Bulli e fannulloni: Marina Boscaino, Pavone Risorse 4.1.2009 L’attacco frontale alla scuola pubblica è iniziato più o meno tra il 2006 e il 2007. In quel periodo – durante il governo di centro sinistra e il ministero Fioroni – i media hanno inaugurato una periodica, implacabile campagna di informazione a senso unico: quella sulla mala scuola. All’ “anno zero” del bullismo fu dato il via dai filmati dell’aggressione, diffusa su Internet, di un ragazzo autistico di 17 anni in una scuola di Torino. Da allora il binomio scuola-bullismo è stato riproposto con asfissiante puntualità, come se prima gli istituti italiani non avessero mai assistito ad episodi incresciosi. Un po’ come per la pedofilia, la cassa di risonanza dei media e l’abuso della rete hanno portato alla luce un fenomeno esistente da sempre e mai nominato. Non a caso contemporaneamente, su altro fronte, si registrò l’ondata delle reprimende degli editorialisti: il cahier de doléance di signori che – autorevoli e competenti nei propri specifici campi, comunque diversi dalla scuola – si affannavano a lanciare strali e denunce contro gli insegnanti. Suggerendo formule definitive ed intransigenti, forti del semplice fatto di aver frequentato in un tempo più o meno remoto la scuola. La punta di diamante in questo senso fu un editoriale di Pietro Ichino, che consegnava un identikit di straordinario e irrispettoso qualunquismo dell’insegnante italiano, identificato nella figura del prof. M., meridionale immigrato in un liceo di Milano, ritardatario, nullafacente, assenteista; insomma, pane per i denti di Brunetta, che non a caso usa rivolgersi ai docenti con occhio nostalgico per quella iconografia. Un’immagine che ha dato voce ad un sentire comune, che individua nella classe docente l’alfa e l’omega dei mali della nostra società: rubastipendio, privilegiati, spesso incompetenti, beneficiati da mesi di vacanza e da orari di lavoro ingiustamente leggeri. Non starò qui a confutare questi luoghi comuni; né, d’altra parte, ritengo utile o onesto cimentarsi in una difesa d’ufficio della categoria. Come ovunque, tra gli insegnanti si trova di tutto. La vera differenza – considerando la specificità di questa professione – è rappresentata dal fatto che un insegnante capace può condizionare – e quasi certamente condiziona - positivamente la crescita, l’emancipazione, l’acquisizione di competenze non solo disciplinari ma di cittadinanza dei propri allievi; un insegnante non capace ha il potere di scoraggiare definitivamente curiosità e capacità, producendo spesso danni notevoli, non solo per il singolo individuo, ma per la società intera. Alla luce di una simile, banale osservazione appare ancor più colpevole e irresponsabile una politica di (dis)informazione, tesa a generalizzare vizi fisiologici del sistema. Soprattutto se tale disinformazione interpreta il senso di un disinvestimento programmatico sulla scuola dello Stato, operato da chi quella scuola dovrebbe sostenere e potenziare. Un disinvestimento trasversale ai governi che si sono succeduti negli ultimi anni, ma che ha raggiunto da aprile ad oggi un culmine scandaloso. A cosa è servito immortalare la mala scuola con una perseveranza quasi ammirevole, ignorando programmaticamente ciò che di buono pure viene fatto? Rendere le scuole italiane il luogo dell’esercizio della logica del branco, dove il bullismo spadroneggia; luoghi in cui insegnanti giovani e belle si denudano, facendo sognare ragazzini puberi e prepuberi; dove bimbi vengono legati alla propria sedia con lo scotch da pacchi; costretti al silenzio con il taglio della lingua; dove, infine, individui sordidi ed indegni trascorrono mattinate alla cattedra leggendo il giornale? Non è certo servito ad individuare condizioni di cura, relazione educativa, interventi mirati, figure professionali alternative finalizzati a scoraggiare il sino ad allora “insospettato” fenomeno del bullismo. Non ha sicuramente dato vita ad alcun tipo di riflessione e di provvedimento sulla formazione degli insegnanti, iniziale ed in itinere; su quali debbano essere oggi le competenze di un docente, quali le sue conoscenze, quali le modalità di trasmissione, quali il riconoscimento sociale ed economico da attribuire. Questi problemi continuano ad essere sapientemente elusi: ci si limita a proporre l’immagine di un’adolescenza disagiata e disperata, di un allarme sociale perenne, di un’incompetenza atavica degli insegnanti, piuttosto che prendere atto del fatto che questi elementi – che pure ci sono – devono essere affrontati con investimenti mirati e con uno studio approfondito dell’esistente. Si sedano le spinte interventiste e la richiesta di ordine e sicurezze con provvedimenti che, rispetto alla complessità dell’oggi, appaiono persino grotteschi: grembiulino, cinque in condotta, educazione civica, la fantasiosa caccia al fannullone. Un affaccendamento inoperoso, che dà il senso apparente di un farsi carico, ma che è in realtà un movimento di facciata, volto a conquistare consensi della parte più immobile del Paese; un muoversi strumentale certamente avulso da qualunque elaborazione scientifica, sociologica, economica, pedagogica, psicologica delle cause che ingenerano i fenomeni. Dall’anno zero del bullismo e dell’insegnante fannullone, di fatto, nulla è cambiato: la scuola è identica a se stessa. Se si fosse trattato di reali emergenze e non di pretesti per giungere ad altri risultati – nella politica di risparmio ideologico sulla scuola cui i governi ci hanno abituati, nella tecnica di (dis)informazione “urlata” cui i media ci hanno costretto - qualcosa sarebbe mutato. Invece nulla. A parte il fatto che nei prossimi 3 anni ci saranno 87.000 docenti in meno. E – di conseguenza, è facile immaginarlo – molti potenziali bulli - disagiati potranno essere allontanati-dispersi dalla scuola. O comunque non saranno loro riservati alcuna attenzione, alcun ascolto, alcuna mediazione, alcun tentativo di sostegno.
C’è da essere soddisfatti, allora:
l’operazione – preparata con cura e precisione – è perfettamente
riuscita.
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