Peccato, è necessario Paola Mastrocola, La Stampa 2.3.2009 La scuola è da tempo disarmata. Non ha strumenti per affermare le sue regole e i principi in cui crede. Soffre, da 40 anni circa, di una sindrome di debolezza congenita che, peraltro, una certa parte di essa, la più ideologizzata, ha fortemente voluto in base all’idea che mai si debba punire, che il voto non sia un’arma, e che sia meglio motivare, prevenire, comprendere, giustificare: mai scendere al vile ricatto dell’insufficienza. La stessa imbelle clemenza, d’altronde, aleggia oggi nelle famiglie: si tollera, si media, si scende a compromessi, si patteggia con i figli. Non si sgrida, non si molla un ceffone, non si manda a letto senza cena. Giusto o sbagliato che fosse, era (ed è) così. Io ricordo che or non è molto (due anni o tre fa) dovetti fare un’ora di supplenza in una quarta liceo. Entrai e c’era un caos indescrivibile, gente ammucchiata sui banchi che chiacchierava urlando, giocava a carte, fischiettava, sbocconcellava panini e deglutiva liquidi a garganella dalle lattine. Nessuno cambiò atteggiamento quando mi vide entrare. Anzi, nessuno mi vide entrare. O meglio, nessuno ritenne che il fatto che fossi entrata fosse di una qualche importanza. Chi mi dava le spalle continuò a darmi le spalle, anche quando io salutai, mi presentai e dissi cos’ero venuta a fare e chiesi per favore di mettersi seduti ai banchi in silenzio. Per un’ora intera io non ottenni nulla. Ricordo che ero disperata e che non sapevo cosa fare e neanche dove e come fuggire. Ricordo che pensai di non avere nessuno strumento e nessun alleato: essendo solo una supplente, non avevo il registro e non potevo usare i voti; potevo dare una nota, ma le note non contavano nulla; potevo chiamare il preside ma non era detto che il preside avrebbe dato ragione a me (dipende dal preside, dal suo carattere e anche dalle sue idee politiche…: ho conosciuto presidi che davano comunque sempre ragione all’allievo, qualsiasi malefatta avesse compiuto, dicendogli con una affettuosa pacca sulle spalle: non farlo più!). In genere non ho problemi: sono un’insegnante piuttosto vecchiotta, so tenere la disciplina e insegno in un buon liceo. Forse ho tratti fisici che non incutono il terrore, questo sì. O forse quella era una classe particolarmente terribile. Sta di fatto che mi sentii perduta, completamente inerme, e molto ridicola. Non feci niente i giorni successivi, non denunciai a nessuno l’accaduto semplicemente perché sapevo che sarebbe stato tutto inutile: non c’erano rimedi, leggi da applicare, autorità da invocare. Oggi invece abbiamo la possibilità di dare 5 in condotta. Oggi la condotta è un voto che conta, è un’insufficienza che pesa e che può portare alla bocciatura. Oggi abbiamo uno strumento. E le cifre dicono che lo abbiamo usato abbastanza. 34.311 ragazzi insufficienti in condotta vuol dire circa un allievo ogni due classi. Non è poco. È anche possibile siano troppi tutti questi 5. Forse, a forza di stare senza bastone, gli insegnanti hanno bastonato a man bassa, chissà. Ma non credo che si siano fatti prendere la mano senza criterio. Credo che si siano sentiti, per la prima volta dopo decenni, un po’ tutelati. Forse un po’ troppo euforicamente? Non so, certo è che l’ineducazione scolastica raggiunge numeri ormai davvero preoccupanti. Io non so se essere felice di poter usare il 5 in condotta. So però che la parola condotta è una buona parola: è importante come una persona «si conduce» nella vita, come si comporta con gli altri, se è gentile e rispettosa oppure no. Certo, avrei preferito che i ragazzi di quella quarta si fossero accorti che era entrato in classe un insegnante e che si fossero disposti naturalmente (cioè in modo assolutamente naturale) all’ascolto e a quel rispetto a cui qualsiasi lavoratore nell’esercizio delle sue funzioni ha diritto. Bisognava dirglielo con un 5? Peccato. Ma se è necessario, che la lunga via di una minima rieducazione alla vita civile abbia dunque inizio. |