sempre riservato ai barbari e ai loro primordiali istinti.

E tuttavia è proprio in questi luoghi che spesso scocca la scintilla, come accadde nella ex Jugoslavia il 13 maggio 1990, quando i tifosi della Dinamo Zagrabia e quelli della Stella Rossa di Belgrado diedero vita ad una battaglia sanguinosa sugli spalti e in campo, alla quale presero parte anche i giocatori delle due squadre.

Molti criminali della guerra che di lì a poco sconvolgerà tutta l'area balcanica si sono fatti le ossa allo stadio. Certo, da quelle parti gli odi si perdono nella notte dei tempi e la contrapposizione non è solamente linguistica, ma anche religiosa e politica.

E tuttavia, come recita il detto valtellinese, quando si seminano continuamente spine …

I dialetti sono una risorsa, ma in un mondo globalizzato non possono rappresentare il biglietto da visita dell'Italia, né di ipotetiche porzioni del suolo nazionale virtualmente (e ipocritamente) sottratte alla sua sovranità. Sono troppi e diversissimi tra loro per rappresentare una alternativa allo Stato nazionale. Insegnare agli studenti l'idioma che prevale nella minuscola comunità in cui si trovano a vivere (ma per quanto tempo ancora?), invece di investire sull'Italiano e sulle lingue straniere, è una pratica a tutti gli effetti perdente e controproducente anche per gli stessi promotori, come si è visto. Sarebbe molto più utile (e giusto) studiare la cultura delle varie comunità che compongono il nostro paese, poiché ci si renderebbe presto conto di come siano molto simili tra loro, presentando tutte storie di migrazioni, di drammi, di sogni e di speranze per la maggior parte andate deluse. Leggere in classe, per esempio, una poesia scritta da alcuni minatori abruzzesi emigrati in Belgio dopo la strage di Marcinelle non rappresenta un momento folkloristico né, tanto meno, una rivendicazione etnico-linguistica contro altre comunità, ma un momento di riflessione in cui possono identificarsi tutti gli italiani nonché coloro che sono arrivati nel nostro paese per sfuggire alla fame, alla miseria e alle persecuzioni, come milioni di italiani prima di loro: “quanda sacrificje aveme fatte, quanda speranze dentra a lu core … aveme lassate lu mare e le muntagne ppè la speranze de nu guadagne ...” (Quanti sacrifici abbiamo fatto, quanta speranza dentro il cuore … abbiamo lasciato il mare e le montagne per la speranza di un guadagno …).