SCUOLA
Berlinguer: cambiare le Medie? Rossano Salini intervista Luigi Berlinguer, il Sussidiario 16.3.2009 Professor Berlinguer, dalla colonne di questo giornale abbiamo lanciato un dibattito sul tema della scuola media. Una discussione serrata, che ha coinvolto i nostri lettori in modo a volte anche animato. Eppure siamo in pochi a parlarne: è forse un tema secondario rispetto ad altri in questo momento più urgenti?
A mio avviso avete invece centrato
l’argomento: la scuola media è la lente attraverso la quale guardare
l’intero sistema scolastico, perché rivelatrice delle questioni più
importanti che sono sul tappeto. Ho letto interventi molto
equilibrati, seppure con al fondo una sorta di grido di dolore; e il
dibattito che ne è nato, con le diverse posizioni sostenute, è
anch’esso indicativo di quanto la questione sia percepita come
centrale. Altri non ne parlano? Semplice: i temi della scuola,
quelli veri, sono fuori dall’agenda politica, di maggioranza e
opposizione. Tali agende sono infatti malate di “politicismo” e di
messaggi e obiettivi lontani dalla scuola reale. La scuola, da
questo punto di vista, è infatti una cartina di tornasole per capire
i bisogni di oggi della società, in Italia e nel mondo, e per capire
quanto la società sia andata più avanti rispetto alla politica. Veniamo allora ad affrontare nel merito la questione della scuola media: è vero, secondo lei, che si tratta dell’anello debole di tutto il percorso scolastico?
È vero che la scuola media è un punto
delicato; stiamo però attenti a non usare espressioni catastrofiste,
come ad esempio “buco nero”. Non dimentichiamo infatti che nella
scuola media ci sono tante persone che lavorano bene e fanno ottime
cose, e che pertanto vanno rispettate. Ciò detto, però, la scuola
media in sé così com’è organizzata non va bene: è notevolmente
arretrata, e per tanto va cambiata tutta, profondamente. Ciò di cui
soffre è il fatto di trovarsi in mezzo a due elementi molto diversi
fra loro. Da una parte abbiamo la forte creatività della scuola
elementare, caratterizzata da due elementi vincenti: i bambini, e
l’essere la scuola di tutti. Proprio il fatto di dover essere per
tutti ha cambiato le elementari, unitamente al fatto che il bambino
per sua natura non può apprendere solo attraverso lezioni “ex
cathedra” di impianto deduttivo (per fortuna!). Dall’altra parte c’è
invece la scuola superiore dove le discipline sono già definite, la
mente del ragazzo esce dall’età pre-adolescenziale e quindi è già
più formata. Perché la scuola media non è stata in grado di garantire il passaggio tra queste due fasi così diverse fra loro?
Perché alle medie si verifica un
passaggio brusco alla fase disciplinare in un momento in cui la
mente del ragazzino non è ancora formata per questo. Tutto ciò ha
portato a un’accentuazione del difetto principale di tutta scuola
italiana, cui prima accennavo: il deduttivismo, che si esplica nel
rapporto fisso cattedra-banco. Un difetto in sé, e a maggior ragione
in una fase in cui i ragazzi hanno ancora molto bisogno di una
partecipazione attiva. Il cambiamento invece cala all’improvviso,
come una doccia: taluni la ritengono necessaria per imparare a
“farsi i muscoli”; altri come una forma che snatura l’apprendimento
e il sostegno graduale alla crescita, che pure deve avere i suoi
ostacoli, ma non certo nella forma in cui essi sono ora proposti.
Questo è l’ibrido che non è funzionato. Quindi è l’impianto generale della scuola media ad essere sbagliato alla radice?
In realtà nella mente dei legislatori
del 1962, quando si fece la scuola media unica, c’era la volontà di
introdurre quella forma di partecipazione creativa che c’è alle
elementari; ma poi nella pratica questo è passato molto
relativamente. La media, come la vediamo noi, è infatti una “micro-superiore”,
in cui il deduttivismo didattico è andato a scapito della centralità
dell’apprendimento. E in particolare tutto questo ha bloccato lo
stimolo di quei due elementi che possono essere i cardini su cui far
ruotare un cambiamento della scuola: la creatività e la curiosità
dei ragazzi. La creatività della spinta artistica, e soprattutto
musicale, presente in ogni essere umano è parte essenziale della
cultura: insieme al logos, al ragionamento, c’è la creatività e
l’emozione. E poi – come diceva Aristotele – la curiosità, anche di
toccare con mano quello che si va ad apprendere; e quindi,
soprattutto nella cultura scientifica, l’esperimento insieme
all’apprendimento. L’assenza di questo è un danno grave anche alle
superiori; ma alle medie è un danno addirittura irreparabile, perché
anticipa troppo il carattere autoritario dell’insegnamento (si badi
bene: non dell’insegnante, dell’insegnamento). Quanto detto finora ha un valore soprattutto teorico: come realizzare in concreto tutto questo cambiamento che lei ipotizza?
Una piccola premessa: ho provato un
moto di felicità nel leggere nel vostro dibattito che qualcuno
ancora si ricorda che c’è stata una legge 30, in cui era prevista la
riforma dei cicli, e che indicava così la strada per il cambiamento
di cui stiamo parlando. La Svezia adesso ha fatto questo: un unico
ordine di dieci anni, diviso in tre cicli in cui gradualmente si
accompagna la crescita e si conserva un carattere di forte
partecipazione nell’apprendimento. Anche la Spagna sta incominciando
a fare qualcosa del genere. Ebbene, noi tutto questo ce l’avevamo
dieci anni fa, con grande anticipo rispetto al resto del mondo.
Quella riforma dei cicli aveva tre pregi: faceva uscire dalla scuola
a 18 anni, mentre oggi continuiamo a uscire a 19, ed è un danno
grave; secondo, abrogava un anno alle elementari, il primo, che si è
reso inutile dal momento che i bambini arrivano dalla scuola
dell’infanzia che già sanno leggere, scrivere, contare e fare tante
altre cose. Ma la cosa più importante di tutte era la terza, e cioè
l’introduzione del curriculum verticale, che è la soluzione di
moltissimi dei problemi cui accennavamo. In cosa consiste?
Il curriculum verticale significa che,
anche al di là della distinzione in gradi, c’è un continuum che
recepisce il passaggio dall’insegnamento pluridisciplinare unitario
all’insegnamento disciplinare distinto, che pure a un certo punto è
necessario. Questo avviene non solo in modo graduale, ma tenendo
anche conto dello sviluppo psicofisico dei diversi bambini, che non
maturano tutti nello stesso momento. Soprattutto, il curriculum
verticale elimina la brutalità del salto dalla quinta elementare
alla prima media: molti bambini che hanno famigliari che li aiutano
o hanno particolari capacità riescono a far questo salto, ma
moltissimi altri perdono punti proprio in quel momento, e non li
recupereranno più. Questa gradualità della verticalità, infine,
razionalizza anche dal punto di vista didattico, perché evita cicli
ripetitivi, ciascuno chiuso nel proprio ambito. Insomma, come dicevamo all’inizio, attraverso il ripensamento della scuola media passa un cambiamento complessivo della scuola, anche dal punto di vista dell’insegnamento.
La scuola italiana ha profondamente
bisogno di questo cambiamento complessivo, perché si arrivi anche al
superamento di quell’automatismo per cui l’aula e la classe
coincidono in quello spazio definito e immutabile. Tale spazio è
adatto per un certo tipo di insegnamento, ad esempio una lezione di
storia (sebbene anche in questo caso ci sarebbe molto da rivedere e
da ridiscutere). Ma per imparare una lingua, per fare una lezione di
fisica, per suonare uno strumento, quello spazio precostituito non
ha più ragion d’essere. Anche imparare a scrivere, cioè a usare il
linguaggio per produrre testi diversi, è come suonare lo strumento:
non serve la classe con 30 persone insieme, bisogna stare al fianco
e moltiplicare le occasioni. Alle elementari è più facile fare
questo, destrutturando la classe e creando gruppi di tavolini con
bambini che lavorano in modo differenziato; ma in una scuola
secondaria è difficile se non lo si organizza fin da subito. Il
tutto sempre partendo da quelle componenti fondamentali
dell’emozione e della curiosità, da introdurre da subito dalla
scuola media. Rispettiamo dunque i risultati di chi lavora
seriamente; ma rendiamoci anche conto che il cambiamento è
necessario, e dev’essere radicale. Rispetto a queste ultime affermazioni, mi permetto di presumere e anticipare le possibili reazioni di molti nostri lettori: sono proprio queste spinte al cambiamento (alla destrutturazione) che hanno rovinato quella scuola che una volta invece ci formava come si deve.
Rispondiamo con un esempio: i
finlandesi, un popolo che vive nelle boscaglie e in mezzo alle nevi,
non hanno avuto né Dante, né Michelangelo, né Leonardo, non hanno
avuto insomma la storia che abbiamo noi. Trent’anni fa hanno
scoperto le cose che stiamo dicendo, le hanno fatte e ci hanno
superati tutti. Non hanno fatto delle prediche “pedagogistiche”, ma
hanno destrutturato la vecchia scuola e l’hanno riorganizzata da
capo. Oggi ci battono in tutte le statistiche: non solo quelle dell’Ocse,
ma anche quelle della vita produttiva. Aggiungo una cosa, a titolo esemplificativo: sono molto più avanti di noi (ed è veramente inaccettabile) anche nell’apprendimento del latino…
È vero: sono quelli che sanno meglio
il latino perché sono anche quelli che lo amano di più. Questo per
il semplice motivo che non lo fanno per tutti, ma come materia
opzionale. E proprio perché opzionale, moltissimo lo scelgono e lo
imparano meglio. Inoltre viene insegnato come una lingua semi-viva,
centrata sulle parole. Noi invece lasciamo ancora che la centralità
sia data alla morfosintassi, per cui si può tradurre con il
dizionario in mano senza sapere una parola, ma conoscendo alla
perfezione la consecutio temporum. Il che non significa che non si
debba imparare la grammatica, ma semplicemente che la si deve
imparare dopo. Sempre per restare nell’esempio, in Italia inizia però a diffondersi un modo diverso di insegnare il latino (per altro proprio importato dai paesi nordici, in particolare dalla Danimarca). Questo per dire che ci sono comunque gli esempi buoni da cui ripartire. Dove in Italia si stanno facendo esperienze di questo tipo le cose funzionano di più, e viene superato quel difetto del deduttivismo che abbiamo più volte indicato come il vero problema. Questo significa per altro che la responsabilità non è dei docenti (i quali invece diffondono esperienze nuove e interessanti), ma di tutto l’impianto. Un grave ostacolo a questo cambiamento è il fatto che oggi i media, gli intellettuali, gli opinion makers hanno un’idea di scuola trapassata, e di conseguenza anche il corpo scolastico la vive spesso in questi termini. Bisogna invece pensare di cambiare l’impianto complessivo. Se la politica si occupa solo di altre cose, e mai di questo, la volontà di cambiamento rimarrà sempre bloccata o comunque ostacolata.
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