SCUOLA
Rocca (Confindustria): intervista a Gianfelice Rocca, il Sussidiario 30.1.2009
«Noi lasceremo alla generazione
successiva una situazione molto complessa, che per certi versi
potrebbe essere anche disastrosa». Gianfelice Rocca, vicepresidente
di Confindustria con delega per l’Education, non usa mezzi termini
per definire l’attuale crisi economica. E in una situazione così
grave, le cui ripercussioni si riverseranno principalmente sui
giovani, l’educazione e l’introduzione al mondo del lavoro assumono
un ruolo assolutamente cruciale.
Innanzitutto dobbiamo intenderci sulla
complessità di questa crisi. Ci troviamo in condizioni veramente
critiche, perché non sappiamo quale sarà l’approdo di questa fase:
abbiamo di fronte sei mesi di paura, dove la disoccupazione può
assumere dimensione ancora non definibili. Quindi, al di là del modo
con cui se ne uscirà, i giovani di oggi si troveranno certamente in
un mondo diverso, in cui anche la stessa globalizzazione avrà
un’altra immagine rispetto a quella attuale. Ora, è chiaro che
l’educazione e l’istruzione sono l’elemento centrale: i giovani
dovranno essere pronti al cambiamento e avere la capacità di
muoversi in un mondo che chiederà loro più innovazione e più
differenziazione. Ci vuole un’educazione che dia loro sostanza, e
non apparenza, perché questa crisi ci obbliga a un’estrema
concretezza.
Si tratta di un problema profondo, che
riguarda l’educazione dei genitori, prima ancora che dei figli.
Certo, i media da questo punto di vista possono fare molto,
soprattutto se iniziano a occuparsi di scuola con competenza, e non
dando spazio – come invece troppo spesso fanno – a questioni di
facciata e agli aspetti scandalistici. Bisogna cogliere il movimento
di fondo che attraversa la nostra scuola, e a quello dare voce.
Un’informazione corretta e approfondita è dunque la prima necessità;
dopodichè ci vuole un convincimento più di lungo periodo, che
riporti le famiglie a rendersi conto che l’educazione è un fatto
essenziale.
Innanzitutto dobbiamo garantire alle
scuole tecniche una maggiore flessibilità, in modo che possano
adattarsi a una domanda esterna che cambia moltissimo. Primo aspetto
di cui tenere conto è poi il fatto che chi esce dall’istruzione
tecnica per metà va all’università, e per metà nel mondo del lavoro.
Quindi i presidi devono tenere conto del problema del placement, di
come collocare i ragazzi nel mondo del lavoro, e al tempo stesso
porre attenzione a questa doppia domanda dei loro studenti. Il
rapporto con il mondo delle imprese deve poi essere assolutamente
recuperato: è da qui che può derivare quella concretezza
nell’insegnamento che dà passione e vitalità all’apprendimento, e
che tanto può coinvolgere i giovani. Non bisogna mai dimenticare che
coloro che frequentano gli istituti tecnici non hanno un’istruzione
di secondo livello, ma un modo diverso di studiare, basato sul fare
per capire. Dall’istruzione tecnica può poi derivare una grande
risposta al problema dell’occupazione sollevato da questa crisi.
Visto che c’è una grande domanda di
tecnici, i giovani che escono da questi istituti sono in grado di
inserirsi nel mondo del lavoro, e di garantirsi un’indipendenza
economica già a 19 anni. Invece di avere molti giovani che per
scelte sbagliate vanno ad alimentare una disoccupazione
intellettuale di persone con una formazione “generalista”, che non
sanno cosa fare, e che vivono il dramma non saper nemmeno che tipo
di lavoro cercare, avremo gente che nella nuova società potrà
giocare un ruolo ben preciso.
Io penso al contrario che tutta la
programmazione scolastica dovrebbe passare alle Regioni, licei
compresi. Creare una differenziazione per cui i licei restano in
capo allo Stato, e tecnici e professionali in capo alle Regioni mi
pare che rispecchi l’idea gentiliana delle due diverse culture: i
licei per la formazione della classe dirigente, e gli altri istituti
per le classi subalterne. Un’impostazione non adeguata alla nostra
società, in cui anche la cultura classica deve sapersi adattare a
quelle che sono le circostanze in cui si forma. Non dimentichiamo
che in certi paesi tutte le scuole sono controllate dai Comuni, e
questo accade ad esempio in Finlandia, il cui sistema riscuote un
grandissimo successo. Discutere dunque su chi deve stare in capo
alle Regioni e chi in capo alla Stato mi sembra un problema di
carattere burocratico. Bisogna invece puntare su ben altro.
Soprattutto sull’autonomia scolastica.
Il vero punto di riferimento devono tornare ad essere i presidi (in
passato erano molto spesso ingegneri), i quali devono essere degli
imprenditori culturali, per riuscire a dare risposte a domande
complesse e molto variabili. Quindi l’intervento statale o regionale
è relativamente importante; quello che conta è concentrarsi sulla
singola scuola e sulle reti di scuole.
Soprattutto per i tecnici è
importantissimo che vi sia una partecipazione organizzata del mondo
delle imprese nella governance della scuola. Questa d’altronde era
la ragione del successo dei tecnici fino agli anni ’70. La scuola
sembra purtroppo vivere di una paura nel rapporto con il mondo
esterno, perché si teme che questo possa essere un intervento per
trasformare la scuola in un servizio per la formazione dei
dipendenti delle aziende. Non è così. Noi avevamo imprenditori che
erano anche presidenti di istituti tecnici, e avevamo laboratori con
tecnici che venivano mandati dalle imprese a insegnare negli
istituti. Dobbiamo assolutamente ripristinare questo circuito
virtuoso, per dare un’identità alle scuole tecniche. Se non
ripristiniamo questo, le svuoteremo della loro identità e della
capacità di chiamare gli studenti per la loro qualità, e non come
scuola di secondo scelta. |