Qualche domanda imbarazzante di Marina Boscaino, Pavone Risorse 11.1.2009
Due mattine
pesanti. Vacanze di Natale terminate. Ci rivediamo con la promessa
di una verifica generale in latino in prima liceo classico. Una
classe vivace e curiosa, ricca di intelligenza, educazione,
autonomia. Una verifica obbligatoria, per valutare l’entità degli
“scricchiolii” percepiti durante la prima parte dell’anno scolastico
nella classe iniziale del triennio. Per valutare il senso dei tonfi
nelle verifiche scritte, scelte tra gli autori più facili. È cessato
il tempo di esercitarsi nello sport buono per tutti i tempi: la
colpa è del professore dell’anno passato. Non è più interessante
trovare un “colpevole”. È necessario individuare delle strategie di
recupero in itinere, considerando i corsi, difficili da attivare per
la scarsità di fondi; e la loro riuscita incerta, visti i criteri –
perlomeno opinabili - di accorpamento degli alunni individuati per
formare le classi di recupero. Insomma: me la devo sbrigare da sola.
Avevamo concordato la formulazione di una frase in italiano, che
contenesse le fondamentali subordinate e i costrutti più usati, e la
relativa traduzione. Tutti, nessuno escluso, chiamati alla lavagna;
con l’uso di un dizionario e il proprio corredo di conoscenze. 4 ore
dedicate a questa liturgia penosa, lasciando da parte la
letteratura, la traduzione dei classici. Liturgia penosa perché ha
rivelato un’ignoranza nella materia ben più profonda e radicata di
quanto sospettassi: la morfologia, questa sconosciuta. Nomi
declinati in modo improbabile, desinenze invertite, disorientamento
totale davanti a domande per rispondere alle quali – dal punto di
vista grammaticale – sarebbe sufficiente una consapevole conoscenza
dell’italiano e una modesta capacità metalinguistica. È
un’esperienza non generalizzabile, ma ben più diffusa di quanto si
pensi. I corsi di recupero dello scorso anno ne sono stati la prova:
alunni delle classi terminali del classico incapaci di coniugare
verbi regolari, di riconoscere un soggetto, una perifrastica.
L’impressione che si ha, guardando i loro visi rammaricati, le facce
intelligenti mortificate, è che l’impresa sia titanica e che
tuttavia va tentata: chiederò di verbalizzare – in consiglio di
classe - lo stop al programma di letteratura per dedicarmi
interamente al recupero delle competenze grammaticali. Ma poi
interviene una riflessione più generale: riuscirò mai – nel giro di
due anni e con un programma pure da svolgere – a metterli nelle
condizioni di tradurre Tacito? Potrà, questo mio sforzo, dotarli
della strumentazione necessaria per comprendere ed apprezzare il De
rerum natura, gli elegiaci o le Satire di Orazio? Quand’anche si
arrivasse ad una capacità di orientarsi nella traduzione, questo li
metterebbe in grado di riflettere sulla scrittura degli autori, di
godere dello stile, delle peculiarità, di individuarle,
contestualizzarle, stabilire rapporti con altri scritti, con altri
scrittori, con l’opera come produzione dell’uomo in uno spazio-tempo
determinato? La risposta è no. Senza dubbio. E allora altre domande:
quale senso ha lo studio di una lingua e di una letteratura antiche
se non quello di sollecitare, oltre alle strutture cognitive,
capacità critica, competenze trasversali, visione d’insieme dei
rapporti di causa-effetto tra storia, economia, cultura, arti,
scienze, antropologia e altro ancora e il prodotto della mente
dell’artista? In una parola, ha senso un’operazione, che impiega 5
anni a svolgersi nella sua interezza, se essa non rafforza le
competenze di cittadinanza degli allievi, se non affina la loro
cultura e il loro senso della cultura? Credo di no. E lo dico con
tutte le cautele possibili. Credo che questo esercizio un po’ sadico
in cui si è trasformato in molti casi lo studio delle lingue
classiche garantisca solo la funzione sociale dei licei, la
“scrematura” un po’ classista e settaria, la “facciata” formale, ma
non la portata culturale che pure le discipline che li
caratterizzano potrebbero spiegare. Infine mi chiedo: il silenzio
degli insegnanti delle superiori, la loro mancanza di partecipazione
sostanziale alle mobilitazioni contro la Gelmini, nella convinzione
che il “problema” colpisse solo la scuola primaria; il sospiro di
sollievo tirato per il posticipo di un anno della “riforma” delle
superiori; il mancato allarme per il disegno di legge Aprea, che ben
presto trasformerà le scuole in maniera irreversibile; tutti questi
sono dati che indicano una sostanziale immaturità della classe
docente, o una colpevole mancanza di interesse. È appena il caso di
dire che l’impianto gentiliano impronta ancora di sé, a dispetto
dello scorrere dei lustri, una scuola che appare ormai
irrimediabilmente scollata dal mondo esterno: complesso, in preda a
un divenire registrato in tempo reale, contraddittorio. Il dentro e
il fuori sono luoghi definitivamente separati, la scuola non è più
una rappresentazione del mondo. L’impressione che si ha è che il
posticipo della riforma non sarà sfruttato per tentare una
elaborazione che tenti di individuare in un cambiamento dei
paradigmi espistemologici delle discipline una risposta allo
scollamento. Ma per mantenere consolatoriamente inalterato un
sistema che invece va ripensato, ridisegnato in termini
completamente opposti ai progetti del governo. Il mantenimento
dell’esistente non può essere un principio al quale informare
l’attesa che si abbatta definitivamente anche sulla scuola superiore
l’approssimazione e la dequalificazione targata Gelmini, sommata ai
tagli ormai approvati. La domanda potrebbe essere: come dovrebbe
essere se fosse ispirato alla comprensione del mondo? Come
dovrebbero essere il latino, il greco, la filosofia, la fisica per
costituire un viatico imprescindibile per la cittadinanza? |