SCUOLA

Troppa spesa, pochi risultati,
molti abbandoni. La scuola si dia da fare

Giuseppe Folloni, il Sussidiario 10.9.2009

È uscita l’annuale pubblicazione dell’Oecd “Education at a Glance 2009”, che riporta una serie di indicatori relativi ai sistemi di istruzione dei paesi Oecd e di paesi partners fra cui, per molti indicatori, il Brasile, Israele, la Federazione russa.

La pubblicazione compara fra i diversi paesi le quote di popolazione iscritte ai vari livelli scolastici, o in possesso dei titoli di diverso livello (in particolare secondario e i diversi titoli del terzo ciclo), nonché i relativi tassi di crescita. Il periodo di riferimento è il 1998-2007, i dati più recenti si riferiscono a quest’ultimo anno. Lo scopo per il quale vengono raccolte in maniera comparabile simili informazioni, oltre a quello conoscitivo e per mostrare le posizioni relative dei diversi paesi, è di aiutare le amministrazioni competenti ad orientare le politiche nel settore dell’istruzione. Oltre a dati sulle dimensioni quantitative (stock e flussi dei vari sottogruppi di popolazione) vengono riportate informazioni anche sulla qualità dell’apprendimento (attraverso gli ormai famosi indicatori relativi a test di conoscenza scientifico-matematica e di padronanza del linguaggio) nonché indicatori che potremmo chiamare “indiretti” della qualità del sistema scolastico collegati all’organizzazione e alle caratteristiche del settore scolastico.

Il rapporto analizza inoltre le relazioni fra il livello di istruzione raggiunto nelle popolazioni dei vari paesi e alcune altre dimensioni della vita sociale. In particolare viene analizzato il rapporto con il mercato del lavoro, misurato ad esempio dalla capacità di trovare occupazione se istruito, dal collegamento fra livello e tipo di istruzione e tipo di lavoro svolto, e le retribuzioni differenziali legate a un maggiore investimento privato in istruzione. Si danno stime del valore attuale netto dell’investimento in istruzione sia da un punto di vista privato (considerando solo costi e rendimenti a carico dell’individuo o della famiglia) sia da un più ampio punto di vista sociale (considerando anche i costi sociali dell’istruzione e i benefici indiretti che ricadono sulla società). Molto interessanti, da quest’ultimo punto di vista, risultano gli indicatori che riportano le cosiddette esternalità dell’istruzione, vale a dire l’effetto di questa sul modo di vivere la propria salute, sulla partecipazione politica delle persone, sul grado di relazionalità sociale e di fiducia nelle istituzioni e nei rapporti sociali. L’analisi di questi “effetti esterni” è fatta tentando anche di stimare l’effetto netto dell’istruzione su tali dimensioni sociali, una volta considerato (e quindi controllato) l’effetto dovuto ad altre caratteristiche (sesso, età, livello di reddito).

La ricchezza di informazioni del rapporto è tale che costringerà a ritornarvi sopra, dopo una attenta lettura, con un più approfondito intervento. Qui intendiamo sottolineare solo alcuni elementi relativi alla posizione del nostro paese nel contesto degli altri paesi di riferimento. Molte di tali valutazioni, peraltro, confermano fenomeni già noti. In Italia la quota di popolazione in possesso di un titolo completo di secondaria o universitario è più basso e i dropout lungo il ciclo terziario sono più frequenti rispetto alla media dei paesi Oecd. C’è da dire che il nostro mercato del lavoro – stando agli indicatori riportati – sembra privilegiare l’esperienza rispetto al titolo formale più di quanto accade in altri contesti: una caratteristica che certamente si collega alla maggiore densità di settori in cui la piccola impresa è dominante, ma che dovrebbe diventare oggetto di maggiore dialogo fra mondo imprenditoriale e mondo scolastico/universitario.

Le spese per l’istruzione sia a livello individuale sia aggregato (come quota del Pil) sono minori della media Oecd e, anche nei livelli alti – università –, sono garantite da risorse pubbliche piuttosto che private (solo il 30% dei costi universitari in Italia è a carico dei privati, contro quote maggiori dell’80% in paesi come la Corea o gli Usa): questo è un secondo punto di riflessione. Un basso costo privato e una forte presenza di dropouts sono fattori che possono indicare un malessere proprio del nostro sistema di istruzione: perché quello che – a prescindere dai costi sociali – si presenta come un incentivo non ha i risultati desiderati? È ancora una volta la constatazione, che si rende esperienza nella fase finale degli studi, che il mercato del lavoro non ha sufficiente domanda (la quota dei disoccupati sulla popolazione di livello universitario è ancora una volta maggiore di quella media dei paesi Oecd)?

Per questo, come per altri interrogativi che una prima lettura del rapporto fa sorgere, occorrerà ritornare con più calma sull’argomento.