SCUOLA

Torna la “certificazione delle competenze”:
minaccia burocratica o valido strumento?

Tiziana Pedrizzi, il Sussidiario 19.10.2009

Dopo un’orgia lunga un anno sui voti, mentre le operazioni di valutazione esterna procedevano sottotraccia, torna la “certificazione delle competenze”. È attesa a giorni l’uscita del modello ministeriale della certificazione delle competenze al termine dell’obbligo (2° superiore o 16 anni); il Regolamento sulla Valutazione all’art. 8 l’ha riportata agli onori del mondo, non solo al termine della scuola media, ma anche, sensatamente, al termine delle elementari.

Un ennesimo tormentone buropedagogico o qualcosa di utile?

La ragione di questa ripartenza sta nella Legge 53 (Legge Moratti) che ne fornisce all’art 3 il fondamento normativo ineludibile. Un articolo largamente sottovalutato a suo tempo, che ora sta esplodendo a distanza di anni come una bomba ad orologeria: è infatti quello che prevede anche la valutazione standardizzata esterna degli apprendimenti.

C’è chi sembra pensare che - così come ai giorni nostri il the è di sinistra e il caffè di destra (50 anni fa era il contrario) - così i voti sono di destra e la certificazione delle competenze di sinistra. Gli schieramenti in proposito ne sono la conseguenza.

Norberto Bottani ricorda spesso che i Paesi anglosassoni, grandi fautori delle valutazioni standardizzate esterne, nutrono per le competenze e la loro conseguente certificazione una notevole diffidenza, ritenendo possa trattarsi di una notte in cui tutte le vacche sono nere.

Al contrario i paesi latini, molto recalcitranti verso i test, ne sono i principali fautori.

La Weltanschauung pedagogica dell’Unione Europea le ha adottate alla grande, anche in forza del forte legame delle loro origini con le formazioni finalizzate alle professionalità.

In realtà OCSE-PISA costituisce un ponte fra questi due punti di vista. La madre di tutte le valutazioni utilizza infatti per la graduazione delle performance degli studenti delle descrizioni di livelli che possono essere considerate dei modelli (dal punto di vista del format e non dei contenuti) per la certificazione di competenze. Ed infatti come tali erano stati segnalati alle scuole nella prima circolare ministeriale in proposito.

Possiamo partire dell’ipotesi che, se ben utilizzati, voti, valutazioni esterne e certificazione delle competenze siano complementari.

Voti e valutazione esterna mirano a rendere le dichiarazioni sugli apprendimenti più attendibili e trasparenti. La certificazione delle competenze dovrebbe esplicitare le acquisizioni sottese ai voti e perciò, fra l’altro, renderne più difficile la alterazione.

Certo, siamo sempre lì.

Occorre poter separare la valutazione (che tiene conto di tutti i fattori e decide dei passaggi e del rilascio dei titoli) dalla misurazione dai livelli di apprendimento attraverso i voti, di cui la certificazione fornisce la declaratoria. Perciò bisogna poter evitare di certificare competenze che non ci sono, pure in presenza di valutazioni positive nel loro complesso.

La certificazione deve svilupparsi su livelli (e non limitarsi ad un SI’/NO, che importa nella scuola impropriamente i paradigmi propri di contesti professionali).

Ma bisogna anche che questi livelli siano in numero sensato, tale che la loro descrizione differenziata sia possibile. La pensione ventennale di Win for life sembra il premio adatto per chi sappia descrivere differenziatamente il livello 9 rispetto al livello 10.

Bisogna anche avere senso della misura. Una certificazione troppo minuziosa rischia di essere illeggibile per l’esterno, un po’ come la vecchia scheda delle elementari.

Perciò dai modelli ufficiali non ci si può che attendere una sintesi. Compito delle scuole poi disarticolarla per farne una guida per la progettazione didattica o per le operazioni di personalizzazione, anche a fini di recupero.

Del resto tutti sappiamo che, anche nell’Italia che crede di essere esente dal Teaching to the Test, quando gli ispettori che preparavano le prove della maturità volevano che venisse obbligatoriamente studiato un argomento che magari le scuole tendevano a trascurare, lo mettevano nella prova scritta di esame. In tutti i sistemi, le vere chiavi di lettura degli esiti di apprendimento attesi le danno le prove, soprattutto quelle generalizzate e di peso istituzionale.

Così non può sfuggire che anche nel nostro Paese i costrutti sottesi alle prove INVALSI hanno molto a che fare con gli standard tanto invocati che dovrebbero essere l’oggetto della certificazione di competenze.

Dunque, per rispondere alle esigenze di attendibilità e chiarezza che i sistemi economico-sociali hanno su quello che si impara a scuola, servono sia informazioni sul livello degli apprendimenti (voti) sia controlli periodici sugli apprendimenti più importanti (valutazioni standardizzate esterne) sia descrizioni di ciò che sanno e sanno fare i giovani nelle diverse discipline (certificazioni). Sarebbe utile cercare di raccordare le logiche con cui si lavora su questi tre terreni.