La guerra identitaria del crocifisso

Stefano Rodotà, la Repubblica 17.11.2009

È difficile entrare in tempi nuovi quando si è portatori di identità forti, individuali e di gruppo, quando è intensa la consapevolezza della tradizione alla quale si appartiene. Il nostro è proprio uno di quei passaggi d'epoca in cui le identità sfidate tendono a reagire chiudendosi in se stesse, divenendo più aggressive: locale contro globale, tradizione contro cambiamento, radici contro trasformazione, unicità contro diversità. Ma è appunto a queste contrapposizioni che bisogna sfuggire. Ancor oggi il mondo è percorso da conflitti identitari, da sanguinose rivendicazioni di radici, dall'illusione che più alte sono le mura maggiore è la protezione. Più paura che lungimiranza: questa rischia d'essere la guida verso un futuro che già è tra noi.

L'aspra discussione sull'esposizione del crocifisso muove da una falsa premessa: la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo avrebbe negato i valori cristiani, cancellato una tradizione. E, per rafforzare questa tesi, si usano parole fuori luogo, ma pure molta eloquenza e si ricorre ad argomenti tratti anche dalla riflessione di personalità non cattoliche. Ecco, allora, comparire l'inevitabile riferimento a Benedetto Croce e al suo "perché non possiamo non dirci cristiani". A qualsiasi testo, però, bisogna guardare liberi dalla tentazione di usarlo frettolosamente, o di strumentalizzarlo. Croce, lo ha detto Gennaro Sasso in un saggio illuminante, riflette sul nesso tra rivoluzione cristiana e filosofia moderna, sì che la sua è appunto una interpretazione tormentata e fortemente caratterizzata come riflessione filosofica. Questo esempio mostra come una riflessione culturale rigorosa non porta necessariamente con sé pure una conseguenza "normativa", dunque la necessità di tradurla in un dato vincolante. Anzi, più si va a fondo negli aspetti culturali di un problema, più se ne colgono le sfaccettature e l'irriducibilità a un solo punto di vista: e la regola giuridica deve rispettare questa diversità.

La sentenza dei giudici di Strasburgo è consapevole della forza di quel simbolo. Se lo avesse banalizzato, avrebbe concluso che poteva rimanere al suo posto. Ma esso continua a sprigionare un senso profondo, una identificazione con una specifica fede che, nel momento in cui si passa dalla riflessione culturale alla valutazione istituzionale, impongono che si tenga conto di altre sensibilità, di altri punti di vista. Di questo mostrano d'essere consapevoli molti critici, che argomentano la necessità di lasciare il crocifisso nelle scuole dal suo essere ormai "un volto universale dell'umanità". Che è tesi sostenibile, ma non decisiva e che talvolta dà all'argomentazione un sapore di paradosso: il crocifisso viene allontanato dalle sue "radici cristiane" proprio nel momento in cui di queste si rivendica il pubblico riconoscimento.

Ma in questa discussione molte sono le lingue tagliate. Poco o nulla si è detto del bel documento delle Comunità cristiane di base, dove si chiede "meno Croce e più Vangelo". Sembra scomparsa la memoria di don Lorenzo Milani che toglie il crocifisso dalla scuola di Barbiana. Non si ricorda che, discutendo nel 1995 della sentenza della Corte costituzionale tedesca sulla rimozione del crocifisso, Vittorio Messori diceva: «Non mi scandalizzerei affatto se anche in Italia si decidesse di togliere il crocifisso dalle aule pubbliche. Sono cristiano e papista, ma il Cristianesimo non è l'Islam: non impone la fede, la propone». Il teologo Sergio Quinzio giungeva alla conclusione radicale che «il crocifisso non è più un simbolo di umanità per tutti». E si potrebbe continuare.

Ricordo tutto questo non per spirito polemico, ma per mostrare quanto sarebbe necessaria una attenzione più larga per lo stesso mondo cattolico, percorso da dinamiche irriducibili all'ufficialità vaticana che monopolizza l'attenzione della politica e dell'informazione, mentre in quel mondo si consuma uno "scisma" (è il titolo del libro dedicato da Riccardo Chiaberge ai "cattolici senza Papa"). Posizioni minoritarie, come si sottolinea citando i sondaggi che vogliono gli italiani favorevoli all'84% al crocifisso nelle aule e ricordando che il 91% degli studenti segue l'ora di religione? Ma nella materia dei diritti non vale il principio di maggioranza. Lo ha sottolineato molte volte la Corte costituzionale, scrivendo che «l'abbandono del criterio quantitativo significa che in materia di religione, non valendo il numero, si impone ormai la pari protezione della coscienza di ciascuna persona».

Nella dimensione istituzionale, dunque, quella in cui si muovono le corti internazionali e quelle costituzionali, le opinioni e le culture non possono operare "in presa diretta", con la forza del numero o d'una tradizione, ma debbono sempre essere filtrate in primo luogo attraverso la considerazione dei diritti di tutti e di ciascuno. E debbono essere misurate con riferimento ai principi costituzionali. In questo caso "il principio supremo della laicità", come lo ha definito nel 1989 la Corte costituzionale.

Così non si torna a forme anacronistiche di separazione, che negano la scuola come luogo in cui possano essere manifestate le convinzioni religiose. Una cosa, tuttavia, è riconoscere agli studenti la libertà di entrare in questo spazio pubblico con i propri simboli – il velo o la kippah, la croce o il turbante del sikh – e di vedersi offerta la possibilità di una conoscenza critica della storia delle religioni. In questo modo si creano le condizioni per la libera costruzione della personalità attraverso la conoscenza e il riconoscimento dell'altro. Altro sarebbe attribuire una primazia a una fede tra le altre o interpretare il pluralismo come compresenza ufficiale di tutti i possibili simboli religiosi, che trasformerebbe la scuola in un supermercato sulle cui scansie vengono esposte le diverse "identità".

È proprio in questa difficile prospettiva pluralista che va collocata la discussione sul crocifisso, che deve essere allontanata dalla tentazione di trasformarla in una difesa a oltranza di una "ben rotonda identità". I tempi mutati esigono la paziente costruzione di un quadro istituzionale "inclusivo", che si fondi sulla pari libertà e dignità di chi crede e di chi non crede, di chi professa l'una o l'altra fede.

Leggiamo la sentenza della Corte di Strasburgo con questo spirito, senza trarne spunto per guerre di religione o pretesto per attaccare l'Unione europea, alle cui istituzioni essa non appartiene. E senza rivendicare in ogni momento il richiamo alle radici cristiane, opportunamente escluso dal Trattato di Lisbona per la forzatura culturale (si potevano ignorare le altre tradizioni che hanno fatto l'Europa?), per il rischio politico ( una porta chiusa in faccia a un paese islamico come la Turchia?), per le distorsioni applicative (sarebbe stato necessario leggere l'intera Carta dei diritti fondamentali con il filtro delle radici cristiane?).

In altro modo oggi l'Europa deve guardare alla sua storia e alle sue radici. Essa vive una crisi dalla quale non può uscire rinserrandosi tra alte mura. Viviamo una nuova "crisi della coscienza europea", come quella che la colse tra '600 e '700 ed alla quale dedicò un gran libro Paul Hazard, mettendo in evidenza il passaggio "dalla stabilità al movimento", la fine di antichi equilibri, e definendo l'Europa come "un pensiero che mai si accontenta". Questo spirito aperto dovrebbe guidarci, anche come italiani, nel nuovo tempo che per l'Unione europea si apre con l'entrata in vigore il 1o dicembre del Trattato di Lisbona.