Levi Strauss e il crocefisso:
l’eterno ritorno dell’eguale

di Aluisi Tosolini, Pavone Risorse 4.11.2009

Due notizie hanno coabitato in questi due giorni sulle prime pagine dei quotidiani e nelle aperture dei telegiornali: la sentenza della Corte europea dei diritti dell'uomo di Strasburgo sul crocifisso nelle aule scolastiche in Italia, e la morte di Levi Strauss, il padre della moderna antropologia culturale.
Ovviamente i titoli a più colonne sono riservati alla vicenda crocefisso mentre a Levi Strauss in prima pagina è dedicata una colonna o un rimando ad approfondimenti interni, nelle pagine culturali che sono lette da poche decine di persone.
Eppure, sembra un gioco del destino, proprio Levi Strauss potrebbe aiutarci a leggere la notizia sul crocefisso collocandola nella sua giusta dimensione aiutandoci anche a sorridere un po’ di questo eterno ritorno dell’eguale.

 

La polemica sul crocefisso: ancora?

Pare non si potesse vivere senza la nuova polemica sul crocefisso nei luoghi pubblici.  E infatti prontamente tutte le forze politiche (sostanzialmente concordi: non si sa mai che i cattolici…. – o forse sarebbe meglio dire le gerarchie cattoliche? – si arrabbino e ci facciano perdere voti) si sono schierate bipartisan sulla questione.
Il crocefisso, dicono tutti, è l’espressione della nostra bi-millenaria cultura più che dell’appartenenza alla religione cristiana. Inoltre esso è parte della nostra tradizione.
Mai e poi mai, dicono i più accesi nella difesa del crocefisso (ovvero gli esponenti del partito politico che spesso quella croce hanno trasformato in spada – lo spadone di  Alberto da Giussano – simbolo del rifiuto dell’alterità che, come spesso ha sottolineato l’attuale vicesindaco di Treviso, dovrebbe essere ridotta a fare il leprotto in tempo di caccia) potremo rinunciare alla nostra identità. E non si capisce se cristiana,  cattolica, europea, occidentale, celtica,  fondata sulla religione del sole padano o sulla venerazione dell’acqua del Po che con ampolla ogni anno viene trasportata dal Monviso a Venezia.

Con estrema sintesi il ministro Luca Zaia (si veda il suo blog  http://www.lucazaia.it/ al giorno 17 ottobre 2009) scriveva a riguardo della proposta dei suoi alleati di istituire l’ora di islam:

L'ora di religione cattolica obbligatoria per i musulmani nelle nostre scuole serve a far capire a loro perchè noi siamo così e quali sono i risultati del cristianesimo e cattolicesimo profondamente radicati nella nostra società. L'ora di religione islamica? Usando il linguaggio rugbystico, la proposta di Urso è una 'mischia al centro'. Il vero tema è obbligare gli islamici a studiare la nostra religione. Non è un processo di evangelizzazione ma di conoscenza e consapevolezza della nostra religione.

Rileggo: obbligare gli islamici a studiare la nostra religione… E rileggendo io spero che nessuno creda davvero che il cristianesimo ed il cattolicesimo siano alla base di quello che siamo diventati. Visto che il messaggio evangelico è completamente altro rispetto a quanto proposto.
Ma insomma, andiamo oltre: togliere o mettere il crocefisso?

 

Andando indietro nel tempo….

Quasi otto anni fa, i primi giorni di gennaio 2002, proprio su PavoneRisorse, pubblicavo un lungo pezzo intitolato  Togliere o aggiungere? Una riflessione di filosofia dell’educazione e dedicato proprio alla annosa questione se togliere o no il crocefisso dalla aule.

Andando a rileggere ieri quella riflessione ho pensato che la sostanza di quanto scrivevo allora è, per quanto mi riguarda, ancora valida. Sono cambiati (ma neppure tanto) alcuni elementi di contesto: per il resto tutto è rimasto eguale.
In quel testo sottolineavo che invece che togliere si tratta di aggiungere. Si tratta cioè di trasformare un luogo pubblico come la scuola in una casa comune in cui tutti possano sentirsi a proprio agio e ritrovare, anche sul versante dei simboli identitari, ciò che è proprio ma che proprio per questo non nega l’interazione con le alterità e gli altri simboli identitari.

 

I luoghi pubblici come polifonia piuttosto che come asettico deserto

I luoghi pubblici, e tanto più i luoghi in cui si costruisce nuova cittadinanza e nuove cittadinanza come la scuola, non devono essere pensati come luoghi asettici, come luoghi desertici e vuoti, ma al contrario come luoghi polifonici dove la pluralità delle differenze imparano ad interagire sino a mettere al mondo le plurime differenze capaci di tessere nuove relazioni sociali inclusive e rispettose dei diritti di tutti.
Nel testo del 2002 ricorrevo alla metafora dei 4 diversi ristoranti cui un gruppo di persone con diversi gusti culinari poteva pensare rivolgersi per una tranquilla cena fra amici.
E anche la cucina, come ho scoperto poi leggendo Enzo Bianchi, è uno di questi luoghi sinfonici nei quali i gusti, i sapori, gli odori, le storie e le vite dei prodotti della terra e degli uomini si meticciano, si mischiano, danno vita ad un composito menù rispettoso delle plurime identità di quanti sono invitati alla tavola comune.

 

Sul versante della mia appartenenza al cristianesimo cattolico….

….beh…. sul questo versante devo invece ribadire che l’identificazione del crocefisso con la cultura occidentale mi fa ribollire il sangue.
Nel citato articolo del 2002 così scrivevo:

Provo a descrivere il tutto con un esempio che mi riguarda personalmente (…anche la rubrica interculturale di pavonerisorse è attraversata da venature "narratologiche"..).
In questi ultimi anni vi è stato un significativo uso (a mio parere abuso) della dizione "civiltà cristiana". La cosa mi infastidisce e mi turba su due diversi versanti:

a. sul versante della mia appartenenza alla comunità cristiana: mi turba un po’, infatti, che persone e/o gruppi che nulla hanno a che fare con la cristianità intesa come fede religiosa e comunità di credenti si ergano a difensori della cristianità utilizzando il concetto di "civiltà cristiana" come sinonimo di "civiltà occidentale", intesa spesso come civiltà superiore. Detto in altri termini: la cristianità non si identifica con l’occidente. Se così fosse tutta l’attività cosiddetta missionaria dovrebbe coincidere con l’occidentalizzazione della persona che si converte al cristianesimo. Che ciò sia successo per secoli è vero, ma che questa modalità sia superata è cosa fuor di dubbio nel mondo cristiano. Nessun missionario sostiene più l’antico adagio che ha guidato intere stagioni della vita della chiesa nella sua missio ad gentes: evangelizzare per civilizzare, civilizzare per evangelizzare.

b. sul versante della laicità  mi lascia perplesso l’uso di parametri religiosi (fosse anche solo a livello semantico) per descrivere una società. Così facendo si rischia di cadere proprio in quella posizione che si contesta ad altri e che si chiama, occorre pur dirlo, fondamentalismo. In questo caso ciò che viene messo in crisi è il principio di laicità secondo cui l’appartenenza religiosa non può in alcun modo interferire a livello di "cittadinanza" e di diritti. Il che non significa, sia chiaro, che la "polis" si definisca agnostica. Al contrario: il fatto di non avere una religione di stato non implica il rifiuto delle religioni quanto piuttosto l’apertura massima nei confronti di ogni cittadino, di ogni uomo e donna nella loro integralità. E quindi anche nella loro dimensione religiosa. E’ anche chiaro che questo ragionamento non ha nulla a che vedere con il fatto che il cristianesimo sia uno degli elementi cardine, dal punto di vista storico, della nostra società.

Confondere, fino a far diventare sinonimi, i termini società occidentale e cristianità può solo portare a gravi fraintendimenti. I primi a rigettare tale confusione sono (o almeno dovrebbero essere) proprio i cristiani. Se infatti il cristianesimo risulta strutturalmente legato ad una cultura non si vede come sia possibile sostenere la sua cattolicità, il suo essere cioè universale. Il suo interrogare tutte le culture e tutti gli uomini.

 

Dopo quasi 8 anni….l’ora delle religioni

Sono passati otto anni da quando scrivevo queste riflessioni. Da allora molte cose nella mia vita sono cambiate. Ho cambiato mestiere, sono invecchiato (non per questo diventando più saggio, ma di certo più impaziente), sono diventato nonno, ho scritto molti altri libri e frequentato molti altri convegni cercando di argomentare la posizione interculturale di matrice interazionista piuttosto che integrazionista…
Anche nell’ultimo intervento su Pavonerisorse dedicato all’ora delle religioni piuttosto che all’ora di religione cattolica, islamica, buddista, sik ecc… ho cercato di argomentare lo stesso concetto. Criticando anche un documento vaticano che in qualche modo prelude alla balcanizzazione dell’educazione “religiosa” nella scuola e che, riletto alla luce della polemica sul crocefisso, prelude anche alla balcanizzazione dei simboli identitari (in una classe in cui vi fosse infatti una maggioranza di alunni islamici sarebbe infatti obbligatorio, stando a quel ragionamento, l’esposizione di un simbolo islamico….).

 

Il cerchio si chiude attorno al punto di partenza

E così siamo tornati al punto di partenza.
Al solito, terribile punto di partenza.
La domanda cruciale mi pare essere la seguente: il nostro compito è conservare la nostra (presunta) identità o iniziare a costruirne una nuova (che non implica l’eliminazione tout court della precedente) visto che stiamo entrando in un nuovo mondo?
In un mondo non più monoculturale ma radicalmente differente?
Una domanda non eludibile.
Proverò, nel prossimo intervento, a esplicitare con franchezza il mio pensiero.
Per oggi mi basta (e mi rattrista) il pensiero che se la cultura nella quale viviamo avesse appreso e riflettuto la lezione di Levi Strauss non staremo qui a farci queste domande.
Ma non è, questo, il tempo in cui gli intellettuali vengono ascoltati.

Grazie Claude Levi Strauss.  Nei tuoi cento anni di vita hai attraversato il novecento consegnando al nuovo secolo una lezione che appariva già in tutta la sua lucidità nel testo sui Nambikwara del 1948.
E oggi, forse, non sono tristi solo i tropici.