Tornelli per i docenti
E nel ddl il ministro Gelmini decreta la fine
dei ricercatori
Flavia Amabile,
La Stampa 23.10.2009
Potrebbe arrivare stamattina il
via libera sul disegno di legge del ministro dell’Istruzione
Mariastella Gelmini di riforma dell’università. Si è lavorato fino a
tardi ieri sera nel tentativo di arrivare ad un testo concordato fra
tutti i ministeri competenti, per armonizzare i rilievi che sono
arrivati dal ministro dell’Economia Giulio Tremonti ma anche da
quello della Funzione Pubblica Renato Brunetta.
Il testo è in gestazione da almeno otto
mesi. Le novità più
rilevanti riguardano l’orario dei docenti e il futuro dei
ricercatori. I docenti dovranno lavorare almeno 1500 ore l’anno, di
cui 350 dedicate alla didattica e all’assistenza degli studenti per
i docenti di ruolo e 250 nel caso di docenti a tempo definito. Sono
cifre che più o meno rispecchiano già alcune norme esistenti, anche
se quasi dimenticate.
La vera novità è un’altra, e
provocherà forti resistenze di una parte del mondo universitario. Il
disegno di legge prevede «forme di verifica dell’attività didattica»
e dell’«impegno per l’attività scientifica». Il disegno di legge si
ferma qui ma quello che intende è un panorama fosco fatto di
tornelli, cartellini o chissà quale altra forma di giustificazione
delle 1500 ore, che renderà difficile la vita dei docenti. Sarà un
decreto delegato che sarà emanato in seguito a entrare nei dettagli.
Il disegno di legge, poi,
interrompe senza troppe cerimonie le speranze di chi un giorno
vorrebbe diventare ricercatore: tra sei o sette anni la categoria
non esisterà più. Nel frattempo si bandiranno ancora concorsi per
esaurire i diritti acquisiti, di sicuro tutti quelli ancora in
attesa da quando ministro dell’Università era ancora Fabio Mussi.
Il provvedimento è snello, poco
generoso in dettagli sulle novità, dalle regole sulle commissioni
d’esame a tutto ciò che riguarderà la qualità e l’efficienza del
sistema. Saranno i decreti delegati in seguito a occuparsene.
Si sa però che i rettori avranno
un mandato di non oltre 8 anni, e forse si troverà anche il modo di
evitare che la norma possa essere aggirata come finora è accaduto. E
sarà adottato un codice etico per evitare incompatibilità e
conflitti di interessi legati a parentele.
Gli atenei avranno la possibilità
di fondersi tra loro per evitare duplicazioni. L’unione potrà
avvenire su base federativa, tra università vicine, o anche in
relazione a singoli settori di attività, per aumentare la qualità,
evitare le duplicazioni e abbattere i costi.
I bilanci dovranno rispondere a
criteri di maggiore trasparenza
(attualmente non calcolano, ad esempio, la base di patrimonio degli
atenei). I settori scientifico-disciplinari passeranno dagli attuali
370 a circa la metà (con una consistenza minima di 50 ordinari per
settore).
Ci sarà una distinzione netta di
funzioni tra Senato accademico e Cda: il Senato avanzerà proposte di
carattere scientifico, ma sarà il Cda ad avere la responsabilità
chiara delle spese, delle assunzioni e delle spese di gestione
(anche delle sedi distaccate). Sarà ridotto il numero di membri sia
del Senato (al massimo 35 contro gli oltre 50 di oggi) sia del Cda
(11 invece di 30). Il Cda avrà il 40% di membri esterni e sarà
rafforzata la rappresentanza studentesca (questo anche nel Senato).
Un direttore generale prenderà il posto dell’attuale direttore
amministrativo e avrà compiti di un vero e proprio manager
dell’ateneo. Infine, il nucleo di valutazione d’ateneo sarà a
maggioranza composto da esterni. E soltanto i docenti migliori
potranno avere diritto agli scatti di stipendio.
Il cammino del disegno di legge
non è stato facile finora, ma non lo sarà nemmeno in seguito. Il
primo alt è arrivato proprio dall’interno della maggioranza.
Maurizio Gasparri del Pdl ha chiesto una pausa «di riflessione
«soprattutto con la componente studentesca, perchè bisogna evitare
un processo di privatizzazione che possa danneggiare il diritto allo
studio. Gli orientamenti sin qui emersi nel centrodestra sono
ampiamente condivisibili e rassicuranti, ma prima che il governo si
esprima è necessario un momento di riflessione».