GRUPPO DI FIRENZE

per la scuola del merito e della responsabilità

Obbligo scolastico:
più opportunità = più uguaglianza

RELAZIONE INTRODUTTIVA AL CONVEGNO
“OBBLIGO SCOLASTICO E FORMAZIONE PROFESSIONALE”
Firenze, Istituto degli Innocenti, giovedì 5 novembre 2009

di Valerio Vagnoli
dal Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità, 6.11.2009

La scelta della Regione Toscana di far adempiere il diritto-dovere all’istruzione attraverso l’esclusivo canale dell’istruzione pone a mio avviso problemi sui quali occorre serenamente riflettere. Sono sempre più numerosi gli studenti che si rivolgono agli indirizzi professionali sperando di trovare, finalmente, un percorso ove l’attività pratica, laboratoriale e comunque legata alla concretezza possa essere funzionale ai loro desideri e alle loro esigenze. Molti di loro sperano, attraverso questo tipo di percorsi, di riscattare un passato scolastico già segnato da insuccessi e frustrazioni. Invece, finiscono col trovarsi di fronte ad una formazione professionale tale solo sulla carta e si arrendono presto di fronte a una girandola di materie e di ore che metterebbe in seria crisi anche studenti ben motivati e ben preparati per un percorso di tipo liceale.

Pensare infatti che si possa riempire con la quantità il vuoto culturale che certi studenti, per i vari motivi, si portano dietro non risponde ad alcuna logica pedagogica concreta. Penso invece che proprio nei confronti dei ragazzi che alla fine della scuola media sono ancora lontani dal completamento delle competenze di base si debba usare un criterio piuttosto omeopatico che non generalista e quantitativo, che rischia di demotivarli definitivamente. Forse queste competenze le si possono costruire facendo leva proprio sulla formazione professionale, che può fare da battistrada al percorso dell’istruzione. Intendo dire che sarebbe meglio iniziare con poche ore dell’area che chiameremo, per intenderci, “culturale”, per poi aumentarle in un secondo momento, quando gli studenti potranno toccare con mano che alla fine non basterà essere bravi tornitori o bravi falegnami o bravi cuochi: occorrerà anche essere bravi nella matematica e nell’italiano, magari per prendere con precisione le misure o per rilasciare fatture corrette e padroneggiare le frazioni per non distruggere una ricetta. Oggi, invece, accade esattamente il contrario: le attività di laboratorio e di stage sono, nei primi anni dell’istruzione professionale, assai marginali a vantaggio delle molte discipline di ordine generale che molti ragazzi rifiutano. Che una strada di questo tipo, cioè che assecondi le istanze dei ragazzi per recuperare in loro, in seguito, altri saperi e altre competenze, sia la più proficua, lo dimostra la stessa esperienza di molti adulti che si sono cimentati con lo studio di una lingua straniera o del computer, tanto per fare un esempio, solo quando sono diventati indispensabili all’evoluzione della loro professione; altrimenti ne avrebbero fatto volentieri a meno.

Ho visto decine di amici artigiani e operai della mia stessa generazione costruirsi per tutta la vita una cultura politica, scientifica e umanistica, con esiti talvolta anche profondi e originali; e dubito che avrebbero fatto la stessa cosa se fossero stati costretti nella loro adolescenza a subire due-tre anni di umilianti frustrazioni scolastiche. Molti di loro vanno orgogliosi di quello che hanno fatto e stanno facendo nella loro vita: doratori, meccanici, muratori, falegnami, pellettieri. Casomai rimpiangono di non aver potuto trasmettere ai giovani ciò che essi stessi hanno imparato, spesso rubando letteralmente i segreti del mestiere (un tempo si chiamavano i trucchi) ai maestri più anziani, gelosi custodi dei segreti di un’arte che si sarebbe tramandata integralmente quando il maestro fosse stato sicuro delle motivazioni del proprio allievo. Vi era, fino a pochi anni fa, una sorta di senso del sacro e del magico dietro a molti mestieri d’arte che oggi si stanno irrimediabilmente perdendo, perché si griderebbe allo scandalo se si ipotizzasse un quattordicenne intento ad imparare un mestiere, per esempio, in una delle ultime botteghe di doratori, restauratori o argentieri rimaste in città, ma sono centinaia che, alla stessa età, patteggiano quotidianamente la loro di fatto ingestibile permanenza a scuola o che, senza alcuna remora, trascorrono le giornate tra sottopassi delle stazioni o sale giochi in bar. Non occorre avviare indagini particolari per capire cosa fanno ogni giorno centinaia e centinaia di quattordicenni-quindicenni in fuga dalla scuola. Nel Valdarno, a Pontassieve, ad Empoli vi sono bar che si arricchiscono a loro spese e a Firenze basta dare un’occhiata a qualche sala giochi dalle parti di piazza san Marco o via Faenza per rendersi conto di quanto sia devastante il fenomeno. Anche in Toscana i giardini vanno riempiendosi di bande e sono sempre più numerosi i ragazzi che girano con i coltelli in tasca e magari, come abbiamo più volte letto nella cronaca di questa città, si divertono a dar fuoco a poveri animali. Riempiono così giornate che non chiedono loro nulla, prive di punti di riferimento in grado di trasmettere loro dei valori finendo, spesso, per assumere o affinare comportamenti tipici del bullismo.

Quello che ci preme sottolineare con forza è che a quattordici anni si può benissimo iniziare una seria formazione professionale che possa trovare da subito un preciso riferimento nelle attività di stage e in mirate attività complementari di stampo culturale, senza dover attendere che un ragazzo abbia fallito su tutti i fronti prima di potergli proporre l’incontro con un mondo, che, anche culturalmente, non merita il ruolo marginale in cui è stato collocato. È ben triste doverci accorgere che sono le crisi economiche ad obbligare i meno fortunati, quelli cioè che non possono contare a lungo sul sostegno delle proprie famiglie, ad adattarsi a lavori che da loro non possono che essere denigrati e ritenuti umilianti. Il paese che costituzionalmente riconosce nel lavoro il punto di riferimento ineludibile, attraverso il quale si diventa a tutti gli effetti cittadini, ha permesso che si creasse una vasta categoria di paria, in genere gli immigrati, destinati ad occuparsi dei lavori diventati nel frattempo più che umili, umilianti, perché alla mercé di qualsiasi arbitrio, sfruttamento, schiavitù e, tanto perché non si pensi solo alle badanti o ai raccoglitori di pomodori, mi permetto di aggiungere altri mestieri come il muratore, l’imbianchino, lo stuccatore, il potino sia di ulivi che di viti, e altro ancora. È possibile che non si possa uscire da un professionale per l’agricoltura senza provare aspettative per la potatura o, per esempio, la coltivazione ortofrutticola, unitamente al desiderio di fare una scelta di vita che sfido chiunque a ritenere di serie B? Evidentemente è possibile, visto che probabilmente i nostri ragazzi, finendo col misurarsi con una formazione professionale, che fa di tutto per svilire di fatto il lavoro e l’esperienza pratica, alla fine del percorso di studi superiori finiscono col sentirsi piuttosto in attesa di chissà quali altre aspettative che non pronti a misurarsi finalmente col lavoro. Non occorrono, credetemi, indagini statistiche per avvalorare quanto appena affermato: date un’occhiata ai bar e ai ristoranti per rendervi conto di come sia sempre maggiore il numero degli stranieri senza alcun titolo specifico, che si dedicano alle professioni tipiche della nostra formazione alberghiera! E quasi ogni giorno sono sottoposto a richieste di nominativi di ragazzi diplomati che siano disponibili a lavorare in hotel e ristoranti anche di pregio e di fama e quasi sempre queste richieste rimangono lettera morta, perché il sistema sembra più finalizzato a creare universitari spostati che non dei giovani autonomi e magari disponibili ad andare a lavorare a qualche centinaio di chilometri dalla propria famiglia. La sensazione è che molti ragazzi e famiglie, non potendo avere altra scelta, scelgano l’istituto professionale piuttosto per arrivare comunque a “prendere il pezzo di carta” attraverso un percorso ritenuto più facile di altri, che non perché motivati e intenzionati a creare le basi per il proprio futuro. È di questi giorni la risposta mesta e quasi giustificativa di chissà quale fallimento, da parte di una allieva che è tornata a scuola a ritirare la certificazione del recente diploma di maturità. Alla mia domanda su cosa stesse nel frattempo facendo, mi ha risposto, appunto con mestizia e quasi con senso di vergogna e sconfitta, che aveva trovato lavoro in un bar: pensate che abominio per una ragazza diplomatasi nell’indirizzo di Ristorazione dover lavorare in un bar senza neanche tentare l’università o permettersi, come moltissimi suoi compagni di aspettare, aspettare, aspettare che siano gli altri a pensare a loro, visto che fino ad allora, per loro, è stato appunto sempre così! Troppo spesso, almeno questa è la mia sensazione, ci trinceriamo dietro la paura che a quattordici anni far fare ai ragazzi delle scelte che riguardano il loro futuro sia prematuro e perciò sbagliato e discriminante; ma forse varrebbe la pena soffermarsi con altrettanta attenzione e premura su come sia estremamente negativo rinviare loro sine die questo incontro con la responsabilità. Anch’essa, come molte altre cose, la si impara e la si costruisce in un periodo ben preciso della nostra esistenza e i 14 anni fanno parte, appunto, di quel periodo.

Ogni anno si conferma o cresce, malgrado la miriade di progetti messi in atto, il numero dei bocciati nelle prime classi degli Istituti professionali e tecnici; anzi, la scelta di risolvere l’obbligo solo all’interno del percorso dell’istruzione e la struttura stessa degli istituti professionali troppo licealizzati, contribuisce, senza timore di smentita, all’aumento delle bocciature. A rendere ancora più drammatica la situazione - ne sono ben consapevoli i servizi sociali territoriali - sta crescendo in modo quasi esponenziale il numero degli studenti che proprio nelle prime classi dei professionali (e da un po’ di tempo anche dei tecnici) abbandonano la frequenza e scompaiono letteralmente dalle aule scolastiche anche prima del compimento dei sedici anni.
Inutile soffermarsi sulle problematiche che, quotidianamente, si vivono nelle scuole per il comportamento di quegli studenti che, pur rimanendo nel sistema scolastico, rendono di fatto impossibile il regolare svolgimento di buona parte delle lezioni; ragazzi che dichiarano esplicitamente, spesso all’unisono con i loro genitori, di attendere i sedici o i diciotto anni per poter andare a lavorare anche in settori che niente hanno a che fare con la scuola che frequentano. È opportuno confermare che la scelta dei professionali è spesso legata alla speranza di trovare, da parte dei ragazzi e delle loro famiglie, una scuola facile e idonea ad assorbire i tanti “sufficienti” che escono dall’esame di scuola media. Inutile dire che il comportamento di questi studenti, com’è tipico di chi non ha motivazioni e di chi vive una costante situazione di frustrazione, molte volte non si sente vincolato ad alcun rispetto delle regole, finendo così col penalizzare fortemente e in modo irreparabile quei loro compagni che, insieme alle loro famiglie, attendono dall’indirizzo scelto il rispetto di quanto loro è dovuto. Talvolta nelle classi prime l’ora di lezione si riduce a una decina di minuti in tutto e il resto del tempo si perde nei vari tentativi, da parte dei docenti(solitamente straordinari e comunque incolpevoli se fino ad oggi quasi nessuno si è preoccupato d’investire sulla loro formazione) di ricomporre un gruppo classe ingestibile e refrattario a qualunque regola. Si ricordi che a quell’età si hanno capacità di apprendimento, ovviamente anche nell’imparare un lavoro, che non si ripresenteranno più nella vita di un uomo: e ciò ci rende chiara quale sia la portata dei danni che si fanno agli uni, obbligandoli a fare ciò che non amano, e agli altri, che vedono vanificare il loro primo e importante investimento per il futuro e, a dirla con franchezza, il diritto allo studio.

Proprio per salvaguardare la qualità degli istituti professionali e per diminuire l’alto tasso di bocciature, da anni la Regione, le Province e lo stesso Ufficio scolastico Regionale supportano con progetti mirati e di solito molto pertinenti, le attività didattiche, in particolar modo nel biennio. Ed è particolarmente encomiabile l’impegno della Provincia di Firenze nel sostenere un importante progetto teso a diffondere tra i docenti la cultura della didattica laboratoriale, diversificata e personalizzata. Ma è chiaro che anche strumenti del genere non potranno incidere più di tanto sulle percentuali degli insuccessi, né soddisfare le aspettative di quei ragazzi che, come dicevo prima, hanno una particolare passione per il fare. Perché ciò accada, perché si possa cioè ridurre veramente ai minimi termini la dispersione scolastica, si dovrà cominciare a prendere in esame i dati relativi all’evasione in quelle regioni e in quei paesi ove si ritiene che la formazione professionale sia una vera e propria risorsa per lo sviluppo sociale ed economico, prima ancora che un percorso teso a recuperare una certa categoria di studenti. Di questo ci renderà tra poco testimonianza il professor Drago. Dobbiamo, insomma, vedere nello studente che vuole fare il carrozziere, il muratore, l’idraulico, il falegname o magari l’argentiere o il doratore, non qualcuno da rieducare o recuperare, bensì una vera e propria risorsa da seguire e assecondare, col rispetto che si deve a chi, ad un certo punto della propria esistenza, rivendica un riconoscimento al proprio carattere e, uso un brutto termine caro al linguaggio pedagogico, alle proprie vocazioni. Abbiamo il dovere di educare ma tenendo conto degli interessi precisi e motivati degli studenti. Dante Alighieri ha mirabilmente chiosato in una terzina questo concetto: "Sempre natura, se fortuna trova / discorde a sé, com’ogne altra semente/ fuor di sua region, fa mala prova". È difficile, veramente difficile che si possa riempire di nozioni e competenze di ogni tipo chi si affaccia alla determinazione della propria vita con ben altre attese e ben altri interessi. Il rischio è quello di inaridirlo, di costringerlo, a dirla con Dante, ad una “mala prova”, destinata però a rifarsi costantemente viva nelle persone perché i fallimenti, i disagi, l’essere stati sbattuti in una sorta di ultima spiaggia quando si è adolescenti può lasciare dei segni profondi e duraturi per tutta la vita. E permettetemi ancora una citazione, visto che l’intenzione di questa relazione non è quella di delineare un nervoso je accuse nei confronti del “modello toscano” quanto invece, sulla scia di una cultura e di maestri nei confronti dei quali abbiamo più di un debito, proporre e proporci degli interrogativi, stimolare, anche dentro di noi, come ci insegna Popper, dubbi e percorsi che possano ampliare strade già aperte, come questa della Toscana, con l’onestà vera di chi ha a cuore il futuro dei giovani. Scrive il Vasari introducendo la figura di Giuliano da Maiano: “Non piccolo errore fanno que’ padri di famiglia che non lasciano fare nella fanciullezza il corso della natura agl’ingegni dei figlioli, e che non lasciano esercitarli in quella facultà che più sono secondo il gusto loro. Perocché il voler volgerli a quello che non va loro per l’animo, è un cercar manifestamente che non siano mai eccellenti in cosa nessuna; essendo che si vede quasi sempre, che coloro che non operano secondo la voglia loro, non fanno molto profitto in qualsivoglia esercizio.”

È decisamente interessante constatare come la Regione Toscana attivi percorsi di recupero (terzo anno professionalizzante o percorso diversificato anche, in casi particolari, dalla prima superiore) per i ragazzi che hanno questo tipo di attese o per i ragazzi che hanno avuto difficoltà ad entrare in un percorso di istruzione: ma perché aspettare che questi ragazzi accumulino frustrazioni e fallimenti? Perché far ulteriormente passare il messaggio che la formazione professionale è alla fine un percorso per chi ha fallito o non ha addirittura affrontato quello dell’istruzione, evidentemente ritenuto il solo attraverso il quale si diventa cittadini preparati e consapevoli? Perché mortificare ragazze e ragazzi incanalandoli in un percorso formativo di recupero che a tutti gli effetti è ritenuto e soprattutto si presenta ed è percepito come marginale, residuale, se non addirittura una sorta di ammortizzatore per ragazzi difficili e svogliati?

Per molti aspetti è ammirevole l’attenzione dei legislatori toscani nel tentativo di evitare, attraverso opportuni interventi di supporto, discriminazioni nei confronti dei ragazzi svantaggiati, per esempio perché figli di genitori con basso titolo di studio o perché stranieri. Ma gli stessi legislatori, prevedendo queste azioni di supporto e di recupero per coloro che “ si troveranno in situazioni di grave difficoltà al limite della interruzione della frequenza... o per coloro che l’abbiano già interrotta” riconoscono di fatto l’impossibilità di evitare gli abbandoni. A noi piacerebbe invece prevenirli questi abbandoni ed evitare, almeno in queste percentuali, che i ragazzi diventino sempre più “difficili”, anche grazie alla scuola e alle frustrazioni che essa procura loro. Provate per un attimo ad immedesimarvi in un ragazzo costretto a seguire un percorso che non ama, e che non desidera, senza poi trovare neanche accidentalmente una gratificazione rispetto a quello che gli viene imposto! Piacerebbe pensare, ripeto, come pur accade in altre regioni e in altri paesi europei, ad una formazione professionale che fosse in grado di non dover frettolosamente recuperare nessuno, ma con i tempi lunghi e propri anche della formazione professionale, potesse diventare qualcos’altro rispetto alla pur importante necessità d’insegnare un mestiere ai ragazzi. In altre parole, una scuola vera e propria ove chi la frequentasse non si sentisse inferiore rispetto a chi riceve una cultura considerata alta che, malgrado e forse per questo, non ha sempre contribuito in maniera puntuale, come afferma anche Norberto Bottani, a garantire lo sviluppo della democrazia e del senso di uguaglianza tra gli uomini. Non ho timore alcuno di smentita, invece, nel dichiarare, senza alcuna facile inclinazione populistica, che casomai proprio dal mondo del lavoro, e da quello artigianale in particolare, è venuto il meglio di questo paese proprio sul piano della crescita civile e democratica. Ma torniamo all’ipotesi di una formazione professionale allineata alle istanze di cui parlavo poco fa: ovviamente essa non dovrà mai precludere in nessun momento il passaggio da un sistema all’altro, dalla formazione all’ istruzione e viceversa. Nel primo caso sarebbe auspicabile che soprattutto nel terzo anno della formazione professionale, quando più consapevolmente può essere maturata da parte dello studente (si badi bene: dello studente), la volontà di entrare o rientrare nel percorso dell’istruzione, si potesse contare allora sulla possibilità di integrare la parte relativa alle discipline da recuperare o approfondire per agevolare allo studente il rientro nel percorso dell’istruzione ma anche permettergli di continuare in percorsi di alta qualificazione professionale.

Essere competenti e appassionati nel e del proprio lavoro: questa è la grande scommessa a cui non ci dobbiamo sottrarre, il grande progetto illuminista per rendere più liberi gli uomini perché, come appunto afferma Primo Levi nella Chiave a stella “…. il tipo di libertà più accessibile, più goduto soggettivamente, e più utile al consorzio umano, coincide con l’essere competenti nel proprio lavoro, e quindi nel provare piacere a svolgerlo”. E perché ciò accada non ci possiamo permettere che i giovani scelgano il proprio futuro quando già adulti o per ripiego. Eppure i dati offerti da Alma laurea, una delle poche agenzie che in questo paese è in grado di offrire analisi precise intorno al problema della scuola, ci dicono come molti percorsi universitari siano dannosi all’ingresso nel mondo del lavoro, sia perché finalizzati a formare profili assolutamente inutili nel campo economico, sia perché, illudendo i giovani, li sbattono poi nel mondo del lavoro, quando va bene, a 26-27 anni senza alcuna competenza specifica e senza possibilità alcuna di trovare riferimenti in ambiti che abbiano per loro un minimo d’interesse e motivazione. Vorrà pur dire qualcosa, se (i dati sono del Miur – Nardiello, convegno CONFAO) in Francia ogni anno sono 280.000 i giovani entro i 18 anni che hanno esperienza di apprendistato, mentre in Italia sono appena intorno ai 5.000! E qualcosa vorrà pur dire se una recentissima inchiesta di Confartigianato (Corriere della sera del 20 agosto) mette in risalto come certi settori della nostra economia (ristorazione, parrucchieri, tornitori, falegnami, elettricisti, pavimentatori, agricoltura, sarti, verniciatori industriali, attrezzisti di macchine utensili, fabbri, pittori-stuccatori, pasticceri, idraulici, meccanici di auto, saldatori, panettieri, etc.) siano ampiamente scoperti. E non mi soffermo su quello che è stato il destino di molte delle nostre botteghe artigiane, che si sono definitivamente perse, anche perché non le abbiamo sostenute nell’apprendistato o, comunque, nel valorizzarle come una sorta di agenzie formative ante-litteram!

Altro che di serie B! Purtroppo la formazione professionale è diventata un percorso forse inconsapevolmente classista; classista perché, appunto, residuale e perché specifico di un paese che ancora ha da fare i conti con una mentalità che continua a riferirsi al modello gentiliano, che a sua volta altro non era che una emanazione della mentalità ottocentesca, tipica di una società ingessata che, non senza ragione per quei tempi, pensava che la classe dirigente si dovesse formare attraverso una formazione selettiva ed esclusivamente legata ad una cultura classica. Purtroppo e in ritardo di decenni rispetto ad altri paesi, è da qui che dobbiamo ripartire, dal ribaltare cioè una visione piramidale della cultura, che ridia valore anche a quella che trova nella pratica e nel lavoro manuale una pari dignità e una identica occasione per migliorarsi e per appagare le nostre aspettative. A questo proposito è davvero esaustivo un delizioso Buongiorno di Gramellini (la rubrica pressoché quotidiana che egli tiene sulla Stampa) scritto pochi giorni dopo l’elezione, giusto un anno fa, di Obama a presidente degli Stati Uniti ed ispirato ad una intervista ad un vecchio compagno di scuola media dell’allora appena eletto presidente. Scrive Gramellini:

“Quando il tuo ex compagno di scuola viene eletto presidente degli Stati Uniti, hai un bel ripetere a tutti i microfoni che sei contento. Nella migliore delle ipotesi proverai un pizzico di umanissima invidia. Nella peggiore, verrai assalito dal morbo letale dei paragoni, che ti provocherà la sensazione di essere una nullità. Perciò mi ha spiazzato e commosso la breve intervista a un ex compagno di scuola di Obama. – Il suo destino era diventare presidente, il mio diventare orologiaio. E ce l’abbiamo fatta tutti e due- ha detto con naturalezza.
E si capiva che per lui non esistevano una serie A e una serie B, ma due desideri di eguale valore che si erano realizzati. La cultura dominante ripete ogni giorno che per essere felici bisogna entrare nel piccolo cerchio della notorietà e che solo i mestieri che garantiscono fama e denaro meritano di essere perseguiti. Invece l’ex compagno di Obama ci ha detto una cosa diversa. Che tutti ma proprio tutti abbiamo un talento, piccolo o grande, e l’unica cosa che conta è accorgersi di possederlo. Per superficialità o blocchi interiori, molti non riescono a metterlo a fuoco e conducono vite magari brillantissime ma infelici, perché scentrate rispetto alla missione iniziale del loro vivere.
Non c’è nessuna differenza fra chi ripara orologi e chi viene chiamato a riparare il mondo, se entrambi infondono nel proprio lavoro il senso profondo di un’esistenza. Soltanto uno dei due finirà sui libri di storia, ma poco importa. Importa che anche l’altro potrà dire di aver vissuto davvero.”

Ecco, aiutare i ragazzi a rintracciare il loro talento, aiutarli a farglielo trovare e irrobustire nella consapevolezza che anche da qui possa, senza presunzione alcuna, riorganizzarsi un futuro in grado di ridare vita alle botteghe artigiane e a un lavoro qualificato e amato che, in quanto tale, potrà liberare gli uomini dalla rincorsa quasi sempre frustrante di una professione da ostentare al prossimo, indotta dalla moda o dalle aspettative delle famiglie piuttosto che rispondente alla propria passione, ai propri desideri e alle proprie e vere attese.

Veniamo tuttavia alla conclusione. Da questo convegno, ripeto, ci aspettiamo che si possa aprire un confronto sereno e pacato su quali possono essere le opportunità per aiutare i ragazzi a trovare, coltivare e affermare con dignità e determinazione il proprio talento, anche al di fuori dall’esclusivo percorso dell’istruzione. Le esperienze, e la possibilità di poterle sfruttare, queste opportunità, grazie anche al lavoro che la Regione ha fatto in questi anni, non mancano. Grazie a questo lavoro abbiamo a disposizione personale qualificato e competente e ben inserito da tempo nei percorsi integrati della formazione. Lo si trova all’interno del mondo del lavoro, delle Agenzie formative, delle associazioni delle professioni, delle imprese, oltre beninteso che nel mondo scolastico. Non è un impegno da poco e nelle conclusioni questo aspetto lo si potrà ancora approfondire con maggior chiarezza e puntualità; si tratta in fondo di lavorare per aiutare le nostre ragazze e i nostri ragazzi ad essere quanto più possibilmente competenti e pertanto felici e orgogliosi di sé stessi. E’ il compito più alto e difficile che i maestri devono ai loro allievi, che la società deve ai suoi individui, che la politica deve ai cittadini, e non è detto che questo compito, per i ragazzi, debba esclusivamente passare solo dai banchi di scuola. Il nemico vero del nostro e del loro futuro è abituarli all’abulia, all’attesa e all’illusione che debba essere il mondo ad andare da loro, quando è invece vero esattamente il contrario, come ci insegna la grande rivoluzione del Rinascimento che trovò ad un certo punto, come tutti sappiamo, anche fra queste mura, dei riferimenti precisi: una rivoluzione legata anche al genio di un architetto, al quale peraltro è dedicata questa sala, che aveva però raccolto il meglio delle scoperte, come poi avrebbe fatto lo stesso Galileo, che erano maturate da tempo nelle botteghe fiorentine. Un architetto che si era potuto avvalere dell’aiuto di maestranze che godevano di diritti e prestigio ancor oggi invidiabili perché entrambi, prestigio e diritti, nascono, al di là dei tempi in cui siamo chiamati a vivere, anche dal ritenere quello che si fa e come lo si fa, qualunque mestiere esso sia, uno degli aspetti che più contribuiscono, per dirla con Gramellini e Primo Levi, a dare un senso profondo alla nostra esistenza.
 

Grazie davvero per la paziente attenzione