Note in calce di Marina Boscaino, Pavone Risorse 25.5.2009 Fosdinovo è un bellissimo paesino sulle suggestive colline della Lunigiana. Lo scorso fine settimana si è tenuto lì – nel castello Malaspina – il secondo School Book Camp di editoria digitale per la scuola. Un appuntamento che è capitato nel pieno del periodo tradizionalmente dedicato ai collegi docenti sull’adozione dei libri di testo per il nuovo anno; e subito dopo la riammissione da parte del Consiglio di Stato della circolare che norma l’adozione stessa, precedentemente sospesa dal Tar su ricorso della FlcCgil per presunta violazione del principio della libertà di insegnamento, dal momento che in quel testo si obbligano i docenti a mantenere inalterata l’adozione per i prossimi 6 anni. Ho partecipato anch’io ai lavori, organizzati significativamente nella dimensione di un non-convegno, il Camp, con gruppi di lavoro su tematiche differenziate che procedono parallelamente, si scompongono, si ricompongono, si confrontano durante le due giornate di lavoro sulle rispettive tematiche, sulle provvisorie conclusioni. Quest’anno – e c’era da aspettarselo – a farla da padrone è stato l’e-book: argomento sul quale già mi è capitato di intervenire, anche rispetto all’editoria digitale e specificamente all’eventuale inserimento dell’e-book a scuola. Case editrici, rappresentanti di settori che convergono sull’editoria, in particolare scolastica, mondo della scuola, insegnanti e dirigenti scolastici gli interlocutori. L’organizzazione, impeccabile dal punto di vista dell’ospitalità e significativamente allusiva alla specificità dell’oggetto trattato – la dinamicità – nella formula fluida e dialettica del Camp. La tentazione di attribuire un potere taumaturgico alla modernità non è ancora tramontata. In una fideistica (e forse strumentale) convinzione che ciò che è moderno, tecnologico, coincida automaticamente con ciò che è positivo, opportuno, funzionale, utile, significativo, qualificante, alcune case editrici perseguono la politica dell’innovazione, tralasciando spesso una riflessione seria, approfondita, sull’impatto, sulle valenze culturali che l’innovazione proposta può configurare. Non basta tener presente che la gran parte dei nostri alunni usano Facebook, Skype o Messanger per dimostrare che l’e-book è certamente destinato ad avere successo e a migliorare gli apprendimenti. Non è questa semplice valutazione, peraltro, che può consentire di licenziare prodotti di modesta qualità, come in alcuni casi capita. Questa, però, è solo la conclusione di un ragionamento che parta dall’oggi inevitabile comparazione (anche grazie ai frettolosissimi e farraginosi suggerimenti del DM 41 in merito) tra dispositivo cartaceo e dispositivo digitale. Sono proprio l’immediatezza e la necessità di questa constatazione a far risaltare un dato allarmante, che rappresenta il nucleo problematico dell’intera riflessione: il necessario dibattito su quell’alternativa troppo spesso omette di partire da alcuni presupposti, in realtà insopprimibili. Tralasciando, peraltro, una serie di osservazioni di carattere materiale, quale l’inaccessibilità economica per molti studenti o l’inadeguatezza delle strutture scolastiche ad ospitare l’innovazione. a) Occorre, in via preliminare, inaugurare una seria e non demagogica analisi delle competenze digitali degli insegnanti italiani. Nel nostro Paese, negli ultimi 15 anni, sono state investite cifre straordinarie, impiegate però in una logica quasi esclusivamente addestrativa alle tecnologie, che ha sempre più concretizzato un’idea dell’uso delle tecnologie stesse come un “saper fare” riservato a pochi detentori del know how. Si è trattato di una politica che ha impedito alle tecnologie di assumere una reale significatività culturale nella scuola, consentendo a una gran parte di docenti di trincerarsi dietro una costituzionale inaccessibilità del mezzo. Negli istituti italiani, oggi, la dimensione tecnologica (e non solo la dotazione di sovrastrutture) non consentirebbe – anche in presenza di e-book dotati di autorevolezza culturale all’altezza dei testi cartacei – un uso diffuso e un’ottimizzazione della risorsa. Le competenze digitali intese in senso culturale rappresenterebbero la capacità di chi le usa di evadere dalla dimensione meramente meccanica; e di intuire e perseguire la tensione alla ricerca consapevole che le tecnologie – dai programmi in sé alla navigazione sul web – concretizzano. Se la scuola deve licenziare cittadini consapevoli e critici, la propensione e la capacità di ricerca rappresentano elementi fondamentali nella costituzione di questi requisiti, le tecnologie intese nel senso indicato, da mezzo, strumento possono diventano paradigmi di procedure, inveramento di strategie, campo di indagine per affinare quella propensione e quella capacità. Ma guardiamo alla realtà. b) L’organizzazione oraria delle discipline, così com’è, soprattutto nelle scuole superiori, configura l’esatta antitesi di formule didattiche alternative. Un esempio concreto: in 4 ore settimanali di Italiano al triennio del liceo il docente deve mediare i contenuti della letteratura dai Placiti Cassinesi (460 d.C) al Novecento (concetto esaltato ma fluttuante, non definito e poco praticato, nonostante il decennio che ormai ce ne separa e il ruolo fondamentale che dal suo studio approfondito si potrebbe derivare rispetto alla comprensione dell’oggi). Io, dal canto mio, non consento che i miei studenti affrontino l’esame di Stato senza aver conosciuto Pasolini e Calvino. Inoltre bisogna che in quelle 4 ore settimanali gli studenti stessi acquisiscano competenze di scrittura che li rendano in grado di affrontare tipologie testuali quali quelle proposte all’Esame: quel vero e proprio ectoplasma trascendentale e misterioso che è il saggio breve; l’analisi del testo letterario; il tema storico. Che significa esercizio, correzione, discussioni guidate. Non è un’impresa semplice. Certamente è un’impresa che lascia pochissimo spazio a digressioni, pluri o multidisciplinarità, contaminazioni. Guardiamo alla realtà. c) C’è in più un’altra riflessione, non meno importante: la proposta dei dispositivi digitali viene accompagnata da chi la caldeggia dalla considerazione – peraltro non scientificamente comprovata, stando le cose come stanno – che l’innovazione porterebbe automaticamente ad un miglioramento degli stili e dei livelli di apprendimento. Stili e livelli di apprendimento – che oggettivamente si dimostrano nella scuola italiana sempre più insufficienti – non sono la risultante dell’inadeguatezza di uno dei mezzi fondamentali a disposizione della didattica: il libro. Ma sono il senso di qualcosa che va ben oltre e che investe in senso ampio e globale la scuola oggi. La crisi affonda le sue radici altrove: guardiamo alla realtà. L’impressione, insomma, è che non sia sufficiente cambiare strumento, pur nell’oggettiva comprensione delle potenzialità dinamiche, interattive, fluide, permeabili che il dispositivo digitale comporta. Il progetto culturale della scuola di impianto gentiliano sta mostrando la sua residualità, il suo anacronismo, lo scollamento tragico da un mondo che è cambiato con un ritmo esponenziale rispetto all’inerzia della scuola. Affinché l’introduzione dell’e-book – un e-book che miri alla qualità, e sia frutto di fatica e di ricerca di spessore culturale, come pure mi è capitato di intravvedere – possa rappresentare realmente un evento costruttivo in un’ottica di miglioramento della scuola, occorre prendere atto dell’accumulo di ritardo della scuola rispetto al mondo. Occorre negoziare, definire, nominare un’idea di cultura al servizio dell’interpretazione critica e consapevole del reale. Bisogna comprendere non solo il cosa e il come, ma il perché la scuola debba insegnare. Per far ciò c’è necessità di tempo e di menti sufficientemente audaci da andare a scardinare convinzioni granitiche, sedimentate, intoccabili. L’alternativa è che il monolita prosegua il suo percorso immobile, fino al punto in cui sarà definitivamente evidente la sua inadeguatezza. Che, governo dopo governo, si continuino a proporre soluzioni imbarazzanti – sempre più retrive e conservatrici, seppur fantasiosamente etichettate come “riforme” – per fingere di cambiare al fine di risparmiare. Ma potrebbe essere troppo tardi. Bisogna partire dall’esistente per creare il futuro. La proiezione in avanti è suggestiva, ma senza transitare attraverso una preliminare analisi della realtà si rischia l’impatto traumatico e la frustrazione. Che farebbero perdere ad un’ipotesi feconda e ricca di promesse, se spiegata sul piano della praticabilità concreta e soprattutto dell’autorevolezza culturale, il proprio potenziale positivo. Il rischio è invece che la rincorsa all’innovazione come concetto automaticamente positivo crei un’ulteriore etichetta formale, non spendibile in senso di crescita etica e culturale di alunni e docenti, confinando ulteriormente la tecnologia in un angolo di fatto culturalmente impraticato nelle nostre scuole. Rafforzando la deriva della tecnicalità. E – soprattutto – dando agio a soluzioni approssimative e non dotate di requisiti di autorevolezza e credibilità di andare a fertilizzare un mercato che abbasserebbe, invece, ulteriormente il livello - già abbassato e mortificato - di didattica, apprendimenti, conoscenze e competenze. Suggellando definitivamente il fallimento di un’opportunità che, se ben spesa e rafforzata da studio, riflessione, elaborazione, potrebbe significativamente accompagnare un percorso di sostanziale cambiamento della scuola italiana. Ma, prima di tutto, partiamo dalla scuola. |