Centro Studi  Gilda

Cosa prevede la Legge sul Federalismo fiscale?

 di Fabrizio Reberschegg, dal Centro Studi della Gilda 27.7.2009

LINEE ESSENZIALI DELLA RIFORMA 

Principi fondamentali del federalismo fiscale (legge n.42 del 5 maggio 2009) sono - da una parte - il coordinamento dei centri di spesa con i centri di prelievo, che comporterà automaticamente maggiore responsabilità da parte degli enti nel gestire le risorse. Dall'altra parte, la sostituzione della spesa storica, basata sulla continuità dei livelli di spesa raggiunti l'anno precedente, con la spesa standard.

Il federalismo fiscale per diventare operativo necessita di una serie di provvedimenti che si snodano nell'arco di 7 anni: 2 anni per l'attuazione e 5 di regime transitorio. Il finanziamento delle funzioni trasferite alle regioni, attraverso l’attuazione del federalismo fiscale, comporterà la cancellazione dei relativi stanziamenti di spesa, comprensivi dei costi del personale e di funzionamento, nel bilancio dello Stato. A favore delle regioni con minore capacità fiscale - così come prevede l'art.119 della Costituzione - interverrà un fondo perequativo, assegnato senza vincolo di destinazione.

Il federalismo fiscale introduce un sistema premiante nei confronti degli enti che assicurano elevata qualità dei servizi e livello di pressione fiscale inferiore alla media degli altri enti del proprio livello di governo a parità di servizi offerti. Viceversa, nei confronti degli enti meno virtuosi è previsto un sistema sanzionatorio che consiste nel divieto di fare assunzioni e di procedere a spese per attività discrezionali. Contestualmente, questi enti devono risanare il proprio bilancio anche attraverso l’alienazione di parte del patrimonio mobiliare ed immobiliare nonché l’attivazione nella misura massima dell’autonomia impositiva. Sono previsti anche meccanismi automatici sanzionatori degli organi di governo e amministrativi nel caso di mancato rispetto degli equilibri e degli obiettivi economico-finanziari assegnati alla regione e agli enti locali. L’attuazione del federalismo fiscale deve essere compatibile con gli impegni finanziari assunti con il patto di stabilità e crescita.

Queste in grande sintesi le linee essenziali della riforma che assume nel suo articolato complesse revisioni delle competenze fiscali a favore degli enti locali, comprendendo e riconoscendo le città metropolitane e il ruolo di Roma Capitale.

 

COSA ACCADRA’ NELLA SCUOLA?

Non è esplicitato nella legge alcun rimando al sistema dell’istruzione se non con riferimenti generali alla riforma del Titolo V della Costituzione con particolare riferimento agli artt. 117 e 118. Ricordiamo che per l’art. 117 restano a capo dello Stato le “norme generali sull’istruzione”, è invece materia di legislazione concorrente Stato-Regioni  “l’istruzione, salva l’autonomia delle istituzioni scolastiche e con esclusione dell’istruzione e della formazione professionale”. Quest’ultima rimarrebbe quindi competenza esclusiva delle Regioni.  La confusa definizione costituzionale ha aperto numerosi contenziosi tra Regioni e Stato. E’ in questo contesto importante ricordare la Sentenza della Corte Costituzionale n.13 del 2004 a seguito di una impugnativa della Regione Emilia Romagna con la quale si è chiarito che alle Regioni spetta la programmazione della rete scolastica e dell’offerta formativa e alla conseguente gestione delle risorse economiche con l’esclusione di qualsiasi processo di devoluzione dell’intero sistema e del personale dipendente statale. Ciò ha portato al recente accordo tra Regione Lombardia e MIUR in merito alla cogestione dell’istruzione professionale integrata statale-regionale. Si ricorda inoltre la recente sentenza della Corte Costituzionale (n.200/2009) che chiarisce ulteriormente che l’organizzazione e la razionalizzazione della rete scolastica è competenza delle Regioni e non dello Stato.

I problemi che il federalismo fiscale accentua nel comparto della scuola e della formazione sono essenzialmente due:

L’introduzione del “costo standard per servizi e prestazioni” nella scuola dell’autonomia. Su questo punto si gioca molto del futuro della scuola italiana (come della sanità e di altri servizi essenziali del welfare). Come calcolare il costo standard? A livello nazionale, macroregionale, regionale o sub regionale? Poiché i costi nella scuola sono per il 90% costi del personale il rischio è quello di introdurre surrettiziamente gabbie salariali o differenziazioni territoriali stipendiali, con particolare riferimento all’accessorio. I costi per il personale della scuola dello Stato dovrebbe rimanere incardinati nella spesa statale centrale, fatto che salvaguarderebbe i livelli stipendiali minimi garantiti dal CCNL, ma c’è sempre la possibilità che nei decreti attuativi possano essere introdotte norme che consentono la differenziazione stipendiale in base al costo della vita calcolato territorialmente.

 Il concetto di “costo standard” pesa molto sulla gestione patrimoniale delle scuole. Ricalcolare a costi standard i livelli di manutenzione ordinaria e straordinaria degli immobili scolastici (scuole dell’infanzia, scuola primaria e secondaria di primo grado a carico dei Comuni, istituti secondari di secondo grado  a carico delle province o delle città metropolitane) può portare ad una maggiore efficienza ed efficacia nella spesa, ma si rischia di costringere gli enti locali delle regioni più o meno sviluppate e ricche di tagliare la spesa corrente e in conto capitale prevista, fatto accentuato dai meccanismi di penalizzazione per gli enti e gli amministratori locali in caso di mancato rispetto dei parametri previsti. Oppure può portare ad una sorta di fiscalità accessoria finalizzata e funzionale alla copertura di specifici servizi.

 

PROGETTO APREA E “QUOTE CAPITARIE”

Insieme agli indirizzi politici generali previsti dalla riforma bisogna prendere in considerazione le varie proposte di riforma scolastica che interverrebbero sulla questione federalista. Si pensi ad esempio al progetto Aprea che prevede che ogni singola regione e provincia autonoma attribuisca le risorse finanziarie pubbliche disponibili alle istituzioni scolastiche accreditate, sulla base del criterio principale della «quota capitaria», individuata in base al numero effettivo degli alunni iscritti a ogni istituzione scolastica, tenendo conto del costo medio per alunno, calcolato in relazione al contesto territoriale, alla tipologia dell’istituto, alle caratteristiche qualitative delle proposte formative, all’esigenza di garantire stabilità nel tempo ai servizi di istruzione e di formazione offerti, nonché a criteri di equità e di eccellenza.

Per calcolare le “quote capitarie” o individuare modelli di costo standard si dovrebbero prendere come punto di riferimento i dati relativi ai costi storici, depurarli e ponderarli con nuovi parametri, tutti da definire. Un lavoro che è solo apparentemente tecnico ma che ha importanti risvolti politici.

Ad esempio se prendiamo in considerazione i dati delle regioni a statuto ordinario (fonte Un.Bocconi 2008) saltano agli occhi differenze vistose di spesa. Si va dal Veneto con un costo a valore annuo di € 5.146 al Lazio con costo di € 8.122 Se poi si fanno i confronti sui valori pro capite per residente o, più scientificamente per popolazione in età 3-18, le differenze diventano ancora più percepibili nei termini di pressione ed equità fiscale generale.

Nella legge sul federalismo dovrebbero essere garantiti i “livelli essenziali” nel rispetto di criteri di efficienza della gestione della spesa. Come sta accadendo nella sanità dovrebbero quindi essere prese come riferimento alcune regioni per calcolare il costo standard medio degli allievi a seconda della tipologia scolastica. Su tale costo potranno essere calcolati coefficienti di compensazione agganciati a specifiche questioni territoriali e sociali.  Il problema politico è che se venissero prese come parametro regioni come il Veneto o la Lombardia salterebbe probabilmente tutto l’assetto finanziario dell’istruzione in Lazio  o in Calabria.