La riforma lumaca dell'università Tito Boeri, la Repubblica 29.10.2009 C'è voluto un anno e mezzo perché il governo trovasse un accordo al suo interno su di un disegno di legge di riforma dell'università. Il testo finalmente approvato ieri contiene molti principi condivisibili.
Ma anche una miriade di rinvii a
decreti attuativi e a procedure ancora tutte da avviare. Alcuni
degli aspetti più importanti e innovativi, quelli relativi al fondo
per il diritto allo studio e all'accreditamento (primo passo verso
il superamento del valore legale del titolo di studio) vengono
demandati all'attuazione di una legge delega. Ci vorranno così
almeno altri tre anni prima che la riforma trovi completa
attuazione. Saremo a quel punto verso la fine della legislatura,
quando il peso delle lobby accademiche si fa sentire di più. Basti
pensare a quanto accaduto alla fine della scorsa legislatura quando
con il decreto mille deroghe (o mille proroghe) vennero ripristinati
i concorsi con due idoneità, la base per i voti di scambio (io voto
per il tuo candidato, tu voti per il mio) su cui si sono rette
alcune delle più scandalose immissioni in ruolo e promozioni di
docenti universitari in Italia. E nel passaggio tra due legislature
si contano a centinaia le leggi delega non esercitate, sparite nel
nulla. Un altro rischio, non minore, è che la riforma, pur varata nei (lunghi) tempi previsti, venga poi stravolta nella sua attuazione. L'accademia è sempre in grado di trovare sotterfugi per tradurre a proprio uso e consumo norme ideate con finalità opposte a quelle con cui vengono alla fine messe in atto. Il paradosso è che questa riforma rischia di essere più fragile proprio dove è più innovativa. Perché per attuare i cambiamenti più significativi si affida al dirigismo, concedendo il minimo di autonomia possibile agli atenei. È la filosofia che spinge il legislatore a introdurre una serie di paletti che rischiano di precluderne la stessa approvazione. Pensiamo ad esempio alle modalità di reclutamento dei docenti. Si sceglie di subordinare l'immissione in ruolo ad una valutazione della produzione scientifica, come avviene nelle migliori università del mondo. Il modello tenure-track serve a migliorare la selezione in ingresso ed evita di tenere i ricercatori a lungo in un limbo fatto di basse retribuzioni e tempo sottratto alla ricerca per servigi vari resi ad ordinari e associati. Bene. Anzi benissimo. Ma la legge prescrive che il ricercatore che dopo 6 anni (7 nel caso cambiasse sede) non ricevesse l'abilitazione nazionale non potrà più entrare di ruolo in alcuna università. Perché precludere del tutto a chi ha investito comunque a lungo in una carriera accademica la possibilità di entrare in ruolo in università magari di minore qualità? Oppure si intende dare l'abilitazione a tutti? Notiamo che è la stessa norma, seppur questa volta moderata da un periodo più lungo prima della valutazione, che ha portato all'affossamento della riforma Moratti. Se si vuole evitare che vengano messi in ruolo docenti di bassa qualità, non ci si può che affidare agli incentivi dei singoli atenei. Per questo la strada maestra per riformare la nostra università consiste nel modificare davvero i criteri per l'attribuzione dei fondi, spingendo tutte le sedi a fare meglio nella ricerca e nella didattica per sopravvivere. È la strada che ogni governo si ostina a non voler intraprendere. Anche i timidi tentativi compiuti in questa legislatura per modificare i criteri di riparto del fondo di finanziamento ordinario dell'università si sono tradotti nel nulla o poco più. A ben guardare infatti la quota che premia la qualità della ricerca è irrisoria, e il meccanismo è talmente complesso e poco trasparente che non potrà mai spingere le università a fare meglio. Un passo in avanti che forse non rimarrà solo sulla carta è quello di velocizzare i processi decisionali all'interno delle università. Ci saranno Consigli di Amministrazione e Senati accademici più snelli di quelli attuali e si eviteranno duplicazioni nelle decisioni. Si cerca anche di dare maggiore importanza nei processi decisionali interni agli atenei agli ambiti in cui effettivamente ci sono maggiori interazioni nelle attività di ricerca. Saranno i dipartimenti e non più le facoltà (che mettono insieme discipline con modalità di ricerca molto diverse fra di loro) a decidere su materie importanti, dal reclutamento all'organizzazione dei corsi. Ma anche qui tutto dipende dagli incentivi che avranno le diverse sedi. Se non c'è lo stimolo a fare ricerca, i rettori chiameranno nei consigli di amministrazione i politici locali replicando il modello delle Asl, anziché invitare persone competenti e non legate a doppio filo alla realtà locale. Insomma l'Università ha bisogno di autonomia e la riforma non può che essere fatta creando le condizioni per cui questa autonomia venga bene esercitata. Le scorciatoie sono attraenti, ma non ci portano lontano. |