SCUOLA
Aprea: se c’è qualcuno da "riformare" il Sussidiario 24.7.2009
L’editoriale apparso su La Stampa di
ieri, a firma Luca Ricolfi, non lascia scampo: la scuola ha smesso
di insegnare, come recita il titolo del pezzo. Il dettagliato
panorama di lacune, incapacità e ignoranze punta il dito soprattutto
sulla generazione sessantottina e sull’idea dell’istruzione
ugualmente impartita alle “masse”. «I giovani», dice Ricolfi
«possono essere rimproverati soltanto di essersi così facilmente
lasciati ingannare (e adulare!) da una generazione di adulti che ha
finto di aiutarli, di comprenderli, di amarli, ma in realtà ha
preparato per loro una condizione di dipendenza e, spesso, di
infelicità e disorientamento». Ed oggi vediamo nelle generazioni di
studenti le catastrofiche conseguenze di tale atteggiamento
ideologico, effetti che li rendono incapaci «non solo di esprimersi
correttamente per iscritto, ma anche di fare un discorso articolato,
comprensibile che accresca le conoscenze di chi lo ascolta».
Un’analisi dunque amara con la quale concorda in molti punti l’on.
Valentina Aprea che abbiamo intervistato in proposito Direi che il quadro dipinto da Ricolfi è sufficientemente realistico soprattutto perché egli riconosce che per troppo tempo abbiamo giocato il contrasto fra le visioni politiche sulla scuola a livello ideologico piuttosto che a livello sostanziale.
Questa scelta di campo ci ha di fatto
allontanati dalle migliori esperienze europee e internazionali dove,
proprio sulla scuola, gli schieramenti hanno trovato delle sintesi
sulle soluzioni dei problemi più diffusi, come la dispersione
scolastica per fare un esempio. Penso in particolar modo agli
indirizzi unitari e forti che sono arrivati dagli anni ’80 in avanti
da parte dei parlamenti del nord Europa, tedesco, olandese piuttosto
che, ultimamente, anche dalla Gran Bretagna. Ma oltreoceano si può
citare la politica virtuosa degli Stati Uniti che stanno attuando il
famoso programma “nessuno rimanga indietro”. Noi non abbiamo saputo fare una politica scolastica che prescindesse dagli schieramenti proprio per la frattura ideologica esistente fra questi. La sinistra si è sempre ispirata alla cultura egualitaria del ’68, all’uguaglianza delle opportunità educative che di fatto si è rivelata falsa e perfino controproducente, come ammette lo stesso Ricolfi. Il punto è ciò che vado dicendo da quando siamo nati come progetto politico e cioè che il nostro sistema educativo, diventato di massa, deve attrezzarsi sul piano della qualità, della differenziazione soprattutto della personalizzazione.
Intanto però stiamo prendendo atto di
una fase che, ci auguriamo, sembra si stia concludendo per sempre:
restano i problemi e le proposte.
I problemi riguardano i livelli
assolutamente inadeguati di conoscenza, di competenza e di
preparazione dei giovani per affrontare le sfide di questi tempi a
fronte dei 13 anni di scolarizzazione che il nostro sistema
scolastico prevede (uno in più rispetto agli standard europei). Le
proposte sono quelle di tornare a curare meglio le modalità
tradizionali di insegnamento che a lungo sono state ingiustamente
banalizzate. Rendiamoci conto che usciamo da anni in cui non sono
stati più corretti i temi di italiano con l’idea assurda di
rispettare la creatività dei bambini, posto che sbagliare sia
ritenuto “creativo”, o in cui la matematica è stata spiegata
soltanto sulla base logica a scapito dell’aritmetica e della
geometria. Ma anche materie più “aperte” come la geografia, che
veniva ridotta allo studio del territorio locale, e che dimenticava
di insegnare i codici di lettura geografici. In effetti queste modalità sono per fortuna state in parte abbandonate. E credo che ciò stia avvenendo sia grazie all’INVALSI, ai test oggettivi di rilevazione degli apprendimenti, sia soprattutto perché dalla riforma Moratti in avanti i programmi di studio hanno rimesso al centro l’importanza di questi aspetti dell’apprendimento e ci auguriamo che questo filone possa trovare piena compiutezza con la formazione iniziale dei docenti, fatta molto più sulle discipline che non a livello psicologico pedagogico.
Questo però non è l’unico filone sul
quale incidere. Infatti io aggiungerei la necessità di liberare le
scuole da procedure standardizzate e invocherei invece più
autonomia, più responsabilità per gli istituti. Una struttura
scolastica può anche elaborare i percorsi più differenti diversi e
le strategie più diverse con l’impegno però di garantire, alla fine
dei conti, livelli più apprezzabili di apprendimento e di
competenze. Non possiamo cavarcela solamente bocciando. La
bocciatura è sì un segnale sicuramente positivo, se va ad indicare
quali sono le lacune, ma non può essere l’unico strumento per dare
qualità alla scuola, perché dietro la bocciatura c’è la persona e
noi puntiamo su di essa. Dobbiamo dunque differenziare i percorsi,
personalizzarli, fare in modo che la scuola si senta responsabile
del processo formativo di un individuo, ma disponga anche degli
strumenti per farlo.
A dir la verità Fioroni aveva
introdotto alcuni apprezzabili aspetti legati a una maggiore
severità o rigore, questo non va ignorato. Però mi sembra che il
Partito Democratico sia ancora molto arroccato sulla difesa
dell’idea di una cultura egualitaria. Anche facendo riferimento alla
legge sulla nuova governante della scuola che ho proposto in
commissione, quella sulla valutazione dei docenti e delle carriere,
il PD ha fatto un passo indietro. Sembra che siano ancora fermi al
fatto che non sia giusto premiare chi intende fare di più.
È ovvio. Il problema è che noi
dobbiamo dare un’istruzione a tutti, ma non a tutti la stessa
istruzione. L’equivoco è sempre stato su questi termini, si
pretendeva che tutti dovessero fare lo stesso percorso, che tutti
dovessero frequentare i licei e avere un’istruzione formale. È una
pretesa folle, come se si dicesse: «noi abbiamo bisogno solamente di
una classe dirigente». Ci si dimentica che invece ci sono altri
mestieri, altre intelligenze che seguono differenti percorsi. Per
esempio in Italia abbiamo abbandonato del tutto la cura della
formazione artigianale, un settore di eccellenza nel nostro Paese.
Così come il campo manifatturiero o della moda: si tratta di settori
in cui dovremmo eccellere, eppure formiamo in maniera molto
residuale gli individui che dovrebbero sostenere questi segmenti.
Per questo da sempre invoco più sussidiarietà orizzontale
nell’istruzione, reti di scuole e modelli alternativi. Perché noi
italiani di fatto abbiamo esteso a tutti il modello gentiliano, che
era stato costituito per le élite, creando così un enorme “diplomificio”. Non c’è dubbio che le nuove tecnologie e le nuove forme di comunicazione abbiano messo in crisi il vecchio modo di pensare, esprimersi e comunicare. Noi non abbiamo ancora imparato a dare legittimità a questi nuovi modi di comunicare e navighiamo fra livelli molto bassi per quel che riguarda un approccio educativo in relazione a tali novità. In sintesi direi però di cominciare a formare diversamente i professori, i nostri insegnanti. Occorre che l’istruzione pubblica torni a contare su adulti che possano essere davvero dei maestri, anche di attualità e non soltanto di saperi cristallizzati.
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