«A scuola non è una priorità»: è stato il primo commento del ministero all'archiviazione sostanziale della «i» di informatica, etichetta della modernità di una scuola che il precedente governo Berlusconi aveva in mente: quella delle «3 i», appunto (informatica, inglese, impresa). Scuola, l'occasione mancata di una «i» Marina Boscaino e Marco Guastavigna, il manifesto 4.3.2009 «A scuola non è una priorità»: è stato il primo commento del ministero all'archiviazione sostanziale della «i» di informatica, etichetta della modernità di una scuola che il precedente governo Berlusconi aveva in mente: quella delle «3 i», appunto (informatica, inglese, impresa). La successiva rituale smentita non cambia di fatto la sostanza del problema: si parla di spazi e strumenti disponibili sin dalle elementari; la possibilità di scaricare i libri di testo da internet è il segno della «progressiva introduzione delle tecnologie». Siamo alle solite: adesso cavatevela da soli, bricoleur della pedagogia. Quanto fosse moderno quell'impianto è stato - e è - sotto gli occhi di tutti. Quanto quella formula avesse suggestionato l'elettorato, pure. Sia la formula sia le suggestioni hanno origine in una comune lettura a dir poco equivoca della funzione che la tecnologia potrebbe avere nella scuola. Che ci consente paradossalmente di concordare: a scuola la tecnologia non è una priorità. Ma con una piccola variante: a scuola «questa» tecnologia non è una priorità. Non è l'eliminazione di quella «i», insomma, il problema più grave derivante dal taglio delle compresenze nella primaria e dalla riduzione delle ore di Tecnologia nella media, sebbene nella smentita del ministero si legga che è priva di fondamento l'affermazione di alcuni organi di stampa «che lo studio dell'informatica diventerà sempre meno importante». Siamo abituati alle parole che inverano realtà; è una magica prerogativa del centro destra alla quale non ribattiamo. Entità dei tagli alla mano, ci permettiamo di mantenere qualche dubbio. L'eliminazione - totale o parziale che sia - rappresenta, piuttosto, il senso di un'impostazione fallimentare della dimensione tecnologica nella didattica, che non è mai assurta alla dignità culturale che avrebbe meritato e dalla quale avrebbe derivato ben altre funzioni rispetto a quelle conquistate. Di conseguenza, rappresenta una remissione totale sul piano dell'ottimizzazione dei processi formativi, cognitivi, culturali: la storia di un'occasione mancata. Assenza di cultura, interessi economici, superficialità hanno caratterizzato una politica scolastica, una formazione del personale ondivaga e la contestuale mancata elaborazione di principi e di riferimenti davvero condivisi e di progetti didattici autenticamente significativi: le cause che rendono realistiche le parole del Ministero, nonostante anni di investimenti. La vicenda inizia nell'ottobre '95. Il Ministero vara il progetto «Multilab», per verificare fattibilità e efficacia di attività didattiche con le tecnologie digitali in circa 140 unità scolastiche standard. Internet è agli albori, non si parla ancora di «banda larga» e sono perciò prodotti soprattutto ipertesti: nessuna evidenza a tutt'oggi degli esiti della sperimentazione. '97-2000: si avvia e si compie il Programma di sviluppo delle Tecnologie didattiche, con investimenti a tornate progressive in tutti gli istituti. «Progetti A», per familiarizzare i docenti, con formazione e un computer da collocare in biblioteca o in sala insegnanti; «Progetti B», per inserire le tecnologie direttamente nella didattica: destinati alle scuole con personale già «esperto», per l'organizzazione di percorsi formativi che valorizzino piano cognitivo e piano pedagogico. Sono gli anni del ridimensionamento (riduzione delle spese per presidenze e segreterie) e dell'inizio dell'autonomia didattica, organizzativa, di ricerca e sperimentazione gestita dalle scuole. Risultato: criterio prioritario usato dalle diverse task force provinciali per l'assegnazione dei fondi sono spesso il numero di allievi e di insegnanti e le potenzialità di sopravvivenza dell'unità scolastica, a prescindere dal merito dei progetti. Le scuole, dal canto loro, devono passare dalla mentalità del finanziamento scontato alla necessità di progettare in concorrenza le une con le altre, per ottenere fondi da dedicare alla didattica e alla retribuzione delle prestazioni professionali aggiuntive. L'insieme di tutti questi fattori determina scelte grottesche, incoerenti, confusionarie: le scuole si arroccano, così, ciascuna sulle proprie specificità e si diffonde lo sperimentalismo fine a se stesso. Si moltiplicano gli insegnanti che scuola per scuola si cimentano - per interesse prima e per tornaconto personale poi - con le tecnologie «informatiche»: titolari per delega del ruolo di esperti dell'innovazione tecnica e culturale, forti in realtà solo di una capacità di usare gli strumenti tutt'altro che trasparente. 2002-4: si realizza una gigantesca campagna di formazione delle «competenze informatiche e tecnologiche degli insegnanti» sull'onda delle «3 i», ma in continuità con convinzioni precedenti che riducevano le direttive europee sulla cittadinanza digitale a una generica familiarità con internet e Pc. Lo sviluppo della rete convince l'amministrazione a avvalersi di modelli di formazione a distanza: percorso A, ancora di familiarizzazione; percorso B, per la creazione in ogni unità scolastica di consulenti sull'uso didattico delle tecnologie; percorso C, imperniato su gestione e manutenzione di infrastrutture. Di nuovo si arriva rapidamente al grottesco: gli insegnanti del percorso A hanno come riferimento l'Ecdl, «patente» per il personale esecutivo d'ufficio e svolgono esercitazioni mutuate da iniziative per gli impiegati comunali, senza considerare le specificità professionali; negli altri casi si definiscono molto faticosamente profili accettabili, ma si scopre a posteriori la mancanza delle condizioni finanziare e contrattuali per creare figure di sistema nelle scuole. Il tutto con una piattaforma di formazione costituita dalla sommatoria di materiali raccolti e messi in linea senza un autentico coordinamento editoriale e senza un preciso progetto alle spalle e con un ministero molto attento a sottolineare la quantità di personale interessato e a evitare ogni verifica di efficacia. E così arriviamo a oggi: le scuole (ma soprattutto l'amministrazione, che continua a incentivare una visione «tecnicale» e addestrativa delle tecnologie; e a proteggere, alimentandolo, un ceto parassitario che su questa operazione ha costruito rendite di posizione e sottopotere, senza curarsi delle reali ricadute per dimensione culturale per gli insegnanti e educativa, formativa, cognitiva per i ragazzi) inseguono il totem di una «modernità» meccanica; le tanto celebrate lavagne interattive - citate anche a sostegno della smentita - rischiano di diventare l'ennesimo specchietto digitale per allodole a costi elevati, insostenibili per le le scuole, e pertanto inefficaci per arricchire i percorsi formativi di tutti gli allievi di tutte le classi. Termina qui questa storia di un'occasione mancata. Nella percezione comune il danno è fatto: le «competenze tecnologiche» si concretizzano nel saper usare più o meno bene un computer; la trasversalità delle conoscenze digitali viene ignorata. La scuola si allontana dall'unico spazio di democrazia reale ancora esistente. Da un'opportunità di inclusione e di emancipazione. Sono alcune delle gravi conseguenze di un equivoco chissà quanto casuale. |