C'è un capitale umano che possiamo acquisire
subito. È quello dei piccoli numeri, La solitudine del talento Tito Boeri, la Repubblica 25.11.2009 Non credo di avere l'influenza. Eppure mi vengono tre brividi nel sentir parlare di una fase dello sviluppo che dovrebbe succedere a quella del rigore. Primo brivido: c'è ancora chi crede che il rigore nei conti pubblici contraddica lo sviluppo dell'economia? Anni di storia italiana con spesa facile e stagnazione economica ci insegnano esattamente il contrario. Secondo brivido: vogliamo finire ancora una volta in fuorigioco? Era all'inizio della recessione il momento di operare in disavanzo mettendo soldi in tasca alle famiglie. Adesso che è finita la fase dei tassi calanti e che l'Europa ci chiede manovre di almeno 10 miliardi all'anno da qui a fine legislatura è il momento di cominciare a pensare, come in altri paesi, a rientrare dal debito prima che ci strangoli, questo sì, con gli interessi che ci costringe a pagare. Perché, questo è il terzo brivido, come si fa a parlare di rigore nel descrivere una fase in cui il nostro debito pubblico, in rapporto al prodotto interno lordo, è tornato ai massimi storici? È tempo invece di progetti su come tornare a crescere. In fretta. È il capitale umano la chiave di tutto. Bisogna utilizzare meglio quello che abbiamo con le riforme del mercato del lavoro e pensare a produrne di più riformando la scuola e l'università. Ma qui le riforme si intravedono appena e avranno effetti ancora più lontani nel tempo. Bene accelerarle, ma non illudiamoci che possano incidere sui tempi di uscita dalla crisi. C'è però un capitale umano che possiamo acquisire subito. È quello dei piccoli numeri, dei talenti che girano per il mondo e che si interrogano oggi su com'è cambiata la geografia del mondo dopo la crisi per decidere dove andare. Ne abbiamo un bisogno assoluto per cambiare la nostra classe dirigente e la nostra capacità di inventare e innovare. Siamo il paese europeo con i manager meno istruiti (solo il 10 per cento ha una laurea contro il 40-50 per cento altrove) e con meno manager stranieri (circa 1 su 100 contro 6 su 100 in media nella UE a 15). Si gestisce un'impresa spesso subendo passivamente i dettami della proprietà e non si innova. Produciamo solo un quarantesimo dei brevetti europei (dati Ocse). Pochi innesti di qualità possono significare grandi cambiamenti nella nostra economia. Ma come intercettarli e farli venire da noi, questi talenti? La prima cosa da fare è evitare di cacciare via quei pochi che arrivano comunque in Italia. Sarebbe già un bel risultato. Per rendersi conto di come oggi trattiamo i talenti stranieri che capitano da noi basta guardare le risposte ad un'indagine svolta l'anno scorso dalla Fondazione Rodolfo Debenedetti tra i 2000 studenti di dottorato in Italia (www.frdb.org). In 9 su 10 pensano di scappare appena finiti gli studi perché sfiniti dai rinnovi dei permessi di soggiorno, dalle forche caudine cui vengono sottoposti dalle nostre leggi sull'immigrazione. Nelle parole di uno di loro: «Sono venuto in Italia con l'idea di studiare e poi di lavorare qui, ma le procedure per immigrare sono talmente complicate e difficili, soprattutto per i miei famigliari, che ho deciso di abbandonare questa idea». Ecco due provvedimenti di efficacia immediata. Primo, introduciamo un visto per gli studenti (come il J1 negli Stati Uniti) che permetta di risiedere, entrare ed uscire legalmente dal nostro paese per tutta la durata del corso di studi. Deve essere concesso sulla base di una lettera di accettazione dell'università che accoglie il dottorando e che ha tutti gli incentivi ad ammettere solo gli studenti con maggiori potenzialità. A quel punto potranno pensare solo a studiare senza dover frequentare a lungo le nostre questure in attesa di un rinnovo del permesso, che poi arriva immancabilmente quando è già scaduto. Secondo, creiamo le condizioni per cui, alla fine del corso di studi, questi talenti (su cui abbiamo investito molte risorse e cui abbiamo spesso pagato una borsa di studio) rimangano da noi a lavorare. Serve, a questo riguardo, che le nostre politiche dell'immigrazione garantiscano una corsia preferenziale a chi ha studiato da noi e ha una laurea o un dottorato. Chi viene da noi deve già sapere che al termine del corso di studi verrà messo nella stessa condizione degli studenti italiani nel cercare un impiego. Bene che la concorrenza sia a questo livello e non tra i lavoratori poco qualificati che già sono messi a dura prova dalla globalizzazione. Questi cambiamenti possono essere fatti subito. Non richiedono risorse aggiuntive. Al contrario riducono gli oneri amministrativi delle attuali leggi sull'immigrazione. Sono politicamente fattibili. C'è forse oggi più che in passato la volontà di discutere in modo pragmatico dei temi dell'immigrazione. Lo dimostrano le iniziative bipartisan come il disegno di legge Veltroni-Perina sul voto agli immigrati e le stesse dichiarazioni del ministro Sacconi sulla necessità di introdurre un sistema a punti per concedere la cittadinanza. La cosa importante è stare coi piedi per terra. Le leggi troppo complicate da gestire servono solo ad alimentare l'immigrazione clandestina. Il visto per gli studenti e la corsia preferenziale nel riempire le quote per chi studia da noi possono essere attivate subito. Come pure una terza riforma, non meno efficace delle altre e parimenti non dispendiosa di denaro pubblico. Eccola: che la classe politica parli dell'immigrazione sapendo che sono soprattutto i talenti stranieri quelli che leggono le loro esternazioni. I toni bellicosi non impediscono ai disperati di arrivare da noi. Servono solo a rendere ancora più pesante la situazione di alcune nostre periferie urbane e a scoraggiare i talenti stranieri dal venire da noi. Sono loro infatti gli unici a poter davvero scegliere dove andare e i primi a informarsi e a trarre la conclusione che il nostro non è un paese per stranieri. Ce lo dicono le indagini campionarie: è il benessere degli immigrati con più alto livello di istruzione a risentire di più dal manifestarsi di movimenti xenofobi nelle aree in cui risiedono. Quando Bossi intima agli immigrati «tornate a casa vostra» sta dicendo no all'arrivo in Italia del capitale straniero, del capitale più raro, quello fatto dalle persone che sanno spingerci oltre gli ostacoli anziché continuare solo a lamentarsi come fanno il 90 per cento dei manager italiani. A proposito: uno di loro, Guidalberto Guidi, che detiene il record di posti in consigli di amministrazione (40), ha invitato la settimana scorsa tutti i giovani ad andarsene dall'Italia perché priva di prospettive. Vorrei da queste colonne rivolgere l'invito opposto ai bravi manager stranieri: come here, venite da noi e cercate di contendere le poltrone ai nostri poltronisti che nulla hanno da invidiare ai pianisti degli scranni parlamentari. |