Un riordino all’insegna dell’incertezza
ScuolaOggi 13.10.2009
Il riordino del secondo ciclo di istruzione si sta avviando verso la
conclusione, anche se mancano fino ad oggi i necessari passaggi
formali che lo rendano esecutivo. Dal canto loro, gli “esperti”
stanno lavorando a riempire le ultime difficili caselle dei
contenuti programmatici, quindi… non ci resta che attendere! Chissà
se nel giro di qualche tempo si potrà giungere al difficile parto,
anche e soprattutto perché scuole e famiglie sono in fibrillazione:
è tempo di conoscere quali concrete
opportunità di studio saranno offerte ai ragazzi che nel
prossimo giugno avranno superato l’esame di licenza media.
Le attese, comunque, non possono essere molto
alte, perché si tratta pur sempre di un riordino e non di
una riforma complessiva. Il tutto discende da quanto disposto dalla
legge 133/08 che converte con alcune modificazioni, il decreto-legge
112/08, il quale, com’è noto, riguarda “disposizioni urgenti per lo
sviluppo economico, la semplificazione, la competitività, la
stabilizzazione della finanza pubblica e la perequazione tributaria”.
Ed in molti si saranno chiesti: che “ci azzecca” una norma finanziaria
con il riordino della scuola? La risposta è semplice: niente! Ed è
proprio da questo avvio che, a mio giudizio, discendono tutte le
criticità di questo riordino. Se a monte di un qualsiasi progetto, che
sia un semplice riordino dell’esistente od una riforma mirata, non ci
sono obiettivi e finalità precisi che attendono alle materie in
oggetto, perché in effetti attengono a tutt’altra cosa, cosa mai si
potrà aspettare di innovativo?
Una materia così delicata e importante come l’organizzazione del
sistema di istruzione, oggi, in una società complessa, con tutte le
problematiche indotte dalle profonde modifiche in atto nel mondo delle
conoscenze e del lavoro, nonché dal disagio in cui vivono le giovani
generazioni, non può essere affidata all’estemporaneità di una norma
finanziaria il cui fine, per altro, è solo quello di risparmiare
sull’istruzione, non certo di investirvi! Di qui la situazione di
sofferenza: da un lato le attese di interventi che siano veramente in
grado di rinnovare il nostro sistema di istruzione in ordine a
finalità, obiettivi, contenuti; dall’altro la realtà di soluzioni
asfittiche, parziali, soprattutto non coordinate, non finalizzate alle
attese, esplicite ed implicite, dei giovani e della società.
Evidenziamo quali sono gli elementi di
debolezza del progetto che viene proposto, anzi dei tre
schemi di regolamento che, in effetti, dovrebbero discendere da un
unico disegno innovativo.
Ü In una società come
l’attuale, difficile, incerta e liquida, per dirla con Bauman, ai
nostri giovani, nati e immigrati ovviamente, occorre fornire in prima
istanza una solida preparazione di base in ordine a competenze
culturali essenziali e a quelle competenze di cittadinanza che
permettano loro di circolare in tutti i Paesi dell’Unione europea, per
motivi sia di studio che di lavoro, con un’adeguata preparazione.
Pertanto, l’obiettivo di rendere effettivo e vincente l’obbligo di
istruzione decennale, di cui al dm 309/07, dovrebbe essere assunto
come una esigenza prioritaria dell’intero riordino. D’altro canto,
l’equivalenza delle competenze relative ai quattro assi fondamentali
dei saperi di basedovrebbe costituire il momento forte ed aggregante
delle tre tipologie di biennio (liceale, tecnico e professionale).
Però, una scelta di questo tipo non emerge affatto dai documenti di
riordino di cui disponiamo, per cui l’innalzamento dell’obbligo sembra
costituire una sorte di optional per nulla significativo. Di fatto,
sembra che si sia rinunciato a individuare e costruire un percorso
obbligatorio decennale progressivo, continuo ed unitario, in cui i tre
segmenti della scuola primaria, media e successivo biennio possano
veramente interagire per superare quegli storici diaframmi che ancora
li rendono percorsi tra loro separati, autosufficienti ed
autoreferenziali. Non vorrei che la scelta effettuata dall’attuale
maggioranza politica di consentire l’innalzamento dell’obbligo di
“istruzione” anche nei percorsi di “istruzione e formazione
professionale” regionale (comma 4 bis dell’articolo 64 della legge
133/08) aprisse la strada ad una sua progressiva vanificazione.
Ü L’istruzione impartita nei
trienni postobbligatori dovrebbe prevedere e garantire la liquidazione
definitiva di quella impostazione di gentiliana memoria che ha dato
vita a quella gerarchia delle conoscenze che oggi non trova più alcun
riscontro di fronte alle esigenze della diffusione di saperi e di
competenze che, pur articolati e differenziati al loro interno, devono
pur sempre mirare a rendere effettiva quella eguaglianza culturale e
civile, di cui alla nostra Carta costituzionale. Del resto in tale
direzione si muovono tutte la Carte internazionali sui diritti
dell’uomo, anche perché rispondono alle oggettive esigenze di tutte le
società ad alto sviluppo. Finalità di questo tipo non si evincono dai
tre schemi di riordino, mirati più al particulare del percorso in
oggetto che all’universale delle finalità che un’istruzione secondaria
oggi dovrebbe proporsi in una società avanzata. Con tale scelta, le
differenziazioni di sempre, dalla “più nobile”, aperta ai “migliori”,
a quella “più agevole”, aperta ai “più deboli” non solo non sono
superate, ma vengono confermate e definitivamente legittimate. E ciò
anche se accenni generici e non convincenti sulla unitarietà della
cultura appaiono qua e là nei documenti del riordino.
Ü Per quanto riguarda la
terminalità dei tre percorsi, viene riesumata la scelta del profilo di
uscita, di cui alla “riforma Moratti”. Si ricorderà che su questa
scelta già furono avanzate riserve fortissime quando apparvero nelle
proposte della legge 53/03. Il fatto è che un profilo di uscita è
assolutamente fumoso, una carta delle buone intenzioni, spesso intrisa
di affermazioni moralistiche valide per tutte le stagioni, vaghe e
generiche, tali da non offrire alcun contributo concreto per una
scelta didattica in grado di realizzare quei processi di educazione,
istruzione e formazione che puntino al successo formativo di ciascun
alunno: che poi è il richiamo che ci viene dal comma 2 dell’articolo 1
del Regolamento sull’autonomia delle istituzioni scolastiche. A parte
queste considerazioni di principio, che già costituiscono un limite ad
un reale processo di riordino, nello schema di regolamento dei licei
si legge testualmente: “I licei adottano il Profilo educativo,
culturale e professionale dello studente a conclusione del secondo
ciclo del sistema educativo di istruzione e formazione, di cui
all’allegato A del dlgs 226/05”: e si conferma così la scelta della
Moratti. Nel medesimo schema troviamo poi un secondo allegato A che
riguarda la specificità dei percorsi liceali. Una logica simile
dovremmo ritrovare negli altri due schemi! In questi invece non si fa
alcun riferimento all’allegato A del dlgs 226/05 e ci si limita a
citare quel comma 5 dell’articolo 1 del medesimo dlgs in cui si
accenna alla pari dignità di tutti i percorsi secondari. Quindi si
passa direttamente ai profili specifici di settore. Ne consegue che i
tre percorsi si propongono di fatto terminalità differenziate, per di
più a scalare! Viene così frantumata quella unitarietà dei percorsi
secondari che, invece, li avrebbe dovuti caratterizzare, pur nella
articolazione degli indirizzi.
Ü Un’altra scelta che riguarda
la terminalità dei percorsi è quella dei cosiddetti “risultati di
apprendimento”. Si tratta di una terminologia generica a fronte delle
scelte che in genere vengono effettuate nei processi di istruzione.
Quando andiamo a leggerli, appaiono più che altro obiettivi di
apprendimento, ed allora viene da chiedersi: forse gli estensori del
documento hanno avuto una sorta di pruderie ad adottare questa seconda
più precisa terminologia, stante che tutto ciò che richiama la ricerca
pedagogica oggi è sotto tiro? Per di più questi “risultati di
apprendimento” sembrano una somma di performance ora complesse ora più
lineari e non sembrano obbedire ad una stessa matrice teorica. Ma non
finisce qui! In tutti e tre gli schemi di regolamento si legge che con
successivi provvedimenti adottati dal Miur verranno adottate
Indicazioni nazionali riguardanti gli obiettivi specifici di
apprendimento declinati secondo conoscenze, abilità e competenze.
Emergono due domande: quale valore avranno allora, domani, i risultati
degli apprendimenti, se si devono attendere, dopodomani, quegli
ulteriori provvedimenti per essere in linea con quanto oggi ci
suggerisce la ricerca educativa di cui alle stesse indicazioni che ci
vengono dall’Unione europea? E’ opportuno ricordare anche che i nostri
istituti secondari attendono da un decennio che si adempi quanto
sancito dalla legge 425/97 che riformò gli esami di maturità. Infatti,
già in quella legge si stabiliva che il nuovo esame avrebbe dovuto
certificare le competenze, le conoscenze e le capacità acquisite dalla
studente. Il che fino ad oggi non si è mai verificato! E nel
frattempo, lo stesso valore che allora si attribuiva ai tre concetti è
profondamente modificato, in seguito agli esiti della ricerca
educativa, adottati anche in sede europea. Su tali concetti va fatta
chiarezza (anche se la sede non è quella di un decreto), soprattutto
per i nostri insegnanti, per evitare che un pressappochismo, peraltro
autorevolmente indotto, la vinca sul rigore di una autentica
innovazione! Ma i tempi sono quelli che sono! E i nostri giovani
dovranno attendere altri dieci anni per esigere quella certificazione
che ormai è diventata una sorta di passpartout per accedere a studi
ulteriori od entrare nel mondo del lavoro?
Ü Un’altra questione riguarda
il divario che corre tra l’indicazione di quadri orario estremamente
compattati e definiti ed i richiami ad una didattica veramente
innovativa. In tutti i documenti allegati si danno – o meglio, si
elencano – suggerimenti, che vanno nelle seguenti direzioni:
superamento dell’insegnamento per discipline singole; adozione di
metodologie finalizzate a realizzare profili educativi, culturali e
professionali, e a sviluppare competenze personali; didattica
laboratoriale; analisi di caso e soluzione di problemi; lavoro per
progetti; uso di modelli e di linguaggi specifici; collegamento con il
mondo del lavoro e delle professioni (anche con il volontariato e il
privato sociale); stage e tirocini, alternanza scuola/lavoro. Il fatto
è che una didattica veramente innovativa, soprattutto per l’istruzione
superiore, dovrebbe prevedere alcune innovazioni strutturali, anche se
non non fattibili nel breve periodo, quali, ad esempio: superamento
dell’orario di cattedra ed utilizzazione delle competenze
professionali dei docenti secondo criteri “altri” dalle gabbie delle
classi di concorso e degli orari di cattedra, in ordine alle necessità
del concreto progetto educativo da realizzare. Mi limito a qualche
esempio: progressiva riduzione del numero di discipline nel corso del
triennio in modo da privilegiare il perseguimento delle competenze di
indirizzo richieste allo studente; modularità dei processi di
insegnamento/apprendimento; superamento dello spazio aula in favore di
spazi laboratoriali (il laboratorio va inteso in senso lato: vi sono
privilegiate più le attività che le strumentazioni tout court)
“presieduti” dai docenti a cui accedono gruppi di alunni. Non è il
docente che va in un’aula spoglia, ma l’alunno che va in un’aula
attrezzata!; Ovviamente siamo nel futuribile, ma è da augurarsi che la
revisione delle classi di concorso, attualmente in esame, contribuisca
ad alleggerire quella rigidità oraria alla quale siamo abituati “da
sempre”! Sarebbe auspicabile che, nella indicazione dei contenuti
disciplinari che si sviluppano nel corso del triennio, i gruppi degli
“esperti” che attendono alla loro definizione non lavorino ciascuno
chiuso nel proprio ambito, ma attivando tutte le necessarie
interazioni. Occorrerebbe evitare, ad esempio che nel medesimo anno
scolastico si studi Montale in italiano, Shakespeare in inglese, le
guerre puniche in storia, le cattedrali gotiche in arte!!! Una
corrispondenza dei contenuti, per quanto sia possibile, è auspicabile
per favorire e sollecitare le interazioni pluridisciplinari (non
chiamo in causa l’interdisciplinarità che è parola grossa!) e la
progettazione modulare.
Ü Ed infine, occorre prevedere
un ampio programma di formazione continua dei docenti, che vada oltre
all’accenno che viene fatto sui tre schemi di regolamento; in effetti,
il semplice aggiornamento disciplinare sarebbe inadeguato, e una reale
formazione docente dovrebbe vertere sulla concreta conduzione delle
attività dell’insegnare/apprendere, come imposte dai nuovi modi di
essere dei nostri alunni e come indicate dall’avanzamento della
ricerca educativa. In effetti, se si chiede ai nostri sedicenni di
essere capaci di “imparare ad imparare” per tutta la vita, e se è vero
che non c’è professionista che in una società complessa come l’attuale
non debba costantemente implementare le sue competenze, occorre pure
adoperarsi perché i docenti modifichino quei comportamenti che hanno
mutuato da una scuola che era completamente diversa da quella che
dovrebbe essere oggi. Se un tempo certa sociologia malevola sosteneva
che l’insegnante è un professionista a metà, oggi possiamo affermare,
invece, che dovrebbe essere un professionista doppio: in effetti, non
solo deve misurarsi con i saperi che cambiano – il che riguarda
peraltro ciascun professionista – ma anche con i soggetti con cui
interagisce, i quali cambiano forse più velocemente di quanto non si
creda.
I rilievi che ho mosso ai tre schemi di regolamento non sono affatto
peregrini e molte delle argomentazioni svolte sono rintracciabili in
altre prese di posizione da parte di associazioni e sindacati nonché
nei tre pareri che il Cnpi ha recentemente prodotto in ordine alle
competenze che gli derivano dalla normativa vigente. Com’è noto, anche
se si tratta di pareri obbligatori e non vincolanti per
l’Amministrazione, quest’ultima farebbe bene a tenerli nel conto
dovuto.