Condotta, Deontologia, Etica pubblica
Giorgio Ragazzini (Pubblicato sul n. 1
gennaio-marzo 2009 di "Esodo") Viviamo, per nostra fortuna, nella società dei diritti. Ma ogni diritto ha, per così dire, due guardiani: il dovere di rispettarlo e quello di farlo rispettare. Il primo riguarda tutti; il secondo compete a una serie di ruoli in tutti i settori della società. Ma è un ruolo sgraditissimo, a cui molti si sottraggono davanti alla prima responsabilità che si delinea all’orizzonte. La verità è che molti non sanno più, o non hanno mai saputo, “chi glielo fa fare”. Meglio adeguarsi al quieto vivere, esibendo magari una sconsolata presa d’atto di come va il mondo... E di una crescente “fuga dalla responsabilità” parlano moltissimi osservatori della società italiana, naturalmente con una varietà di punti di vista e di diagnosi storico-culturali. Un fatto è certo, però: anche se tutti viviamo immersi nel più vasto contesto sociale, è nella famiglia e nella scuola che soprattutto si impara a rispettare gli altri, ad adempiere con serietà ai propri compiti e a riflettere sulle conseguenze delle proprie azioni. Sono questi i principali luoghi di trasmissione dei valori (incluso lo spirito critico che ne permette l’adeguamento ai tempi) e quindi – se mi si passa l’espressione industrialista – di “produzione” dell’etica pubblica. Per fortuna da qualche anno a questa parte sta cominciando a diffondersi la consapevolezza che dobbiamo affrontare una vera e propria crisi dei ruoli educativi, i cui modelli venivano un tempo trasmessi senza dubbi e incertezze da una generazione all’altra. La loro messa in questione, sotto molti aspetti necessaria, non ha dato però luogo in tempi accettabili a una nuova visione, più aperta, ma pur sempre fondata sulla realtà dello sviluppo psicologico. Si è invece verificato un prolungato disorientamento dei genitori e degli insegnanti, anche per via del suo intrecciarsi più che altrove con una forte ideologizzazione della società. La stessa parola “autorità” (il cui etimo ne ricorda tra l’altro la specifica funzione di “favorire la crescita”) è stata fortemente interdetta; e ancor oggi non pochi, sentendola nominare, si affrettano a incoraggiarne la sostituzione con “autorevolezza”; come se il prestigio conquistato sul campo – sempre auspicabile – fosse la stessa cosa dell’appoggio e della legittimazione che una comunità assegna comunque al ruolo di genitore o di insegnante. Probabilmente i primi ad avviare un ripensamento sono stati alcuni psicoterapeuti, a contatto con le difficoltà e a volte con la disperazione di genitori incapaci di far rispettare qualsiasi regola ai propri figli. Va citato almeno il testo più deciso nel dare l’allarme, Se mi vuoi bene dimmi di no, di Giuliana Ukmar (1997), che incoraggiava padri e madri a riprendere lo scettro lasciato in mano ai “reucci” della casa e a usare senza sensi di colpa il “potere positivo” indispensabile alla loro crescita. Poco a poco anche riguardo alla scuola si è fatta strada la convinzione che proprio la sua debolezza in campo educativo, ammantata di discorsi sulla “comprensione” e l’ “ascolto”, costituisce probabilmente la maggiore emergenza, ben prima delle riforme ordinamentali, della formazione iniziale dei docenti e persino dell’esiguità delle risorse finanziarie. Una scuola poco esigente quanto a rispetto delle regole non è solo più faticosa, ma anche meno produttiva sul piano dell’apprendimento. Non è certo un caso che nel gruppo di testa delle classifiche P.I.S.A. figurino nazioni come Corea, Giappone, Taiwan con sistemi scolastici estremamente rigorosi, fattore fondamentale del loro tumultuoso progresso economico. Scrivono Federico Rampini e Carlo De Benedetti in Centomila punture di spillo: “Chi ha messo piede in un'aula di scuola media, di liceo o di università in Asia sa che in quei luoghi regnano la disciplina, il rigore, il rispetto dell'autorità, la venerazione del sapere. Non perché gli insegnanti cinesi e indiani siano tutti premi Nobel, ma perché tutti sono d'accordo che il sistema funziona solo rispettando quelle regole. Se i genitori di Pechino o di New Delhi cominciassero a dare ragione ai figli contro i docenti, a invocare promozioni facili per tutti, il progresso economico, scientifico e tecnologico dell'Asia si fermerebbe molto presto. Nel tacito accordo che unisce genitori e insegnanti, in quella vasta area di tre miliardi di persone in corsa verso il benessere, c'è una lezione preziosa per noi”. Come genitori e come docenti, se probabilmente siamo divenuti mediamente più capaci di vicinanza affettiva verso i figli e gli allievi di quanto fossero le generazioni precedenti (a loro volta mediamente più sicure – non senza cadute nell’autoritarismo – su come fare il loro mestiere), dobbiamo però reimparare (o rassegnarci) a esercitare fino in fondo le responsabilità che competono agli adulti. Per farlo, però, ci serve più di ogni altra cosa la fermezza. Come nota lo psicologo Osvaldo Poli, nel suo libro dedicato a questa virtù fuori moda (Non ho paura a dirti di no), spesso il prendere e mantenere una decisione educativa esige un costo emotivo che non molti sono in grado di sopportare. Siamo un po’ tutti infettati da “virus” di varia origine che impediscono di “girare” al nostro programma educativo: sensi di colpa, paure, bisogno eccessivo di essere approvati, ricordi di nostre vicissitudini come figli o alunni, potenti suggestioni pedagogiche diffusesi negli scorsi decenni (tipo “con il dialogo si ottiene tutto”). Può però incoraggiare e sostenere chi ha compiti educativi la crescente consapevolezza che il laissez faire si è rivelato rovinoso e che per i giovani è fondamentale avere a che fare con adulti in grado di guidarli. Per questo va considerata una svolta non da poco nella storia recente della scuola italiana quella del ministro Fioroni in direzione di una scuola più esigente e rigorosa, che si è concretizzata con la riforma degli esami di maturità, con i provvedimenti relativi all'effettivo recupero dei debiti, con le norme sui cellulari a scuola, con una prima revisione e accelerazione delle procedure disciplinari nei confronti dei docenti che hanno commesso reati e con una riforma dello Statuto degli studenti che autorizza ora anche sospensioni superiori ai 15 giorni, fino alla perdita dell'anno scolastico per casi di comportamenti particolarmente gravi. Il che, sia detto per inciso, non contrasta con lo spirito dello Statuto, con la distinzione tra la valutazione del profitto e quella del comportamento; perché una cosa è il voto nelle materie, un'altra è la promozione, che deve necessariamente tenere conto anche del versante educativo della formazione. Altrimenti l'insistenza sull'educazione civica e alla legalità verrebbe ridicolizzata da una scuola che promuovesse persino chi si macchia di reati. Su questi temi il ministro Gelmini non ha fatto che proseguire sulla strada tracciata da Fioroni. L’attuale dibattito sul cinque in condotta, tuttavia, a prescindere dagli allarmi per una scuola autoritaria e repressiva che non hanno il minimo fondamento nella realtà italiana, mi pare notevolmente riduttivo proprio alla luce di quanto abbiamo detto; e lo è in particolare l’idea che un maggior rigore servirebbe a “combattere il bullismo”. Si tratta invece di ri-orientare complessivamente l’azione educativa, di operare una revisione critica che riguarda tutti i giovani e non solamente i bulli; e di rendersi conto che la scuola si è troppo a lungo dimenticata di tutelare, insieme ai docenti e al loro difficile impegno, i tanti ragazzi che vogliono studiare e imparare e il cui comportamento corretto – che si dà per scontato come l'aria che respiriamo – costituisce una delle condizioni imprescindibili per lavorare con serenità. Così facendo, in un certo senso la pedagogia egemone ha codificato una forma di silenzioso parassitismo degli adulti nei confronti degli allievi corretti, che ha consentito di evitare, insieme a più risolute prese di posizione, la revisione di fallimentari teorie educative. Tra le quali, radicatissima anche al di fuori del contesto scolastico e familiare, la falsa contrapposizione tra educazione e sanzione, mentre la seconda fa parte di ogni sistema educativo, sia pure come strumento a cui ricorrere eccezionalmente. Tanto più eccezionalmente, quanto più chi potrebbe incorrervi sa di non poter assolutamente superare certi limiti. In definitiva la fermezza educativa non è affatto in contrasto con un buon rapporto tra genitori e figli, nonché tra insegnanti e allievi; anzi ne crea le premesse e l'indispensabile cornice. È vero però che in qualche caso non si tratta più di difficoltà psicologica nel proporre un valore, ma di un vero e proprio disorientamento etico. Per esempio, nel decidere se promuovere o no uno studente, oltre all’ovvio interesse di quest’ultimo, entrano in gioco altri “beni” da tutelare, a cui in genere si dedica poca o nessuna attenzione: la valorizzazione del merito e dell’impegno, che ogni promozione ingiusta indirettamente svaluta; la correttezza e l’imparzialità di cui la scuola dovrebbe dare esempio costante e a cui i docenti devono informarsi nell’esercizio delle loro funzioni anche in quanto parte della Pubblica Amministrazione (ma glielo ha mai detto nessuno?). Esiste certamente l’autonomia professionale, che però non è fatta solo di libertà, ma anche di responsabilità. Non pochi colleghi, invece, sono convinti di godere di una discrezionalità assoluta, per cui si può anche prescindere dai registri pieni di insufficienze, purché ci si appoggi a una qualsiasi motivazione psicologica o sociale. E che l’indulgenza sia stata anche incoraggiata e legittimata, lo prova il fatto che, mentre una bocciatura deve essere abbondantemente motivata e magari accompagnata dalla documentazione di tutte le strategie adottate per prevenirla, sulle promozioni nulla quaestio: vanno sempre bene. Un’altra falla nell’etica professionale emerge di frequente in occasione delle prove scritte degli esami, con il professore che aiuta più o meno apertamente i suoi allievi o più discretamente si assenta per un caffè, quando non arriva a procurare senz’altro la soluzione del problema. E forse non tutti sanno che tutta una complessa organizzazione pluriennale di rilevamenti nazionali dell’Invalsi sull’apprendimento dell’italiano e della matematica è stata irrimediabilmente mandata a monte dall’indebito aiuto che una parte dei docenti italiani ha ritenuto di prestare ai propri allievi; e si può immaginare con quale beneficio educativo, per tacere dei soldi spesi invano. Anche questi fenomeni rendono non più rinviabile una riforma dello stato giuridico, che tra l’altro prevederebbe, accanto alla creazione di organismi rappresentativi della professione, l’adozione di principi etico-deontologici e soprattutto un’ampia discussione su questa materia. Sperando che l’occasione non venga persa facendo calare dall’alto un codice preconfezionato.
Torniamo quindi al punto di avvio di
questa riflessione: la responsabilità degli educatori rispetto alla
situazione dell’etica pubblica. E cioè alla necessità di una più
acuta consapevolezza dell’influenza che la qualità dell’istruzione e
in particolare lo stile educativo dei docenti sono destinati ad
avere anche sulla società. L’educazione civica delle nuove
generazioni non passa soltanto dallo studio della Costituzione, ma
anche e soprattutto dall’azione di insegnanti sensibili e insieme
fermi e perseveranti nel non transigere sul rispetto degli altri; e
capaci di essere a loro volta un esempio di rigore, di impegno e di
responsabilità di fronte ai loro allievi. Utilizzando con coerenza
le due leve dell’educazione civica “in atto” e dell’etica
professionale, la scuola sarà in grado di formare cittadini insieme
più preparati e più responsabili.
Proprio sul
"Corriere della Sera" di oggi un articolo riferisce del richiamo
dell'Invalsi ai docenti italiani impegnati nell'esame di terza
media. Si chiede, in sostanza, di non aiutare gli alunni nella prova
nazionale, come l'anno scorso invece è accaduto (e a tal punto da
vanificare in pratica l'utilità della prova stessa). Se è importante
che finalmente la questione abbia risalto, si noti però con quale
linguaggio felpato si tratta quello che è in realtà un vero e
proprio scandalo per chi possieda un minimo di senso della legalità
e dell'istituzione in cui opera: "Si consiglia che non siano
presenti in aula insegnanti della disciplina oggetto della prova". E
l'articolo precisa: "Non è una disposizione, ma una cortese
richiesta. Chi vuole può restare a fianco degli alunni.".
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