Caro Ministro, quell'espressione non va
(e non solo quella...)
Non è certo con operazioni di "cosmesi
comunicativa", come l'uso del termine "diversamente abile", che si
dimostra la volontà di risolvere effettivamente i problemi degli
studenti universitari con disabilità: questi hanno invece bisogno di
servizi, di investimenti e di una nuova cultura. Lo scrive al
ministro della Pubblica Istruzione Mariastella Gelmini un operatore
che lavora da tempo nel campo dei servizi universitari di supporto
agli stessi studenti universitari con disabilità
di Carmine Rizzo da
Superando,
21.1.2009
Sono un operatore che lavora da anni
nel campo della disabilità e in particolare nell'ambito dei servizi
universitari di supporto agli studenti universitari con
disabilità.
Le scrivo - onorevole Gelmini - sollecitato dalla
lettura del Decreto Ministeriale da lei firmato il 28 agosto 2008
(protocollo n.
159/08) - Criteri ripartizione stanziamento per interventi
studenti diversamenti abili anno 2008 - in cui campeggia
appunto l'espressione "studenti diversamente abili",
sulla quale vorrei proporre alcune brevi considerazioni.
Mi permetta di partire da una frase
illuminante dello scrittore Giuseppe Pontiggia,
apposta come dedica al suo bel libro Nati due volte:
«A tutte le persone disabili che lottano, non per diventare uguali
agli altri, ma se stessi».
Questa dedica ci interpella tutti, nessuno escluso.
In nessun settore della vita, infatti, le parole sono chiacchiere,
tanto meno nell'ambito del sistema formativo formale (quello di Sua
competenza come Ministro): nella correzione dei temi, ad
esempio, contano perfino gli accenti e gli apostrofi, si immagini
quindi il peso specifico delle parole!
La mia non vuole essere, per altro, una mera disputa lessicografica
o semantica; nell'uso di certi termini, infatti, sono in ballo
questioni assai più profonde, che concernono il rispetto
vero delle persone, delle loro storie di vita e della loro
condizione esistenziale.
L'espressione "studenti diversamente
abili" è sempre più diffusa nel mondo dell'informazione e della
politica, ma moltissimi fra i più competenti,
preparati e appassionati operatori italiani nell'area delle
disabilità hanno eccepito vigorosamente su di essa.
Le riporto alcuni esempi. La teologa Adriana Zarri
scrive che questa «ridicola e ipocrita definizione rappresenta il
colmo dell'imbarbarimento e, in fondo, dimostra una mancata
accettazione di uno stato di difficoltà»; Andrea Pancaldi,
tecnico che collabora con il Comune di Bologna, parla
di termine «carico di ambiguità»; il giornalista Franco
Bomprezzi [nostro direttore responsabile, N.d.R.] denuncia
una «deriva linguistica che, nell'enfatizzare le capacità di alcuni,
ignora le persone con maggiori difficoltà».
Carlo Giacobini, infine [nostro direttore
editoriale, N.d.R.], descrive il "neologismo" con acuta ironia
come «un ansiolitico linguistico, utile al massimo a mettere in pace
la coscienza di coloro che non si sono mai fatti carico
sino in fondo di questi problemi».
Personalmente ritengo che si tratti di
un tentativo maldestro di "sdoganare" le disabilità, rimuovendo (o
se si preferisce camuffando) le difficoltà reali che
assillano giorno per giorno gli studenti universitari con disabilità.
Invece di lottare per affermare nella prassi quotidiana il diritto
all'uguaglianza di opportunità, si inseguono goffamente modelli
efficientisti ed estetici.
Qualcuno potrebbe obiettare che l'espressione mira a valorizzare le
abilità residue (quando ci sono), il che è sicuramente doveroso, ma
ha come indispensabile presupposto il riconoscimento leale e
oggettivo delle limitazioni delle attività, non la loro
rimozione attraverso operazioni di "cosmesi comunicativa".
In realtà, l'inserimento e
l'inclusione sono possibili, da una parte mediante provvedimenti
amministrativi che favoriscano i progetti di vita
indipendente di ciascuno (e quindi mettendo in campo
investimenti); dall'altra, attraverso processi culturali di
accettazione lunghi e complessi, che non solo non passano
attraverso la proposta di nuove e ambigue definizioni, ma possono
addirittura essere da esse ostacolati.
Gli studenti universitari con disabilità hanno bisogno di
servizi e non di questi biglietti da visita ingenui, e
anche fuorvianti.
Vale infine la pena ricordare anche che il termine "diversamente
abile" non ha alcun rigore scientifico, né alcuna
valenza sul piano legislativo ed è intraducibile in altre
lingue.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), che il 22 maggio 2001
ha approvato la Classificazione Internazionale del Funzionamento,
della Disabilità e della Salute (ICF),
suggerisce di usare il termine "persone disabili" o "persone
con disabilità".
Mi auguro, Signor Ministro, che non
voglia liquidare questa mia lettera come un semplice esercizio di
pedanteria e puntigliosità semantica, ma intenderla come un piccolo
contributo sulla strada da percorrere per la piena
promozione dei diritti di cittadinanza delle persone con disabilità
e per la creazione delle condizioni perché possano essere
se stesse e non quello che noi vogliamo che siano.
E allora mi creda, Signor Ministro, tutti noi saremo più
autenticamente noi stessi.