Scuola, presidi e genitori contro la proposta Gelmini“
Inapplicabili le quote fisse per gli allievi non italiani”

L’impossibile riforma del 30 per cento

Ma a Londra la Babele funziona: In una elementare allievi da 63 nazioni
«Imparano la lingua e fanno gruppo»

Monica Perosino, La Stampa 21.3.2009

TORINO
Per una volta la proposta di un ministro dell’Istruzione rischia di mettere tutti d’accordo. Da destra a sinistra, presidi, docenti e maestre bocciano senza riserve la proposta della Gelmini di stabilire un tetto del 30 per cento alla presenza degli studenti di origine straniera nelle classi italiane. Qualcuno lo fa con una scrollata di spalle, come se fosse soltanto un’idea bizzarra, altri esprimono il dissenso con gesti e parole di biasimo più espliciti. Ma alla fine il giudizio è pressoché unanime: «Progetto inapplicabile».


Polemiche

Per smorzare preventivamente le polemiche il ministro Gelmini ha spiegato che «l’idea non è quella di limitare l’impatto dei ragazzi non italiani, quanto di favorirne l’integrazione distribuendoli adeguatamente tra le scuole». Al di là delle considerazioni politiche ed etiche, i problemi sollevati dai presidi sono di ordine pratico.

A Torino, come in tutte le grandi città italiane, lo sforzo per l’integrazione scolastica prosegue felicemente da anni. E dalle scuole della collina, dove vivono le «famiglie bene» della città, fino a quelle dei quartieri più multietnici, da San Salvario a Barriera di Milano, l’idea del tetto al 30% strappa sorrisi sarcastici. Il primo paletto è di ordine economico: per garantire le percentuali auspicate dal ministro bisognerebbe trasportare i bambini da una scuola all’altra, da un quartiere all’altro.

E i costi ricadrebbero inevitabilmente sui Comuni: «Facciamo già fatica a garantire il trasporto degli alunni disabili, mi domando che risorse potremmo utilizzare per “deportare” i bambini in altre scuole». Luigi Saragnese, assessore comunale alle Risorse Educative di Torino, parla di «apartheid, di meccanismi che ghettizzano bambini considerati non italiani anche quando sono nati o vivono da anni in Italia».
Nunzia Del Vento, preside della Gabelli, scuola multietnica del quartiere Barriera di Milano, inperiferia, rilancia. Lei, che è preside di un istituto in cui l’80% degli iscritti alla prima elementare è di origine straniera, sorride pensando al modo in cui il ministro metterà in pratica la proposta: «È un banale calcolo matematico - dice -. Se si svuotano scuole come la nostra, vuol dire che bisognerà ridistribuire gli “italiani”. Me li posso immaginare gli scuolabus che, al mattino, caricano bambini di origine straniera verso le scuole del centro e scaricano allievi figli della “Torino che conta”, nelle scuole di periferia, da noi. Mi posso immaginare il risultato...». Nunzia Del Vento scherza, cerca di sdrammatizzare, ma non riesce a farsene una ragione: «Il ministro Gelmini ha pensato a cosa vuol dire sradicare un bambino dal suo quartiere, separarlo dagli amici, dai luoghi e dalle persone che ha imparato a conoscere?».


Quali criteri

In collina, dove sono pochi i figli degli immigrati (raramente arrivano al 4 per cento), le preoccupazioni sono le stesse. Ornella Di Benedetto, direttrice della D’Azeglio, una delle scuole a più bassa percentuale di studenti di origine straniera, è perplessa: «Noi, per esempio, abbiamo classi già al completo - spiega - forse potremmo accogliere una decina di nuovi alunni, ma nella succursale, che è decisamente fuori mano, tra le colline. Che cosa facciamo? Dobbiamo mandare via i nostri studenti? Bisogna garantire senz’altro un equilibrio, ma con criteri seri, che garantiscano la vicinanza della scuola e in base all’offerta formativa». Criteri, appunto. Un’altra spina del progetto è il modo in cui verrebbe selezionato chi deve andarsene e chi può restare. «Definiamo il concetto di straniero - dice Nunzia Del Vento -. Un bambino che parla perfettamente l’italiano, che è nato o vive qui da anni è un straniero?».
Anche Marcello Fiorenza preside vicario della Morelli, un’altra scuola in cui il 60% degli allievi proviene da famiglie di immigrati, ha difficoltà a pensare a un progetto del genere: «Sradichiamo ragazzi inseriti, alfabetizzati e integrati. Che qui hanno fatto le materne, le elementari e le medie. I bambini sono tutti uguali tra loro, le differenze le vedono solo i politici, o chi le scuole non le conosce». Il suo collega Ugo Mander, preside dell’Istituto comprensivo Adelaide Cairoli non esita a definire il «tetto» una proposta «improponibile per i bambini e impossibile economicamente: bisognerebbe dotare tutte le scuole di progetti e docenti specializzati nell’inserimento degli stranieri. L’idea della Gelmini la definirei una proposta bizzarra».

La logica del ministero doveva essere quella del mix sociale, «peccato che il ministro si sia dimenticata come farlo - dice la Del Vento - Dai quartieri dove le scuole hanno un alto tasso di bambini di origine straniera gli italiani se ne sono andati. La scuola rispecchia la distribuzione data dal contesto sociale e abitativo. È a monte, nelle città e nei quartieri, che bisogna realizzare il mix sociale, solo così l’equilibrio arriverà naturalmente anche nelle classi».
 

 

FRANCESCA PACI
CORRISPONDENTE DA LONDRA

«Siamo tanti qui, un bambino per ogni bandiera» spiega Daniel, 9 anni, passaporto britannico ma origine angolana. I genitori hanno messo radici nella City, dove sono nati i loro tre figli. Il lungo corridoio della Laycock Primary School, nel quartiere londinese di Islington, è tappezzato con disegni di frutta, papaya, guava, star fruit, e una mappa del mondo. «Ho anche un amico giapponese» continua Daniel. Sei filippini, 14 pakistani, 8 indiani, 19 somali, 4 afgani, 10 italiani: con 331 studenti e 63 nazionalità la Laycock è il modello scolastico del multiculturalismo. «Non tutti i ragazzini hanno rapporti con la madrepatria ma in casa crescono nel rispetto delle tradizioni» osserva una delle segretarie, la signora Hilil. Nel cortile davanti all’istituto mamma Amal, irachena immigrata nel 2005, infila la giacca alla piccola Rana. «Quando è arrivata in classe non sapeva una parola d’inglese» dice in arabo. Ma a sei anni si fa presto a imparare: ora Rana è la mediatrice culturale dei genitori. Il mondo tra i banchi è storico motivo d’orgoglio per gli inglesi, il vento freddo della crisi economica però ha smorzato gli entusiasmi. Da settimane i tabloid rilanciano l’allarme immigrazione. Secondo il Daily Mail, il numero degli immigrati è quintuplicato rispetto al 1997 e un milione di studenti primari e secondari, 14,3% del totale, parla l’inglese come seconda lingua. «Il fallimento del governo nel gestire i permessi d’ingresso e di soggiorno ricade sui docenti costretti a un lavoro faticoso» denuncia il ministro ombra per l’immigrazione Damian Greer. Tutto vero, conferma Mick Brookes, segretario dell’associazione presidi. Ci sono scuole di Londra come La Nelson Primary dove solo uno su 4 è nato nel Regno Unito e i professori sono all’angolo. Eppure, aggiunge Brooker, ci sono tante storie di successo: «Nel mio istituto avevo una bambina estone che faticava molto in inglese, dopo due anni ha vinto il concorso di spelling». Alla fine, nonostante l’allarmismo dei conservatori, non è il passaporto a dividere i bambini inglesi. «Le scuole anglosassoni si distinguono per il gruppo sociale d’appartenenza degli iscritti più che per la loro etnia» nota Franca Boschi che da tre anni lavora come operatrice scolastica a Londra. «I miei figli studiano con compagni iraniani, francesi, pakistani, argentini, libanesi, cinesi» racconta Daniela De Rosa, mamma di due ragazzi che frequentano la Harrodian School di Barnes.