Gentile "riforma" ...

di Marina Boscaino, Pavone Risorse 2.6.2009

Non dobbiamo stupirci. Quando fu approvata la legge 53/03 – la cosiddetta “riforma Moratti” – Berlusconi (sì, sempre lui, il leader del decennio di questo strano Paese) gridò al miracolo; e, con toni enfatici, annunciò la più grande riforma della scuola dopo quella di Gentile. La storia si è impegnata, poi, a spiegarci che le cose non stavano esattamente nei termini che Berlusconi aveva usato; e che quella della Moratti era tutt’altro che una riforma, nel senso storicamente determinato che a questo termine si può dare, sottraendolo all’abuso e all’usura.

 “Inizia oggi il processo di riforma della scuola secondaria”: ci risiamo; queste le parole che hanno accompagnato qualche giorno fa l’approvazione in Consiglio dei Ministri del pacchetto sui tecnici e sui professionali. Ci siamo abituati. Abituati all’uso taumaturgico delle parole che questo governo è capace di fare. Riuscendo, come in passato,  persino a rubricare sotto l’impegnativa e altisonante voce “riforma” un insieme di tagli: di ore, di discipline, di insegnanti, di risorse.  E ancora una volta si osanna il provvedimento “storico”, visto che l’ultima riforma delle superiori risale al 1931. Comunque sia, lontana anni luce dalla cautela del suo precedessore Fioroni, che con l’arma gentile del “cacciavite” ha lasciato intonsa la piattaforma per il lancio della nuova offensiva di centrodestra alla scuola italiana, Gelmini – nel giro di pochissimo più di un anno – ha messo mano (e che mano!) a tutti i segmenti della scuola italiana.  È vero che dopo l’approvazione da parte del Consiglio dei Ministri i tre schemi di regolamento – rispettivamente per il riordino degli istituti tecnici, degli istituti professionali, sulla valutazione - dovranno essere sottoposti ai pareri delle commissioni parlamentari, della Conferenza Unificata Stato Regioni, del CNPI, del Consiglio di Stato, in attuazione di quanto previsto dal decreto-legge n.112 /08, art. 64. Ma il gioco è sostanzialmente fatto. Il che significa che il milione e 400 mila studenti che frequentano questi due indirizzi superiori dall’a.s.  2010/11  si troveranno a frequentare una scuola diversa.

Senza entrare nel merito dei quadri-orario, sull’organizzazione degli indirizzi, sulla diversa distribuzione delle discipline – che in nessun modo giustificano il fatto che Gelmini parli di “rilancio della cultura tecnica e professionale” – mi limito a sottolineare alcuni elementi macroscopici: la riduzione a 32 ore settimanali contro le 36 precedenti; la riduzione del 30% dei laboratori; la riduzione dei settori e degli indirizzi; che, se da una parte, ha risposto ad una oggettiva esigenza di razionalizzazione,  dall’altra è stata operata non tenendo conto dell’importanza fondamentale che alcuni indirizzi – sia del tecnico sia del professionale – assumono nella valorizzazione delle vocazioni dei singoli territori. Ma, indipendentemente da questa osservazione, “riduzione” è la parola d’ordine sotto cui passerebbe il “rilancio” della cultura tecnico-professionale. Al solito: diciamo A, vi diamo B.  E pretendiamo che non andiate troppo per il sottile. Né che vi ostiniate a smascherare le nostre bugie. La pretesa è tanto più intransigente quando si parla di scuola. D’altra parte, quando si tende a far passare sotto voce riforma il taglio di 8 miliardi di euro in tre anni, non ci sono limiti all’immaginazione e all’impudenza. All’insulto delle intelligenze della gente comune, della professionalità di molti insegnanti, del diritto allo studio degli studenti.

Il fatto ancor più grave è che qui si parla dell’istruzione tecnica e professionale. Di quel segmento dell’istruzione superiore, cioè, che accoglie il 70% degli studenti, di cui una parte consistente di quelli socio-economicamente-culturalmente più svantaggiati; dei migranti; dei diversamente abili; in seno al quale si crea, per motivi complessi e eterogenei, il fenomeno devastante della dispersione scolastica. Tutto ciò, questa sinergia di elementi problematici, è stato possibile per il fatto che l’istruzione tecnica, ma soprattutto quella professionale, sono state negli anni progressivamente impoverite, confinate in una residualità parallela alla marginalità sociale di una parte dei suoi utenti. Ci siamo riempiti la bocca di formule ad effetto, quali la scuola come “ascensore sociale”. Niente di più lontano dal vero. Perché la proposta Gelmini annulla lo sforzo concreto che, tenacemente e nei limiti di tempo che ha avuto a disposizione, Romano Prodi – per sua convinzione personale – ha perseguito in un piano di oggettiva valorizzazione di questo settore dell’istruzione, che gli restituisse quella vitale importanza strategica e culturale che ebbe negli anni ’60. 

Il governo porta avanti l’ipotesi, anticipata nell’intesa MIUR- Regione Lombardia, di realizzare una “offerta coordinata tra i percorsi di istruzione degli istituti professionali e la formazione professionale”, prevedendo, per i territori con una minore presenza della formazione, che gli istituti professionali possano svolgere, in regime di sussidiarietà, un ruolo integrativo e complementare rispetto al sistema di istruzione e formazione professionale, istituendo percorsi finalizzati al rilascio di qualifiche regionali. L’unitarietà del sistema dell’istruzione nazionale viene definitivamente abolita dalla possibilità di compresenza di un percorso strutturato analogamente a quelle delle altre scuole superiori (2anni+2anni+1anno, che conduce al diploma) e di un percorso in regime di sussidiarietà (2anni+1+1+1) per il rilascio di qualifiche professionali.

Infine, un elemento che accomuna sia l’istruzione tecnica sia quella professionale: la creazione di comitati tecnico-scientifici che, insieme ai dipartimenti, andranno ad accrescere il numero degli organi collegiali. I dipartimenti con funzione di sostegno alla didattica e alla progettazione formativa; i comitati tecnico-scientifici (composti da un pari numero di insegnanti e di esperti del mondo del lavoro e delle professioni) avranno funzioni consultive e di proposta per l’organizzazione delle aree di indirizzo, nonché per l’utilizzazione degli spazi di autonomia e flessibilità. La flessibilità può arrivare anche a quote del 40%: un comitato tecnico scientifico costituito anche dal mondo del lavoro non può che propiziare l’ingresso dei propri rappresentati in scuole a vocazione professionale. Non è avveniristico prevedere cordate di potere, spartizioni, ambiguità, deviazioni.

Sempre meno scuole, sempre più professionali, dunque. Inevitabile pensare a Valentina Aprea, al suo pericolosissimo disegno di legge, ai consigli di amministrazione in sostituzione del consiglio di istituto. Alle scorribande privatistiche e privatizzanti in una scuola sempre meno dello Stato e della Costituzione, sempre più subalterna alle lusinghe del mercato; a una mercificazione aperta del valore della cultura; al risparmio su quel valore non immediatamente (per chi si abbandoni non saggiamente alla propria colpevole miopia) monetizzabile; alla divaricazione su base sociale dei destini dei ragazzi italiani: sempre più saper fare per chi per nascita non ha diritto d’accesso al sapere. È solo un assaggio rapido: sufficiente per rendersi conto che stanno preparando un futuro niente male per questo acciaccatissimo Paese.