Atenei, trasparenza e gerontocrazia
La riforma del ministro Gelmini provoca
malcontento fra i ricercatori e i dottorandi
Flavia Amabile,
La Stampa 29.10.2009
Dopo oltre otto mesi di lavoro
il governo ha dato il via libera al disegno di legge che riforma
l’università. Passerà ancora del tempo prima che possa diventare
legge, dovrà esaminarlo prima il Senato poi passerà alla Camera, e
non mancheranno le modifiche come hanno chiesto ieri i rettori.
Un lungo lavoro, ancora da
completare, insomma. Il ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini,
lo sa ma è soddisfatta di quanto ha fatto finora. «E' un
provvedimento corposo che vuole affrontare in modo serio e
coraggioso i problemi che ci sono nell'università Vogliamo ridare
maggiore peso e autorevole ad un’istituzione fondamentale del Paese,
rendendola protagonista della risposta alla crisi. Non ci possiamo
accontentare di un sistema che in alcuni casi è buono mentre in
altri casi esistono problemi che sono devastanti».
Accanto a lei c’è Giulio Tremonti,
ministro dell’Economia, insolitamente affettuoso e in vena di
apprezzamenti. Chiama la Gelmini per nome, nessun contrasto con
«Mariastella», come ripete più volte. «Certo - ammette - la riforma
non è venuta fuori subito, ma perchè è un tema molto complicato, di
quelli che definiscono una fase, un governo». Inoltre «la strategia
del ministro Gelmini è stata di affrontare prima la scuola che
presentava emergenze, poi l’università. E in fondo sono solo 18 mesi
di governo». Dunque «non ci sono stati ritardi, è stato un lavoro
complicato e credo molto equilibrato».
Una valanga di complimenti, con una sola gaffe, quando osa andare
oltre il nome, e la chiama Brambilla. Nulla di male, è lo stesso
Tremonti a precisare di essere lì solo in veste di «vecchio
professore», e a un vecchio professore probabilmente tutto si può
perdonare.
Soprattutto quando assicura che le risorse arriveranno: «Daremo
priorità ai fondi provenienti dal cosiddetto rimpatrio capitali da
destinare all’università».
Molti sono i perplessi, anche all’interno
del Pdl. Maurizio Gasparri sostiene che «il rettore deve
conservare la sua autonomia gestionale», e promette di intervenire
in sede parlamentare. Anche Luigi Frati, rettore de La Sapienza,
sottolinea che «ci saranno adattamenti migliorativi durante l’iter
parlamentare e saranno necessarie risorsze adeguate, del resto
preannunciate dal ministro Tremonti».
Un capitolo difficile è quello dei
ricercatori. «E’ l’aspetto che più mi sta a cuore»,
sottolinea Mariastella Gelmini. «Occorre che i giovani non restino
ricercatori a vita. Per questo abbiamo previsto due contratti
triennali al termine dei quali si procede a una loro valutazione ed
è poi facoltà dei singoli atenei trasformare i ricercatori in
associati. In questo modo si mette fine a un precariato che va
avanti da anni e si favorisce il ricambio generazionale».
Ma è proprio sul ricambio generazionale
che arrivano le maggiori critiche da dottorandi e ricercatori.
«Resta la giungla di contratti assegni di ricerca, contratti a
titolo gratuito o oneroso», denuncia Fernando D’Aniello, segretario
dell’Adi, Associazione dottorandi italiani. «Al di là delle buone
intenzioni mostrate a parole non sono arrivate azioni - lamenta
l’Apri, associazione dei precari della ricerca - I docenti
universitari potranno continuare ad andare in pensione a 72 anni e
in alcuni casi anche a 75». Qualcosa deve essere accaduto, -prosegue
l’Apri - «perché in alcune precedenti bozze era stata prevista
(adesso sparita) una norma che permetteva alle università di
pre-pensionare i professori universitari a 65 anni. Norma già
piuttosto ‘generosa’ visto che permetteva e non obbligava le
università a pre-pensionare».
Molto critici anche sindacati e opposizione.
«La validità dei criteri con cui si prevede di valutare atenei e
professori sono tutti da verificare», afferma Ignazio Marino del Pd
che si dice preoccupato perché «per la riforma si conti su denaro
del tutto ipotetico». Per Manuela Ghizzoni del Pd con l’abolizione
dei ricercatori «il governo paga un biglietto di sola andata per
l’estero» ai cervelli italiani. E per Domenico Pantaleo, segretario
generale della Flc-Cgil si tratta di un provvedimento «fortemente
centralistico e gerarchico, che marginalizza gli organi elettivi per
condensare il potere negli organi di vertice».