Il voto: un oggetto nazional-popolare [1] Giancarlo Cerini, Educazione & Scuola 22.1.2009 Le vicende di questi mesi in materia di valutazione (come il ripristino del voto in condotta e il ritorno dei voti numerici nella scuola di base, aboliti nel lontano 1977) segnalano un rapporto difficile tra le esigenze “interne” degli addetti ai lavori e le aspettative “esterne” della società. Ormai sembra che i valori che ispirano coloro che operano all’interno della scuola (pensiamo alle idee di inclusione, accoglienza, pari opportunità, solidarietà) siano assai lontani dalle tendenze della società civile (ove sembrano prevalere l’affermazione dell’individuo, la competizione, il successo). Anche la questione del voto (e più in generale della valutazione a scuola) non sfugge a questo dilemma. Chi sta a scuola, soprattutto in quella dell’obbligo, è legato ad una prospettiva di valutazione formativa, orientata a riconoscere e valorizzare l’apprendimento, piuttosto che a giudicarlo e sanzionarlo. Questi principi pedagogici stanno scritti anche nel testo delle Indicazioni per il curricolo del 2007 (e nelle linee guida del nuovo obbligo scolastico). In poche righe si delinea un coerente sistema, dall’osservazione diagnostica alla valutazione in itinere e a quella sommativa, con il preminente obiettivo di stimolare il miglioramento continuo degli allievi e di regolare l’iniziativa didattica degli insegnanti. Questa filosofia si estende anche all’azione della scuola e del sistema educativo nel suo complesso. La valutazione, in sintesi, è finalizzata ad introdurre elementi di riflessività in tutti gli attori del sistema, a partire da insegnanti e allievi, per consentire loro di prendere decisioni a “ragion veduta”.
Dall’esterno, invece, proviene una spinta diversa, quella del
controllo, della verifica, del rapporto costi/benefici, della tenuta
del sistema, riassumibili nella domanda “quanto mi costi, quanto mi
rendi?”. Sono istanze che risalgono all’introduzione dell’autonomia,
alla legge 59 del 1997, là ove si ricorda che la scuola che gode di
autonomia è tenuta a “render conto” della propria produttività
culturale. Oggi la rendicontazione sociale (c.d. accountability) è
ormai il cardine fondamentale di ogni sistema valutativo, capace di
coniugare l’esigenza di trasparenza verso l’esterno, di affidabilità
e leggibilità dei dati, di feed-back indispensabile per la scuola
(che non può chiudersi a riccio nell’autoreferenzialità delle sue
pratiche autovalutative). Domande impegnative, ma indispensabili Ma che cosa si valuta? Quali sono gli “oggetti” della valutazione? Tutto è misurabile o nulla è misurabile? C’è il rischio che l’apprendimento sia visto come una scatola nera inespugnabile, che ci si debba limitare a rilevare qualche prestazione/abilità parziale e visibile, mentre le competenze sarebbero condotte della persona ben più profonde, che chiamano in gioco risorse non solo cognitive, ma affettive, sociali, emotive (e quindi assai difficili da descriver, standardizzare, certificare). Da un lato occorre rifuggire da una idea naturalistica dell’apprendimento (a quel punto dove starebbe il valore aggiunto dell’istruzione a scuola, il guadagno di ciascuno rispetto al proprio punto di partenza?), ma anche dalla facile semplificazione che impoverisce la ricchezza dei processi di conoscenza a mere prestazioni comportamentali. La scelta dovrebbe essere quello di certificare le competenze (così si esprime la legge 169/08) solo dopo aver sviluppato un’adeguata elaborazione in merito all’idea di competenza, alla condivisione di criteri, alla descrizione preventiva di soglie di livello (cui commisurare il valore delle competenze), all’uso che si intende fare delle certificazioni. Sarà un inutile supplemento formale della pagella o un generoso tentativo di descrivere in positivo gli apprendimenti via via realizzati dagli allievi? L’impressione è che tutte le proposte di introdurre il tema della certificazione nella scuola (la formazione professionale fa storia a sé) siano state accompagnate da forti dosi di improvvisazione. Ad esempio, non è ancora acquisita l’idea di standard di apprendimento, che spesso sono temuti nella scuola di base come elemento selettivo od auspicati nella scuola superiore come indispensabile supporto ad una valutazione che si vorrebbe “oggettiva” o vissuta come deterrente nei confronti dei ragazzi. Ma chi definisce gli standard? Il rischio è che questo delicato processo sia commissionato ad una agenzia docimologica, ad un gruppo di esperti riuniti a Frascati (sede dell’Invalsi), piuttosto che affidata ad percorso dal basso, di costruzione condivisa, a partire dalle comunità dei docenti, dalla descrizione di processi didattici effettivi e quindi utilizzabili non solo per misurare i risultati, ma per migliorare le pratiche didattiche.
La valutazione non è solo, o soltanto un problema di voti o di
classificazione, ma richiede un preliminare strato di rilevazioni
(osservazioni, prove, lavori autentici degli allievi, test
strutturati, ecc.) che va poi adeguatamente letto e interpretato
alla luce di alcuni criteri condivisi e resi espliciti. Il fatto è
che questi criteri sono spesso contraddittori e confusi: si va
dall’apprezzamento del progresso personale dell’allievo alla
preventiva definizione di risultati attesi (soglie assolute) o alla
comparazione delle prestazioni rispetto a fasce statistiche (per
rilevare eccellenze e criticità). Ecco perché la semplice
reintroduzione del voto rischia di travolgere questa embrionale
cultura della valutazione che in Italia è appena ai primi passi. Dietro il voto Si capisce, insomma, che c’è ben altro dietro il voto: che un “6” non è –di per sé- più chiaro, oggettivo e trasparente di un “sufficiente”, se non si chiarisce cosa stiamo valutando (conoscenze, abilità, competenze…), sulla base di quali criteri (progresso dell’allievo, standard di riferimento, soglie assolute ecc.), utilizzando quali strumenti di verifica (osservazioni, prove tradizionali, prove strutturate, prodotti degli allievi ecc.). per non parlar poi della connessione con il tema della valutazione autentica (pensiamo all’occasione sprecata del portfolio), dell’autovalutazione, della descrizione degli apprendimenti, della certificazione delle competenze e del suo significato. E a monte c’è una domanda ancora più impegnativa: qual è il significato della valutazione in una scuola di base? Dovrà aiutare a distinguere meglio i risultati degli allievi o dovrà contribuire a stimolare il miglioramento continuo dei processi di apprendimento? Dovremo ripristinare le bocciature, anche nella scuola elementare e media? Oggi alle medie si boccia al 3,5%, ma indagini serie ci dicono che il 20% degli allievi non è sufficiente in discipline fondamentali come la matematica e le lingue straniere. Oppure dovremo, ancora una volta impegnarci in quel compito difficile e quasi impossibile, che è stare accanto ad ogni ragazzo per ottenere da lui il massimo e portarlo verso traguardi accettabili per farne un cittadino a pieno titolo? Ecco un bel dilemma, tra personalizzazione (che può essere rinunciataria) e standard di apprendimento (che possono apparire una costruzione artificiosa).[2]
La valutazione degli allievi è un processo delicato, che interpella
innanzi tutto chi la compie (gli insegnanti e le istituzioni
scolastiche), è una ricerca continua di un giusto equilibrio tra
promozione, cura, attenzione ai bisogni degli allievi e
valorizzazione dei loro impegni, capacità, meriti. Tutto questo sta
a fatica dentro un voto e non è certo rappresentato e descritto
dalla pura media aritmetica dei voti assegnati in corso d’anno. E’
quindi fuorviante chiedere ai docenti di estendere l’uso dei voti
numerici nell’attività quotidiana, sui quaderni, nei registri, sulle
schede, sulle prove… Dove finirebbe la nostra cultura della
valutazione? L’attenzione ai processi? La rilevanza dei contesti?
L’analisi dei “prodotti” dell’apprendimento? La ricerca continua La reintroduzione del voto, l’apparente consenso sociale di cui sembra godere, l’enfasi sulle prove e comparazioni internazionali, sono tutti indizi di un bisogno sociale diffuso di valutazione, che assume però i caratteri di uno sbrigativo ritorno alle rassicuranti pratiche del passato, e che invece dovrebbe porsi nuove questioni: - come disporre di informazioni più esplicite sui livelli di apprendimento dei nostri ragazzi, per poter intraprendere azioni di recupero e di compensazione e assicurare pari opportunità ed equità nei risultati; - come tenere sotto controllo l’insistito richiamo a comportamenti, condotta, tratti della personalità, senza andare “fuori tema” e contribuire invece alla formazione di ragazzi liberi, autonomi e responsabili); - come rinnovare il sistema delle prove d’esame (ivi compreso l’inserimento al loro interno di sequenze strutturate) e avviare la costruzione di un curriculum formativo dell’allievo (dossier, portfolio, ecc.) che favorisca pratiche autovalutive e progetti personali di formazione e sviluppo; - come arrivare a nuovi modelli nazionali di certificazione (con tutto ciò che questa operazione implica) e come aiutare le scuole a costruire ipotesi di schede per gli alunni corrette e chiare (che dovrebbero apprezzare la progressione personale degli allievi verso traguardi comuni socialmente definiti); - l’attribuzione di un significato alle nuove rilevazioni generalizzate dell’INVALSI, che ritornano dalla primavera 2009, rendendo più espliciti i frame-work sottesi ai test, il rapporto con i curricoli reali, le modalità di somministrazione, l’uso che se ne intende fare.
Da dove ricominciare? Una agenda per la valutazione per i prossimi anni dovrebbe saper guardare al di là delle contingenze e muoversi un una prospettiva di lungo termine, proponendosi alcuni obiettivi precisi: - promuovere azioni di ricerca, formazione e studio, con la diretta partecipazione degli operatori scolastici e con la collaborazione dell'Invalsi, al fine di diffondere e rafforzare una idea di valutazione orientata al miglioramento e all'armonizzazione dei risultati scolastici sull'intero territorio nazionale; - sostenere la sperimentazione della certificazione delle competenze in uscita dal primo ciclo (meglio ancora, dal biennio superiore), per elaborare una strumentazione nazionale coerente con le linee e i documenti di riferimento europei, al fine di evitare una inutile duplicazione di adempimenti burocratici e amministrativi; - promuovere la ricerca di standard di apprendimento condivisi e trasparenti, l’elaborazione di modelli e procedure uniformi, la realizzazione di un adeguato piano di formazione dei docenti per corrette pratiche docimologiche, affinchè la reintroduzione del voto non rappresenti un impoverimento di conoscenze professionali; - chiarire che la rilevazione degli apprendimenti, anche mediante prove standardizzate di carattere nazionale, è finalizzata a migliorare le pratiche di autovalutazione e valutazione, a consentire ai diretti interessati una corretta interpretazione e comparazione dei risultati raggiunti dalla scuola e dagli allievi, in termini di valore aggiunto;
- ad introdurre con gradualità la elaborazione di un «bilancio
sociale» da parte di ogni istituzione scolastica autonoma, al fine
di assicurare necessarie forme di rendicontazione sociale di
processi e risultati. Oltre il voto A livello politico si sta diffondendo la consapevolezza che un efficace sistema di valutazione è indispensabile per lo sviluppo del nostro sistema educativo. Lo dimostrano alcuni provvedimenti assunti concordemente dal Parlamento (come la legge 176 del 25 ottobre 2007, che ha introdotto la quarta prova strutturata all’interno dell’esame di terza media ed ha puntualizzato il ruolo dell’Invalsi e delle sue rilevazioni “oggettive”). Anche le indicazioni che abbiamo citato sopra sono riprese largamente da alcuni ordini del giorno approvati dal Parlamento all’atto della conversione dei pur controversi decreti-legge sulla scuola[6].
Per rinnovare la nostra cultura della valutazione, si può forse
ripartire dalle nuove (vecchie?) modalità di valutazione degli
allievi, ma per ragioni di “reciprocità” occorre aprire il sistema
valutativo a 360°, mettere sotto osservazione anche la qualità
dell’apporto delle scuole per raggiungere quei risultati, l’impegno
dei docenti e la loro professionalità, la funzione dei dirigenti
scolastici. Si può e si deve riparlare di valutazione, ma questa
azione deve poter riguardare tutti i soggetti in gioco. NOTE [1] Questo contributo rappresenta l’introduzione di un più ampio dossier sulla valutazione degli alunni, delle scuole, degli insegnanti, dei dirigenti (con contributi di Castoldi, Previtali, Ribolzi, Spinosi) che apparirà sul n. 2 (marzo-aprile 2009) di “Rivista dell’istruzione. Scuola ed autonomie locali”, Maggioli editore. [2] Queste osservazioni sono tratte dalle puntigliose osservazioni sugli ultimi provvedimenti in materia di valutazione, contenuti in Red Rom, Docimologia da Bar Sport, in www.scuolaoggi.it (dicembre 2008). [3] Direttiva Ministeriale n. 74 del 15 settembre 2008 (Linee guida triennali) e Direttiva Ministeriale n. 75 del 15 settembre 2008 (Piano di azione per l’a.s. 2008/09). [4] D.Checchi, A.Ichino, G.Vittadini, Un sistema di misurazione degli apprendimenti per la valutazione delle scuole: finalità ed aspetti metodologici, Frascati, 4 dicembre 2008 (prelevabile dal sito www.invalsi.it ). [5] Associazione TreeLLLe, Sistemi europei di valutazione della scuola a confronto, Seminario n. 10, Genova, 2008.
[6]
L’odg Aprea (firmato anche dalla minoranza) impegna il Governo: “ad
accelerare, attraverso il contributo scientifico dell'INVALSI, la
definizione dei descrittori dei livelli di apprendimento
disciplinare del primo e del secondo ciclo, nonché il profilo in
uscita atteso per ogni studente al termine di ogni singolo percorso
di studio, tenendo anche conto della disabilità e dei disturbi
specifici di apprendimento, affinché l'assegnazione dei voti,
l'attestazione dei risultati raggiunti e la certificazione delle
competenze corrispondano a conoscenze, abilità e competenze
comparabili e misurabili tra scuole e, più generalmente, a livello
nazionale”. |