Gli studi classici:
un equivoco che non viene da lontano!

di Maurizio Tiriticco, ScuolaOggi 21.3.2009

Si potrebbe anche parlare di istruzione classica, od ancora di liceo classico, che costituisce l’ultimo prodotto di tale equivoco trasferito nell’ambito scolastico. Quando venne adottata l’espressione di “età classica” e di “autori classici” – e siamo alle soglie del nostro Umanesimo – si alludeva al fatto che nel mondo greco e latino si vollero ritrovare le fonti indiscutibili del pensare e del ricercare, quasi costituissero un asse, un punto preciso di riferimento per gli studi e le ricerche ulteriori. Fu così che i prodotti culturali greci e romani vennero assunti come modelli assoluti, e forse irripetibili, dai quali ripartire dopo la lunga età che i nostri umanisti considerarono dei secoli bui. Nacque la categoria dei classici, dal latino calo-as, chiamare, selezionare, distinguere, scegliere.

Ovviamente gli autori dell’età classica, o così chiamata, non avrebbero mai pensato di proporsi come modelli né di essere dimenticati per circa mille anni per tornare poi a Rinascere… con tanto di R maiuscola! A questo punto il discorso si farebbe lungo e impegnativo sulla giustezza o meno di certe periodizzazioni storiche né intendo affrontarlo! Su un punto, invece, bisogna essere molto chiari, che il pensatore, lo scrittore, l’autore del mondo cosiddetto classico non è affatto sinonimo di letterato o di poeta. Ed anche su un secondo punto: che la distinzione tra letterato, poeta, filosofo, da un lato, e matematico e scienziato dall’altra è solo l’esito di un approccio non corretto al sapere, e che potremmo definire tardoumanistico… o pseudoumanistico. Ciò non significa, comunque, che tanti autori non si siano arrovellati per tentare di attribuire alle discipline, con cui da sempre siamo soliti veicolare le attività di ricerca, un ordine, a volte gerarchico, a volte no, Potremmo anche aggiungere che le discipline stesse hanno spesso una consistenza assai incerta, hanno confini assai labili, nascono e muoiono con estrema facilità. Perché, in effetti, non hanno una consistenza oggettiva, ma sono soltanto modalità del nostro conoscere. Ed è anche vero che è molto difficile collocare un pensatore, un ricercatore, un autore in genere, in un solo ramo della produzione culturale.

Il filosofo come amante del sapere nel mondo greco aveva un’accezione ampia. Al limite, era filosofo sia Protagora, il sofista, che lo scultore Fidia! Se a Talete si attribuisce il merito di aver dato avvio alla ricerca che noi chiamiamo filosofica in senso stretto, non va però dimenticato che la sua attività era, per esprimerci con termini moderni, quella di un ingegnere idraulico. Com’è noto, nell’Alto Medioevo si vollero distinguere le arti del trivio da quelle del quadrivio: grammatica, dialettica e retorica, da un lato, aritmetica, geometria, musica e astronomia, dall’altro. Interessante il fatto che la musica, che oggi potremmo annoverare tra le arti in senso lato, allora era associata al ritmo, al rhythmòs dei greci, alla scienza dei numeri. Per non dire della contiguità tra astronomia e astrologia, cosa che farebbe accapponare la pelle alla nostra Margherita Hack.

E sarebbe anche difficile pensare che abbiamo a che fare con due Galilei, lo scienziato che rischia il rogo e l’autore di uno dei dialoghi più belli della nostra “storia letteraria”. Il fatto è che è estremamente difficile collocare il ricercatore, il “produttore”, quand’è veramente tale, in un’area del “sapere” piuttosto che in un’altra. Leonardo è uno scienziato” o un “letterato”? Lo stesso interrogativo può valere anche per un Michelangelo o per un Vico o per un Darwin. Ciononostante, continuiamo ad intitolare un liceo classico a Dante Alighieri e uno scientifico a Max Plank!

E allora, da dove viene questa annosa distinzione tra studi umanistico-letterari e studi scientifici? Da dove viene per la grande maggioranza di noi questa pretesa propensione – se non addirittura “naturale tendenza” – o per gli studi letterari o per quelli scientifici? Perché tanti di noi hanno scelto all’università materie letterarie perché “non si sentivano portati” per la matematica o viceversa? Ed ancora, perché il liceo classico lo si ritiene altamente formativo – e forse lo è anche in effetti, almeno a tutt’oggi – rispetto ad un liceo scientifico, e poi, a scalare, a un istituto tecnico, ad uno professionale, ad un percorso professionale regionale? Non c’è ricerca scientifica seria che non dimostri che non c’è alcuna differenza, a livello di costruzione della intelligenza, tra il “contare” e il “raccontare”, per riprendere il bel titolo di un prezioso volumetto di De Mauro e Bernardini, il letterato e lo scienziato, edito da Laterza. Se sai contare, sai anche raccontare, e viceversa. Non si ha scienza solo se si ricerca su oggetti od eventi materiali. Si ha scienza anche quando la ricerca si esercita su eventi di altro tipo, sulla produzione letteraria, ad esempio. Fu scienziato il nostro Muratori quando produsse una prima circostanziata sistematizzazione della nostra storia, come il nostro Spallanzani, quando dimostrò l’infondatezza della generazione spontanea.

Nonostante tutto, c’è una tradizione culturale, che è molto più forte della realtà del nostro personale produrre pensiero: una tradizione, in forza della quale certi studi formano il pensare “in grande” ed altri studi, invece, sono per così dire di risulta. Ma si tratta veramente di una tradizione culturale in senso stretto, o vi è sottesa anche e soprattutto una tradizione socio-culturale, con tanto di trattino o, peggio, psuedoculturale? Se è vero che un certo assetto socioeconomico condiziona o determina anche assetti culturali, è anche vero che l’egemonia di una classe sociale determina anche una egemonia culturale, e tende anche a giustificarla e a legittimarla. Ed allora, secondo tale vision, certi studi nobilitano e sono importanti, altri non nobilitano e importanti non sono. E addirittura una certa ricerca, convinta di organizzare una gerarchia di valori, è giunta al punto di asservire l’arte e la religione al primato della filosofia! Purché sia possibile che un campo di ricerca sia al di sopra di altri! Fortunatamente oggi abbiamo maturato consapevolezze ben diverse. Dalla teoria dei sistemi, da quella degli insiemi, dalla teoria della comunicazione e della organizzazione abbiamo mutuato il fatto che ogni forma di gerarchizzazione verticale del pensare e del produrre è sempre l’esito di un artificio che poco ha di scientifico e molto, invece, di classista: nel senso, che “chi pensa” sarebbe l’aristocratico del pensiero, e “chi opera” colui che non ha avuto in sorte o per nascita il privilegio di un “saper pensare” a tutto tondo.

Ed è su queste basi teoriche, o falsamente teoriche, che si è costruito anche, da oltre cent’anni a questa parte, l’intero sistema educativo del nostro Paese: percorsi privilegiati, filosofico-letterari, classici, per i soggetti “dotati”, percorsi non privilegiati, tecnici e professionali per soggetti “meno dotati”. E non si è mai voluto considerare che gli studi cosiddetti classici sono in effetti scientifici, perché la ricerca letteraria è anch’essa ricerca scientifica. Ogni ricerca, purché rigorosa, è sempre scientifica, qualunque sia l’oggetto considerato. L’analisi dell’Infinito leopardiano richiede altrettanto rigore dell’analisi di un bilancio o di una proteina. Dov’è la differenza tra studi classici e studi scientifici, se ambedue richiedono analogo impegno, adozione di un metodo, perseguimento di un obiettivo? La formatività di una ricerca, in termini di istruzione, è, comunque, garantita se a monte c’è una programmazione certa e a valle un obiettivo altrettanto certo.

Oggi poi, in una società che tutti chiamiamo della conoscenza, in cui il sapere è garanzia per tutti e per ciascuno di “sopravvivenza” professionale e civile, l’impegno di un rinnovamento reale della nostra istruzione secondaria di secondo grado e postobbligatoria dovrebbe essere quello di assicurare una reale dignità scientifica a qualunque percorso di studi. E’ ovvio e scientificamente fondato che, al termine di un percorso obbligatorio largamente comune che garantisca a ciascuno l’acquisizione delle competenze culturali di base e di cittadinanza, si aprano a ventaglio più opzioni il più possibile personalizzate. Ma la pari dignità delle opzioni non può non essere garantita, se è vero che nella società della conoscenza non esiste una gerarchia dei saperi.

Qualunque scelta si effettui per rinnovare la nostra istruzione secondaria, qualunque sia la denominazione che daremo ai futuri percorsi, dovrebbe essere chiaro che non dovrà configurarsi alcun primato! Il carattere laboratoriale e modulare dell’insegnare e dell’apprendere dovrà sostenere con forza sia lo studente che si misura con le scienze letterarie o con quelle fisico-naturali (le aggettivazioni non mancherebbero al riguardo). Una forte impronta di scientificità deve caratterizzare sia l’istruzione che noi chiamiamo tecnica che quella che chiamiamo professionale, sia che l’input sia dato dall’hig tech o dall’hig touch.

Ma soluzioni di questo tipo saranno rese possibili non solo se gli ordinamenti a cui si darà vita terranno conto di esigenze culturali e scientifiche di questo tipo, ma anche e soprattutto se, a monte, i percorsi dell’istruzione obbligatoria riusciranno a battere i condizionamenti che ci vengono proposti ed imposti dal sociale. Se persisteremo nel giocherellare con un’eredità che viene da lontano, e che non abbiamo mai avuto il coraggio di mettere in discussione, in forza della quale sono ancora operanti tre gradi tra loro assolutamente discontinui, la primaria, la secondaria di primo grado che, con uno strano gioco linguistico, chiamiamo anche media, ed un biennio in cui la propedeuticità confligge con l’equivalenza di assi culturali che, invece, dovrebbero essere portanti, non andremo molto lontano!

Insomma, ripensare alla grande a tutto il nostro sistema di istruzione richiede tempi certi – non necessariamente lunghi – ma soprattutto una vision culturale e politica di ampio respiro. Fino ad ora tutto ciò che si sta verificando sembra andare nella direzione contraria! Non alludo tanto ai tagli perché, se è necessario, li si facciano! Alludo alla improvvisazione del giorno dopo giorno, al rimpallo continuo di provvedimenti parziali ed asfittici che passano di tavolo in tavolo, dalle commissioni parlamentari all’amministrazione, ai confronti con gli organi di controllo, al vaglio con associazioni, sindacati, Cnp et al., per non dire delle competenze della Conferenza unificata. La democrazia impone che si discuta e che si assumano decisioni collegiali e condivise! Ma richiede anche tempi certi e, soprattutto, un’alta professionalità dei decisori! Il profluvio delle norme che si sono abbattute sulle scuole in questi ultimi mesi crea incertezza, disaffezione nonché l’onda lunga dei pensionamenti. La scuola, se deve non solo istruire, ma anche educare e formare – è un impegno che abbiamo assunto con il dpr 275 del ’99 – ha bisogno di maturare al suo interno processi di rinnovamento, di condividerli in primo luogo.

Per concludere, in una fase storica in cui l’insegnare/apprendere è un impegno per tutti e di tutti e per tutta la vita, quel salto di qualità sul quale ho insistito nella prima parte di questo scritto sarà molto difficile a compiersi se chi ci governa persegue l’immediato e il provvisorio invece che il mediato e il certo. Per non dire poi dell’intelligenza e della competenza che una simile operazione prevede e pretende! Comunque, la battaglia è sempre in atto!