Una lingua non si insegna Maurizio Tiriticco ScuolaOggi 5.3.2009 Che i politici facciano i politici e non si sostituiscano agli esperti! Compito dei politici eletti a ruoli di responsabilità è quello di fare le leggi, ma le leggi, soprattutto in una società cosi complessa e… complicata come quella attuale, non possono redigersi solo sulla base di quello che un politico pensa e non anche su ciò che l’esperto è in grado di suggerire! Tutto ciò per dire che l’onorevole Cota ieri sera ad “Otto e mezzo” non ha fatto una bella figura a fronte di Nicoletta Maraschio, neopresidente della Crusca, e di Simonetta Salacone, dirigente scolastica di lunga esperienza. Cota insisteva sulla necessità di attivare percorsi separati, lunghi o brevi che siano, destinati a bambini che non sanno parlare italiano perché, se immessi in percorsi regolari con bambini italiani, rischierebbero di ritardare i processi di apprendimento degli uni e degli altri! Ma Cota non sa – e gli esperti con molto garbo hanno cercato di spiegarglielo – che una lingua non si insegna, ma si apprende! Non è un gioco di parole! Il fatto è che nella nostra tradizione scolastica abbiamo sempre considerato l’italiano come una materia di insegnamento alla pari di tante altre! Io stesso, come diligente professore di lettere nella scuola media, pensavo di dover insegnare l’italiano! Ma non era così! Non è così! Ovviamente ho capito tardi – quindi con gli studi avviati nel nostro Paese in materia di curricolo e di apprendimento, e non solo linguistico – che il mio ruolo non era quello di professore di lettere, ma in primo luogo di… educatore linguistico! Non fu un caso che nei programmi del ’79 e in quelli dell’85 l’enfasi non era tanto sull’insegnamento dell’italiano quanto sull’educazione linguistica, se non, addirittura, sull’educazione linguistica integrata! Si tratta di una differenza di non poco conto! Il professore di lettere è quell’insegnante che si rivolge ad una platea di soggetti già padroni della lingua madre e li aiuta ad entrare nel mondo della letteratura, della poesia, del romanzo, della loro storia, perché i soggetti apprendano che la lingua non è solo uno strumento per comunicare, ma anche un mezzo per esprimere, descrivere, raccontare, argomentare, oltre il relazionare… e così via! Il tutto è finalizzato a far sì che i soggetti imparino a decodificare significati impliciti, a “godere” di una lettura particolare, di uno spettacolo teatrale, insomma di tutte quelle manifestazioni in cui la lingua è anche un prodotto artistico, come in genere si suol dire. L’italiano, quindi, ma tutte le lingue in effetti, va sempre considerato sotto questo duplice aspetto: per dirla in breve, come strumento del comunicare e come strumento del produrre/fruire a livelli più sofisticati. Venendo nel merito del dibattito di “Otto e mezzo”, una classe ponte – la si chiami come si vuole – comunque una classe “dedicata” ad un gruppo di non parlanti la lingua italiana, produce un effetto perverso: quello di esporre i soggetti all’apprendimento di una disciplina, non di un primigenio strumento di comunicazione. Il che non solo non aiuta i soggetti ad entrare nel cuore e nell’utilizzazione di una lingua a loro estranea, ma provoca un apprendimento che richiede necessariamente tempi molto lunghi. Che cosa accade, invece, se gli stessi soggetti sono inseriti in classi di parlanti italiano? Occorre sempre pensare che l’uso primario di una lingua è quello della comunicazione interpersonale. Sotto questo profilo, quindi, la lingua “non va insegnata”, ma “va appresa” nel concreto delle innumerevoli situazioni del vivere insieme! Non è un gioco di parole! L’insegnante in questo caso non deve “insegnare” l’italiano, ma deve sollecitare lo scambio comunicativo, scambio che è sempre molto più ricco rispetto a quello simbolico della lingua in senso stretto! Tutti i linguaggi non verbali, tutto il corredo paralinguistico che è di ciascuno di noi, concorrono a favorire quel “bagno linguistico” – come si esprimeva tanti anni fa Laurence Lentin – all’interno del quale, e solo in forza del quale – i nostri soggetti stranieri apprendono il linguaggio verbale che necessita loro per socializzare con i loro compagni. Il ruolo dell’insegnate italiano, uno o trino che sia – ma questo è un altro discorso – è quello di porsi quindi come “educatore linguistico”, non come insegnante di italiano tout court! Qui si apre un altro discorso, quello che riguarda la professionalità che viene richiesta in casi di questo tipo. Comunque, se l’insegnante ha esperienza didattica ed ha una particolare sensibilità nel ricercare e promuovere quelle strategie adatte a favorire e sollecitare gli opportuni scambi comunicativi tra bambini “diversi” in ingresso, non si verificheranno particolari difficoltà, dopo un primo impatto che forse non sarà neanche facile. Il fatto è che una lingua non si impara in verticale, quando c’è uno che te la insegna, ma in orizzontale, quando ci sono tanti “pari” che usano un’altra lingua. E, più si è piccoli, più l’apprendimento linguistico è veloce! Non è un caso che il bilinguismo per molti nuovi nati è un fatto che potremmo definire “naturale”. Apprendere una seconda lingua da adulti non provocherà mai – o solo in casi rarissimi – quel fenomeno che chiamiamo, appunto, bilinguismo. La peer education è ignota al politico, ed è legittimo che sia così! A ciascuno il suo mestiere, la sua professionalità. Allo stesso modo, all’esperto di comunicazione e di apprendimento linguistico per determinate fasce di età non si richieda di dettare la norma! Ma lo si interpelli e lo si ascolti! Nicoletta Maraschio ha ricordato all’onorevole Cota che tutte le associazioni che nel nostro Paese si occupano di lingua, italiana e/o straniera, si sono dichiarate contrarie alla proposta di aree separate in cui bambini stranieri apprendano la nostra lingua! Perché non solo non sono produttive, ma allungano i tempi del rientro nelle classi normali e rischiano di fare apprendere a questi bambini un italiano “artificiale”, che non è quello dell’uso quotidiano dei loro pari. E nessuno ci può garantire che questi bambini, al rientro, non incontrino difficoltà di diversa natura, più difficili – mi si perdoni la ripetizione – da governare! Ma questo Cota non lo sa! E non vuole saperlo! |