Il valore legale del titolo di studio Ferdinando di Orio, Rettore dell'Università degli Studi dell'Aquila, 11 gennaio 2009. L'ordine del giorno presentato dalla Lega Nord e approvato ieri in Parlamento che vincola il Governo all'abolizione del valore legale del titolo di studio, non può non preoccupare fortemente tutti coloro che abbiano a cuore le sorti del sistema universitario pubblico. A maggior ragione, se rappresenta l'avvio della fase due di riforma dell'Università più volte annunciata dal Ministro Gelmini.
Una preoccupazione
che deriva sia dal merito della questione sia dalle motivazioni con
le quali e' stata affrontata che - ahimé - sono state in parte
condivise anche dall'opposizione che ha ritenuto questo punto "un
buon inizio per una riforma del sistema universitario basato sul
merito, sulla qualità dell'insegnamento e della ricerca". La sua abolizione indurrebbe, invece, una concorrenza virtuosa tra Atenei che darebbero sempre maggiore importanza alla qualità della didattica, attraendo le matricole ad iscriversi in quelli sedi universitarie che godono di maggior prestigio in tal senso. La mancanza, inoltre, della necessità del "pezzo di carta" per accedere al mercato del lavoro, implicherebbe la frequenza delle scuole e delle Università solo da parte dei ragazzi veramente motivati, con un conseguente miglioramento dell'offerta formativa. Queste motivazioni sembrano tuttavia dimenticare che l'Università italiana già compie una spietata selezione degli studenti in funzione di varabili che poco hanno a che vedere con il merito in senso stretto (si laurea l'81,4% di studenti con genitori laureati, il 59,6% con genitore diplomati, il 41,8% con genitori con la licenza media, il 30,2% con genitori con la licenza elementare) e che il nostro Paese non puo' assolutamente permettersi di continuare ad essere la cenerentola del Paesi OCSE nel numero di laureati (solo il 17% della popolazione tra i 24 e i 34 anni ha conseguito una laurea a fronte di una media OCSE del 34%). Invece di escogitare incentivi per motivare i giovani a frequentare l'Università e per aumentarne il successo negli studi universitari, si rincorrono espedienti per demotivarli ulteriormente e condannare il nostro Paese ad un inarrestabile declino culturale. Espedienti che, peraltro, hanno il vizio sostanziale di ritenere che l'abolizione del valore legale del titolo di studio possa magicamente sanare tutti i problemi e le distorsioni presenti nell'Università italiana. In realtà ciò determinerebbe esclusivamente una liberalizzazione del sistema formativo che, accompagnata dalla sua privatizzazione, comporterebbe un'esplosione di corsi privati dall'incerta qualificazione in un "mercato formativo" fatalmente influenzabile da logiche economiche. Con la conseguente necessità di istituzione di un sistema in grado di verificare la qualità dell'insegnamento di ogni sede, certificando percorsi formativi e contenuti didattici. Così un provvedimento nato per garantire il superamento di "formalismi e rigidità", comporterebbe di fatto una ulteriore burocratizzazione dei percorsi formativi e di tutta l'attività universitaria. La sostituzione del valore legale del titolo di studio con un sistema di accreditamento degli Atenei, trasformerebbe una garanzia "in uscita" verso il mondo del lavoro in un prerequisito "in ingresso" nel mondo dell'Università, con un corto-circuito logico che, classificando gli Atenei in diverse categorie di eccellenza, finirebbe per discriminare gli studenti fin dall'accesso nelle Università, con una chiara violazione sia del dettato costituzionale sia delle direttive comunitarie - recepite peraltro dal decreto legislativo 206/07 - secondo le quali i paesi membri dell'UE sono tenuti a riconoscere il valore legale di titoli e qualifiche di ciascun altro paese. In realtà il valore legale del titolo di studio rappresenta, in un sistema di generale precarizzazione del mondo lavoro, la migliore garanzia in grado di assicurare reali condizioni di uguaglianza per tutti i cittadini nell'accesso al mondo delle professioni. Il sospetto e' che il vero obiettivo non sia tanto il miglioramento della qualità della didattica e della ricerca universitarie quanto piuttosto l'ulteriore liberalizzazione proprio del mercato del lavoro." |