Nella scuola si riscopre la differenza di genere
Maschi e femmine, classi separate
Nel mondo 40 milioni di alunni in 210 mila
istituti Annachiara Sacchi Il Corriere della Sera 10.5.2009 Il compagno di banco può essere un peso. Se è maschio. Perché si distrae, crea confusione, catalizza l’attenzione del professore. «È dimostrato che nelle classi di sole ragazze il livello di apprendimento è migliore», spiega Giuseppe Zanniello, ordinario di Didattica e pedagogia speciale a Palermo.
È quel che confermano anche altre ricerche e altre esperienze: dai
college della borghesia inglese, ai quartieri ghetto delle metropoli
americane. Così, dopo trent’anni in cui nessuno ha messo in
discussione il principio delle classi miste, molte scuole stanno
rilanciando la separazione: femmine in un’aula, maschi in un’altra.
E per socializzare? Ci sono gli amici, le feste e lo sport. Ma fuori
da scuola, dove invece «bisogna studiare» e la carica
ormonal-caciarona dei maschietti pare non faccia affatto bene. «Né
alle femminucce, né agli stessi ragazzi». In Italia, i pasdaran
delle «classi omogenee» sono ancora pochi. Ma determinati:
respingono ogni accusa di sessismo e rivendicano il loro modello.
Con orgoglio. E con qualche argomentazione pedagogica che forse vale
la pena ascoltare. Sono più di 210 mila le scuole che, in tutto il mondo, educano oltre 40 milioni di bambini secondo i principi delle differenze di genere. Si chiamano single sex school e, anno dopo anno, stanno minando il dogma della «coeducazione», quel traguardo che, dalla fine degli anni Sessanta, sembrava aver messo la parola fine a ogni discussione sulla pedagogia applicata ai sessi.
La tesi che sta alla base del progetto: maschi e femmine sono
talmente diversi fisicamente e psicologicamente che sarebbe un
errore pretendere che possano fare le stesse cose (per esempio
imparare a scrivere) alla stessa età. Meglio tenerli separati.
«L’obiettivo — hanno spiegato pedagogisti, psicologi e presidi
durante l’ultimo Congresso dell'European Association Single-Sex
Education (Easse), lo scorso 24 aprile a Roma — sono le pari
opportunità». Per tutti. Perché «se da una parte la presenza
maschile limita la leadership femminile, dall’altra i ragazzi sono
svantaggiati dal più rapido sviluppo delle compagne».
Della serie: fai confusione, urla, comportati male e vedrai che
conquisti il professore. Sembra un paradosso, ma gli studi
presentati lo scorso mese a Roma evidenziano come gli insegnanti
diano più retta — non fosse altro che per tenerli a bada — agli
alunni maschi e tendano a favorirli nei voti. Risultato: le ragazze
sono trascurate e meno apprezzate. E in più «si perdono» nel cercare
di farsi accettare dai compagni, entrando anche in conflitto con le
coetanee. «Nelle classi omogenee, invece — analizza Klement Polacek,
docente emerito della Pontificia università Salesiana di Roma — non
solo raggiungono performance migliori, ma emergono nelle materie
tecnico scientifiche, a loro solitamente precluse per colpa di uno
stereotipo di genere». Anche i ragazzi ne «escono bene »: senza la
concorrenza femminile, subiscono meno il gender gap, la differenza
di apprendimento.
Classi omogenee, un possibile modello educativo. I primi ad
applicarlo sono stati gli inglesi: nel Regno Unito le single sex
school sono 1.092, di cui 416 statali. I risultati, ottimi: tra i
dieci migliori istituti del Paese, solo uno è misto. Berlino conta
180 scuole pubbliche omogenee, la Francia 238, mentre negli ultimi
sette anni gli Stati Uniti hanno convertito 540 istituti pubblici da
misti a differenziati. E in Italia? Un gruppo di genitori milanesi,
riunito nell’associazione Faes (Famiglia e scuola), ha fatto nascere
dal 1974 a oggi 14 istituti paritari (3 mila alunni dal nido alle
superiori) a Napoli, Palermo, Bologna, Roma, Verona, Milano. Le
caratteristiche: metodo tutoriale, partecipazione dei genitori e,
naturalmente, didattica differenziata per sessi. «Ma il nostro punto
cardine — precisa Carmen Pontieri, presidente della Conferenza dei
centri Faes — è l’educazione personalizzata di cui l’omogeneità è
una conseguenza, non la causa». Le iscrizioni ai centri Faes sono in
crescita. «Aumenta l’interesse nei nostri confronti», riconosce la
dirigente. La stessa Valentina Aprea, presidente della commissione
Cultura alla Camera, al congresso di Roma ha spiegato: «Ogni forma
di omologazione riduce la pienezza della personadonna e della
persona-uomo. La scuola italiana ha il dovere di fornire una
pluralità di modalità educative». Un’apertura che lascerebbe
supporre l’ingresso dell’educazione omogenea nel sistema pubblico.
«Ma solo nell’ambito dell’autonomia e con il consenso dei genitori —
precisa la parlamentare — e senza leggi ad hoc».
Se in Italia le classi differenziate sono un’esclusiva delle scuole
paritarie (e dunque a pagamento), negli Stati Uniti diventano
sinonimo di riscatto sociale per i ceti poveri. È il caso della
Young Women’s leadership school di New York, istituto del Bronx nato
nel 1996 e frequentato da sole alunne che nel 70 per cento dei casi
vivono al di sotto della soglia di povertà. «I fondatori — racconta
Josep Barnils, ideatore dell’Easse — si resero conto che le
studentesse vivevano in una realtà dominata dai maschi. Un anno dopo
tutte le tensioni erano sparite». Nel 2002 si è iscritto
all’università il 96 per cento di quelle giovani del Bronx. A New
York la media è del 50 per cento. Le critiche alla scuola omogenea non mancano: «Si torna indietro di 40 anni»; «Dividere maschi e femmine è frutto di fobia sessista»: «È una forma di discriminazione». Tra gli scettici c’è lo psicologo Fulvio Scaparro: «Il contatto tra generi è un arricchimento: rimanendo separati si perde la relazione con l’altro sesso in un’età in cui c’è bisogno di conoscersi e stare vicini. Insomma, in nome di un eventuale profitto 'superlativo', il prezzo da pagare mi sembra troppo alto». Anche la scrittrice (e professoressa) Paola Mastrocola è perplessa: «Sarebbe bello potersi permettere il lusso di riflettere su certe questioni. Ma i problemi della scuola, oggi, sono altri». Scaparro una soluzione — provocatoria — ce l’avrebbe: «Se il contatto tra generi è così pericoloso in classe, allora può esserlo anche sul lavoro. Dividiamo gli uffici: perché a scuola sì e negli altri posti no?». |