Esami di Stato come specchio di Antonio Valentino, da ScuolaOggi 19.7.2009 Quest’anno agli Esami di stato non ci sono state per fortuna le cialtronerie dello scorso anno. Le tracce delle prove scritte sono sembrate generalmente più “facili” per la maggior parte degli indirizzi: così nessuno ha potuto dire che il Ministro è solo bravo a tagliare. Certamente molto più bocciati. Ma di questo aspetto, di certo molto preoccupante, non parleremo in questa nota. Qui si vuole parlare soprattutto della natura di questo esame e della necessità di andare in tempi brevi al suo superamento. Infatti, ogni anno che passa si moltiplicano gli interrogativi sul suo senso, sulla sua utilità, oltre che sui suoi costi. Le novità, pur importanti, introdotte dal Ministro Fioroni, non hanno portato cambiamenti significativi; e questo perché non ne hanno cambiato l’impianto, ancora sostanzialmente legato alla nostra cultura scolastica, oltre che agli ordinamenti vigenti. Che, come sappiamo, i nuovi Regolamenti per l’Istruzione superiore, e i processi in essi previsti, stanno provvedendo a “riordinare”.
Il legislatore 12 anni fa aveva previsto (L. 525/’97), tra i vari
passaggi volti a svecchiare la vecchia “maturità”, una innovazione
di grande portata, che però è rimasta lettera morta. Mi riferisco
alla certificazione delle competenze: una scelta, sollecitata, tra
l’altro, dall’UE, che si configurava come impresa certamente grossa,
come un obiettivo ambizioso. Ma, se opportunamente perseguito,
avrebbe potuto probabilmente innovare in profondità la cultura
scolastica, orientando lo sviluppo professionale, la formazione, la
ricerca. Era una sfida di quelle forti, che si intrecciava, tra
l’altro, con le sfide riformatrici del momento (la fase propulsiva
del primo governo Prodi). Ma è rimasta lì. Pur ammettendo che, in un esame di stato conclusivo, possa avere senso un accertamento al riguardo (in tanti ne dubitano), la cultura che si percepisce dietro la “consegna” per le varie tracce non si discosta sostanzialmente da quella che c’era dietro il vecchio tema della vecchia maturità: esercizio accademico, arrampicata sui vetri e poco altro. E’ normale quindi che questa cultura si rifletta nel tipo di “svolgimento” delle prove proposte; frutto, a sua volta, di pratiche che non hanno subito modifiche sostanziali (basta leggere gli elaborati, quale che sia l’indirizzo frequentato dai candidati o la tipologia scelta, per averne conferma).
Per non parlare della terza prova scritta. Una sorta di pout pourri
preparato dalla commissione, pieno di ipocrisie in buona fede che
costringe il candidato, in due o tre ore, a misurarsi con quesiti su
cinque materie (programmi) diverse tra di loro, dalle cui risposte
non ci si può attendere niente di più o diverso da quello che lo
studente ha dimostrato di sapere o non sapere durante l'anno. Esso appare visibilmente come la riproduzione in miniatura, forse ancor più della terza prova, di un modello di scuola frammentato, accademico, che riduce tutto a parole, dietro cui non percepisci la riflessione, l’interrogativo, l’argomentazione, il collegamento. Trovi spesso studenti diligenti; senti che hanno studiato. Ma avverti anche che, nella maggior parte dei casi, hanno studiato senza apprendere, hanno immagazzinato concetti, nozioni senza riflessione. Si consideri poi l'ipocrisia della norma che prescrive gli approfondimenti e le ricerche (le "tesine") all'insegna della multidisciplinarità. Assunte, sulla scia di esperienze importanti delle scuole sperimentali, come momento di valorizzazione dell'autonomia dello studente, sono, nella maggior parte dei casi, lo spazio della banalità, dell'incongruenza e della superficialità, oltre che del “copia e incolla” da qualche sito Internet. Per cui la “tesina” sulla condizione della donna diventa assemblaggio di “pezzi” ritagliati in modo da “coprire” le varie materie del colloquio, e “cuciti” senza un filo logico vero e proprio e un ragionamento unitario. Come se ne esce? E’ forse questo l'interrogativo più interessante - e difficile - in questa fase. Mi limito qui a riproporre, per quanto senza un preciso ordine logico, alcune considerazioni molto schematiche, con l’intento di allargare l’area dell’attenzione al riguardo: - L’oggetto degli accertamenti e la questione delle competenze. Se non viene affrontato questo problema , anche la certificazione, che dall’atto istitutivo della riforma voluta da Berlinguer (L. 425/97, già citata) è prevista come un momento chiave, perde il suo “ubi consistam”. Questa considerazione ci riporta alle questioni aperte, ma in ogni caso centrali, dell’operazione “Riordino” in atto. Mi riferisco ovviamente alle “Indicazioni nazionali” (gli obiettivi generali e specifici di apprendimento), previste dai Regolamenti per Tecnici, Professionale e Licei, e al curricolo per competenze che dovrebbe “informarli”. - Le tre prove scritte. Ce le ha ordinate il dottore? Non potrebbe bastare una buona prova scritta sulle competenze legate all'indirizzo, a impostazione pluridisciplinare (una tematica, tanto per chiarire, "da area di progetto")? Prevedere, poi, a completamento, un colloquio sulla prova scritta e su un progetto, presentato dal candidato, sempre legato alle competenze di indirizzo - e da gestire con prioritaria attenzione alla dimensione teorico-pratica e dimostrativa - è una ipotesi di lavoro davvero peregrina? - Le condizioni di fattibilità. Non si può rinnovare senza preoccuparsi di garantirle. Nessun cambiamento è possibile senza un adeguato sviluppo professionale di docenti e dirigenti. L'attuale formazione docente non basta però a realizzare una qualsivoglia riforma sensata. Né basta la buona volontà. Chi lo ricorda alla Gelmini? - Le questioni centrali. Sono, ovviamente, le strategie, le coerenze, l'organicità del disegno e la sua fattibilità. La quale ultima rinvia alle risorse e agli investimenti. Ma chi glielo dice a Tremonti? |