Alunni stranieri: di Elio Gilberto Bettinelli, ScuolaOggi 3.6.2009 Si fa un gran parlare di alunni stranieri per segnalare il “problema” delle scuole ad alta concentrazione, la necessità di una distribuzione equilibrata, l’opportunità di porre dei tetti percentuali alle iscrizioni (il 20%, il 30% o il 40%: dove starà l’equilibrio?), per far risorgere nella pratica scolastica le classi ponte così contestate da pedagogisti e linguistici…. Si ha l’impressione che troppo frequentemente si parli degli alunni stranieri se e quando il tema possa tornare utile o, comunque, inquadrarsi in un discorso pubblico che ruoti attorno all’allarme sociale, ai rischi, in gran parte solo supposti, derivanti dalla loro presenza, alle paure di scadimento della qualità scolastica e di perdita dell’identità nazionale. Quando invece giunge il momento di affrontare alcune questioni in termini puntuali e operativi, ma illuminati dalla ricerca educativa e dalle esperienze già realizzate in altri paesi, pare che cadano rapidamente spesse ombre che lungi dal risolverle, le riconsegnano invece a interpretazioni locali più o meno arbitrarie. Mi riferisco in specifico alla valutazione degli alunni NAI (neoarrivati in Italia) che scuole e insegnanti rilevano come problematica. Precisiamo innanzitutto che sarà bene parlare il meno possibile di alunni “stranieri” in generale, raggruppando in un’unica definizione su base giuridica (il possesso di una cittadinanza diversa da quella italiana) una varietà amplissima di storie e percorsi personali: la cittadinanza spesso non è rilevante nell’affrontare tematiche pedagogiche e didattiche. Infatti, se il tema fosse l’apprendimento della lingua italiana, non avrebbe senso definire un alunno di 12 anni su tale base quando egli è nato ed è stato secolarizzato in Italia; diverso sarebbe ovviamente se il problema fosse lo spazio scolastico da riconoscere alle culture cui fanno riferimento gli alunni figli di immigrati. In Italia, d’altra parte, sono classificati come stranieri, bambini e ragazzi che in altri paesi europei non sarebbero considerati come tali in quanto nati in quei paesi. Insomma qui non ci riferiremo agli alunni stranieri ma agli alunni non italofoni o ancora non suffcientemente italofoni, vale a dire ai bambini e dei ragazzi giunti nel nostro paese al massimo da due anni che rappresentano una percentuale ridotta e minoritaria degli alunni CNI, benché più consistente nella scuola secondaria.
Le nuove norme
sulla valutazione introducono regole piuttosto rigide nelle quali
sembra difficile rintracciare un minimo di attenzione ai percorsi e
agli specifici processi di apprendimento degli alunni NAI. Singolare
e paradigmatica è la vicenda del Regolamento previsto dall’art. 3
della Legge di conversione 30 ottobre 2008 (coordinamento delle
norme sulla valutazione). Negli schemi iniziali esso prevedeva
addirittura un articolo che, come abbiamo segnalato in un precedente
contributo, ribadiva l’indicazione, già contenuta nelle Linee guida
del 2006, di flessibililità e previsionalità: “Per gli alunni di
lingua nativa non italiana che si trovino nel primo anno di
scolarizzazione… la valutazione periodica e annuale mira a
verificare la preparazione, soprattutto nella conoscenza della
lingua italiana, e considera il livello di partenza dell’alunno, il
processo di conoscenza, la motivazione, l’impegno e le sue
potenzialità di apprendimento”. Di fatto un invito a dare priorità
alla lingua italiana e un implicito sostegno a percorsi di
apprendimento personalizzati che non si concludono nel primo anno di
inserimento e che richiedono sistematicità e continuità di risorse
professionali, quali insegnanti facilitatori, come ha giustamente
segnalato Gianni Gandola in un recente articolo. Poco, ma meglio di
niente. Ribadire uniformità di tempi e scadenze quando condizioni di partenza e processi di apprendimento sono differenziati non rischia forse di penalizzare e deprimere? Vengono allora alla mente le acute osservazioni che Taguieff esprime a conclusione del bel libro “Il razzismo”, a proposito delle strategie dell’antirazzismo. Non credo che qui siano in gioco questioni così drammatiche, razzismo e antirazzismo, ma certamente si pone anche qui la questione dell’orientamento generale da adottare fra universalismo e differenzialismo. Vi sono occasioni e situazioni in cui la scelta universalista potrebbe essere più appropriata e altre nelle quali, invece, la è un’opzione differenzialista. Bisogna in sostanza considerare quale sia il pericolo principale. Nella valutazione degli alunni NAI credo che il pericolo maggiore sia quello di non considerare la specificità dei loro percorsi che richiedono tempi, scadenze e priorità differenziate; percorsi che debbono essere sostenuti da adeguati dispositivi di apprendimento. Più chiara e coerente sarebbe allora una norma che consenta ai collegi docenti eventualmente di sospendere la valutazione certificativa per un biennio, sulla base di considerazioni caso per caso; infatti non tutti gli alunni NAI necessitano di tale decisione. E’ una norma per altro già vigente in alcuni paesi europei come si rileva dall’indagine Eurydice pubblicata nel 2004.
La scelta peggiore
è quella di riconsegnare all’ombra del non detto, nella tacita
convinzione che le scuole si arrangeranno trovando - se lo vogliono,
se ne sono capaci, se sono sensibili – pertugi e varchi nella rigida
normativa nazionale (e ne possiamo trovare e tatticamente
utilizzare) al fine di perseguire le istanze pedagogiche di
attenzione alla varietà dei percorsi di apprendimento. Il rischio è
che ancora una volta si assista alle scelte più disparate, a un
ulteriore passo sulla via della “localizzazione” dei diritti e delle
opportunità, al silenzio ufficiale. |