SCUOLA
Precari per sempre? Giuseppe Bertagna, il Sussidiario 7.9.2009 È dal 1996 che il bilancio dello stato non permetteva più che gli allievi diminuissero e i docenti, in parallelo, aumentassero di numero. È da quell’anno che l’apparato scolastico non poteva più essere ciò che era stato dagli anni sessanta in avanti: la più grande agenzia nazionale di creazione dell’occupazione per i laureati. Agenzia al cui confronto l’Iri degli anni d’oro sfigurava come un inesperto principiante. È vero, la posta in gioco era altissima e nobile. Non si poteva perdere per rispetto dei diritti soggettivi di ogni cittadino e anche per rispondere all’interesse nazionale: l’istruzione per tutti e di ciascuno non solo a livello di scuole del primo ciclo, ma anche soprattutto di scuole del secondo ciclo e della stessa istruzione superiore. Ma vista la sproporzione tuttora, purtroppo, vigente tra i principi da tutti condivisi e la loro concreta applicazione (abbiamo una mortalità scolastica tra le peggiori dei paesi Ocse, abbiamo una scarsissima, per non dire inesistente, mobilità sociale assicurata dagli studi e, inoltre, nemmeno chi riesce a raggiungere la fine della corsa scolastica ci riesce con prestazioni qualitative comparativamente apprezzabili e apprezzate), già allora chi intendeva ragionare ed agire oltre i contingenti interessi politici e sindacali era portato a porsi questo franco interrogativo: non è che il diritto all’istruzione per tutti e di ciascuno e l’interesse nazionale ad avere le intere coorti generazionali alfabetizzate fino ai livelli superiori sarebbe stato meglio tutelato con un diverso modello istituzionale, ordinamentale e organizzativo di apparato scolastico? Il modello scelto dalla Repubblica, come noto, era stato, di fatto, quello statalista e a programmazione centralista ereditato dal fascismo e mai messo davvero in discussione. I docenti impiegati civili dell’amministrazione statale. «Funzionari» governativi. Le scuole uffici periferici del «cervello» ministeriale romano.
Questo modello, sul piano del
personale (e certo non solo su quello), aveva però da subito
dimostrato un’intrinseca antinomia. Già De Stefano, nel 1922, aveva
stabilito che nessuno avrebbe potuto accedere agli uffici pubblici
statali, e la docenza nelle scuole statali era un ufficio pubblico,
senza un concorso. Dal 1926 in avanti questa regola, tuttavia, tanto
era arricchita di nuovi, aulici deterrenti normativi quanto in
continuazione, e con orgoglio, tradita. Senza voler pensare agli
interessi politici ed alle pratiche corporative che spiegavano
questo tradimento, era un fatto che, tra predisporre i concorsi,
farli e rispettarne la graduatoria, da un lato, e gli immediati
bisogni da risolvere espressi dell’incipiente sviluppo della
scolarità, dall’altro, si aprivano voragini di tempi e di spazi.
Voragini che portavano a contraddizioni esplosive visibili fin dagli
anni trenta. Bisognava per forza ricorrere «ordinariamente allo
stato di eccezione». E così fu. Di più, e la cosa poteva essere
comprensibile, con le guerre (quella «imperiale» del 1935-1936 in
Etiopia e quella, devastante, mondiale, del 1940-1945). Ma non poco
di meno, e la cosa era certamente meno giustificabile, con i tempi
di pace. 1) legge 6 dicembre 1971 n. 1074 (introduceva gli incarichi a tempo indeterminato e istituiva i corsi abilitanti speciali); 2) art. 17 della legge delega 30 luglio 1973 n. 477 (graduatoria ad esaurimento per l’immissione in ruolo dei maestri assunti a tempo indeterminato e di tutto il personale degli altri ordini e gradi scuola assunti allo stesso titolo ed abilitatisi con i corsi abilitanti speciali; inoltre, apertura di nuovi corsi abilitanti, in attesa di istituire la formazione abilitante universitaria che entrerà in vigore solo alla fine del secolo; entrarono in ruolo circa 200.000 "diciassettisti"); 3) legge 9 agosto 1978, n. 463 (immissione in ruolo di altri 250 mila docenti incaricati a tempo indeterminato abilitati); 4) legge 20 maggio 1982, n. 270 (altri 150 mila docenti precari assunti in ruolo); 5) legge 16 luglio 1984, n. 326 detta anche «sanatoria delle sanatorie precedenti» con un numero non molto inferiore di interessati rispetto alla legge 270; 6) legge 4 luglio 1988, n. 246 detta anche «sanatoria della sanatoria delle sanatorie precedenti»; 7) legge 27 dicembre 1989 n. 417 (istituì, a fianco del concorso ordinario e della relativa graduatoria di merito, il concorso per soli titoli: in pratica si trattava di una graduatoria permanente a cui accedevano tutti gli abilitati con 360 giorni di servizio negli ultimi tre anni e poi altri abilitati con corsi speciali; previde inoltre l’ope legis per i docenti elementari di sostegno per gli insegnanti tecnico pratici; interessò oltre 100 mila persone); 8) legge 3 maggio 1999, n. 124 (previde l’iscrizione alla graduatoria permanente per l’immissione in ruolo anche per chi non aveva 360 giorni di servizio statale; istituì, inoltre, una sessione riservata di abilitazione); 9) legge delega 28 marzo 2003, n. 53 (introducendo la riforma poi non attuata delle scuole di ogni ordine e grado sulla base del nuovo Titolo V della Costituzione, «sana» ciò che ancora non era stato «sanato» nelle pieghe della varie leggi precedenti, e lo fa sempre con corsi riservati e con immissioni in ruolo riservate, le quali, tra il 2001 e il 2007 raggiungono la cifra di quasi 160 mila persone); 10) 2007: il ministro Fioroni vara un piano quinquennale per la riduzione degli organici, piano poi violentemente anticipato nel 2009 dal ministro Tremonti-Gelmini, parallelo ad un piano per l’assunzione dei precari che, naturalmente, trovando meno posti in organico entrano in ruolo con minore speditezza rispetto agli anni precedenti. E siamo alle proteste di oggi. Don Luigi Sturzo, il fondatore del partito popolare italiano, riteneva già nel 1919 molto pericoloso per la qualità degli studi e per la stessa democrazia la costituzione di un apparato scolastico statale che non poteva che funzionare nel modo ricordato. Per questo riteneva che l’istruzione dovesse essere una competenza regionale e degli enti locali. E inoltre che dovesse essere molto potenziata la libertà di scuole. Non solo gli enti locali, ma anche e soprattutto tutti gli altri enti sociali, dalla chiesa alle imprese, avrebbero dovuto essere incentivati ad istituire scuole. In questa maniera sarebbe aumentata la libertà di tutti: dei genitori di scegliere la scuola per i propri figli, dei docenti di andare ad insegnare con compagnie intenzionali e non casuali, della società nel suo complesso che avrebbe imparato ad investire sulla scuola. E si sarebbero create le condizioni anche per una maggiore soddisfazione del diritto di tutti e di ciascuno all’istruzione e alla formazione. La Costituzione formale del 1948 e ancora di più la riforma del Titolo V varata nel 2001 permetteva, in verità, di accogliere molti di questi suggerimenti (cfr. il testo Autonomia…cit.). La legge n. 53/03, del resto, tentò, almeno in parte, di farlo. Ma il suo destino è noto: approvata ma non attuata. Gli stessi che avevano approvato il Titolo V della Costituzione nel 2001 dissero, infatti, in parlamento, alla fine del 2006, che non lo condividevano. E così i peraltro timidissimi tentativi di superare il modello statalista e centralista nell’ordinamento, nell’organizzazione e nella gestione dell’apparato scolastico contenuti nelle legge n. 53/03 sono stati ritrattati nel consenso generale politico e sindacale. Sturzo riposa in pace. Ma non ci vuole molto a comprendere che, in questo modo, avremo ben presto un’altra «sanatoria delle ingiustizie non sanate con le altre sanatorie». E torneremo ad avere altri precari sui tetti.
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