L’evoluzione (e/o involuzione)
del Tempo pieno
Gianni Gandola e Federico Niccoli, da
ScuolaOggi
16.1.2009
Non si può dire che sono mancate in
questi anni le riflessioni sul modello scolastico del Tempo pieno.
Pensiamo non soltanto ad alcuni interventi nostri o di altri (D’Avolio,
Stefanel, ecc.) su questo giornale, ma anche ad esempio ad alcuni
contributi critici di particolare interesse di Giancarlo Cerini (*).
Il tema “quale tempo pieno” torna di attualità nel momento in
cui questo modello pedagogico è messo in discussione e si prospetta
un diverso scenario, quello del ritorno al maestro unico o, al
massimo, della scuola “fino a 40 ore”, modello qualitativamente
diverso.
Senza la pretesa di fare una ricostruzione storica dettagliata del
Tempo pieno, dal 1971 ad oggi, è nostra intenzione sottolineare qui
– nello spazio di un articolo – alcuni passaggi importanti e
riproporre all’attenzione alcune questioni che riteniamo attuali,
procedendo per punti, in maniera necessariamente sintetica.
Quali sono stati gli aspetti innovativi e di qualità
dell’esperienza della scuola a Tempo pieno.
Innanzi tutto riteniamo che, ai fini di
una riflessione critica sull’evoluzione del Tempo pieno (nel nostro
paese o, quantomeno, in provincia di Milano), non si possa
prescindere dal “contesto”.
In altre parole, non bisogna dimenticare che il Tempo pieno ha
origine in un periodo nel quale la scuola elementare italiana è
contrassegnata da un insegnamento fortemente tradizionale,
nozionistico (lezione frontale-interrogazione), con contenuti
dettati rigidamente dall’alto (programmi del 1955). E’ l’epoca,
appunto, del maestro unico, con tutto l’armamentario dei voti, della
pagella, del grembiule e della scuola del mattino che qualcuno
rimpiange oggi. E’ in questo contesto – e indubbiamente sulla scia
degli stimoli provenienti dall’esperienza di Barbiana – che si pone
il problema di un diverso modo di insegnare, cooperativo e non più
individualistico, e fondato su una didattica attiva, laboratoriale e
non più su metodi trasmissivi e ripetitivi del sapere.
E’ qui dunque che prende corpo l’idea del gruppo docente, del team
teaching, della “contitolarità” intesa come condivisione delle
responsabilità educative, come programmazione collegiale delle
attività. E quindi il delinearsi di un tempo scuola unitario,
fondato su una successione organica e unitaria di momenti educativi
all’interno della giornata scolastica. Questo, in due parole, è il
tratto saliente delle nuove esperienze di Tempo pieno, delle
sperimentazioni avviate a partire dagli anni ’70. Per rendersi conto
di quanto pregnante fosse questo aspetto - un “nuovo modo di fare
scuola” basato sul “lavorare insieme”, sulla cooperazione educativa
- basta andare a rileggersi “Rho II tempo pieno” di Silvano
Federici o qualche altro testo analogo (Adro, Spilamberto, ecc.)
relativo a quel periodo.
Quali condizioni resero possibili le sperimentazioni di Tempo
pieno
Sempre per non perdere di vista il
contesto storico entro il quale quelle innovazioni presero corpo, è
indispensabile considerare alcuni elementi che le connotarono
fortemente. Ne indichiamo alcuni, sommariamente:
- la “motivazione” dei docenti. Gli insegnanti che
intrapresero le esperienze di TP negli anni ’70 e ’80 erano
fortemente motivati, consapevoli del fatto che stavano facendo
qualcosa di innovativo sul piano didattico e culturale e, in genere,
professionalmente preparati. Una grande disponibilità alla ricerca
educativa dunque e al “lavorare insieme” per cambiare la scuola
italiana in senso didatticamente avanzato e progressista, accanto ad
una forte tensione ideale
- l’istituto del “comando”. Per lavorare in una classe
a tempo pieno i docenti dovevano fare una richiesta specifica di
assegnazione (e il direttore didattico doveva esprimere parere
favorevole). Si trattava dunque di un organico, quello degli
insegnanti del TP, non solo motivato ma anche “selezionato”, in un
certo senso “scelto”
- l’orario dei docenti della scuola elementare era di
24 ore (di lezione) settimanali e questo comportava il fatto non
trascurabile che quattro giorni su cinque i docenti venivano a
trovarsi in compresenza per due ore. Questo consentiva l’attuazione
sistematica di gruppi di recupero, gruppi di ricerca,
attività di laboratorio, attività creativo-espressive quasi tutti
i giorni della settimana.
- la programmazione didattica. Alla programmazione
(sia d’inizio anno che settimanale che di fine anno) veniva dedicato
un tempo adeguato e rilevante. Erano previste all’epoca 20 ore
mensili di attività collegiali. Il sindacalese, poi, in un’ottica
malauguratamente riduzionistica degli impegni orari dei docenti
trasformò le 20 ore mensili in 80 ore annue, ridusse il tempo-scuola
settimanale del docente da 24 a 22 ore e derubricò la
formazione/aggiornamento da obbligatoria a sostanzialmente
facoltativa. La programmazione didattica, nelle sue varie forme (del
gruppo docente interclasse, dei docenti di area disciplinare,
circolare di tutti i docenti del TP), costituiva un momento
decisivo, estremamente importante, per la definizione dei curricoli
e quindi delle attività didattiche del TP.
- infine, ultimo ma non meno importante, il Progetto di Tempo
pieno. Per poter attivare classi a tempo pieno le scuole
dovevano presentare un progetto educativo, elaborato e condiviso
dagli organi collegiali, che veniva vagliato (e verificato,
annualmente) dagli ispettori tecnici. Questa era una delle
condizioni per poter avere il “doppio organico” necessario, oltre
naturalmente alla richiesta delle famiglie.
Quali mutamenti sono avvenuti (a partire dagli anni ’90)
E’ indubbio che il Tempo pieno ha subito
una forte trasformazione, in particolare – paradossalmente –
proprio nel momento in cui è stato per così dire “legittimato”, cioè
formalmente riconosciuto come scuola non più sperimentale, dalla
legge 148 del 1990. Il tempo pieno diviene, accanto al modello
previsto dalla legge di riforma (i moduli didattici), l’altro
modello organizzativo possibile della scuola primaria in Italia. Di
fatto in maniera non diffusa territorialmente ma concentrata in
alcune città o regioni, in prevalenza al Nord.
L’aumento della richiesta sociale del modello a tempo pieno ne ha
determinato una espansione ma, come ha osservato Cerini “i grandi
numeri portano quasi ad un effetto di burocratizzazione
dell’esperienza”. Sul piano strutturale,
segnaliamo alcuni elementi di cambiamento all’interno del modello
del tempo pieno, avvenuti in quegli anni.
- ingresso massiccio di molti insegnanti del tempo normale (superato
dalla legge 148/90 e in via di esaurimento) nelle classi a TP. Molti
“maestri unici” delle classi a 24 ore, con una impostazione
didattica fortemente tradizionale, entrano di fatto nelle classi a
TP, senza particolari motivazioni pedagogiche, interesse per
l’innovazione né “formazione in ingresso”
- a seguito dei nuovi accordi contrattuali l’orario di servizio dei
docenti passa da 24 ore (di lezione) a 22 (ore di lezione)+2 (ore di
programmazione) e in questo modo si dimezzano le ore di compresenza
settimanale (da otto a quattro), con inevitabile ricaduta sulle
attività didattiche per gruppi classe
- la programmazione didattica viene fissata (e circoscritta)
nell’ambito delle 2 ore settimanali. In qualche modo codificata e di
fatto ridotta rispetto alla fase precedente, di maggiore
disponibilità da parte dei docenti del TP.
Questi tre elementi considerati insieme portano ad un indebolimento
del team docente, di quel gruppo di insegnanti che nella fase
sperimentale del TP era indubbiamente più affiatato e motivato.
Tempo pieno o tempo normale lungo?
E infatti è da qui che cominciano a
vedersi alcuni segnali di crisi e di involuzione del modello,
segnali che alcuni critici del TP non hanno mancato di far notare
(in buona parte a ragione..)
- il prevalere della “coppia “ sul “gruppo docente”. In alcuni casi
le classi aperte (intese come attività che coinvolgono gruppi di
alunni delle classi parallele) non vengono più effettuate. I due
docenti contitolari gestiscono unicamente la propria classe (in
questo senso “chiusa”) e in alcuni casi non la suddividono neanche
più per gruppi di alunni. In pratica si afferma in questi casi
quello che già diversi anni fa Raffaele Iosa aveva definito il
“tempo normale lungo”. La differenza infatti è il tempo scuola e
il fatto che vi sono due docenti invece che uno, ma la sostanza è
quasi la stessa. Peggio ancora quando i due docenti contitolari non
trovano un accordo, sul piano didattico e professionale, e si
limitano ad alternarsi nella classe.
- di conseguenza, in diversi casi le compresenze non vengono più
utilizzate per svolgere attività per gruppi di alunni, attività di
recupero o di laboratorio (spesso vengono poi utilizzate per
supplenze in altre classi…)
- la programmazione è “debole”, non unitaria e vincolante per
l’intero gruppo docente delle classi parallele. Si riduce talvolta
ad un superficiale scambio di opinioni, pallido simulacro di una
rigorosa programmazione didattica di team. Poi ciascuno va per conto
suo, nell’ambito di una malintesa “libertà di insegnamento” non
soggetta a regole e a patti educativi condivisi.
E’ bene riconoscere che in non poche realtà di tempo pieno,
questo succede. Non sono solo gli attuali critici del tempo
pieno a rimarcare questi aspetti. Non c’è bisogno che vengano a
raccontarceli i detrattori di sempre di ogni innovazione pedagogica.
Li conosciamo bene e da tempo li abbiamo evidenziati. Così come è
indispensabile riconoscere che in molte altre situazioni non è così,
grazie all’impegno e alla passione educativa di tante maestre che in
un progetto didattico continuano a credere. Non è corretto infatti
fare di ogni erba un fascio. Non a caso abbiamo titolato alcuni
precedenti articoli “Tempo pieno: distinguere il grano dal
loglio”, “Fare il tagliando al tempo pieno” e via dicendo.. Come
pure occorre riconoscere che in molti casi anche la “coppia” (i due
docenti contitolari) ha saputo “aprirsi” e far gruppo con i docenti
delle classi parallele, funzionando bene nella condivisione della
conduzione educativa delle classi.
Il Tempo pieno e le 40 ore di scuola
Ora è evidente che il modello (prima
morattiano poi gelminiano) delle 40 ore di scuola fa piazza pulita
di tutte queste problematiche. Abbiamo scritto fiumi di parole per
sottolineare la differenza tra le “40 ore” e il tempo pieno per
ripeterci oltre. Ci limitiamo a dire che l’annunciata
soppressione delle compresenze finisce per risolvere alla
radice il problema e che siamo di fronte a modelli pedagogici
radicalmente diversi, alternativi. Anche perché uno assomiglia
sempre più a un doposcuola vecchio tipo (un insegnante al mattino,
l’altro al pomeriggio). Ma l’altro? Perché a questo punto una
domanda è d’obbligo.
Quale Tempo pieno vogliamo noi e che
cosa è proponibile oggi?
Non ci sentiamo affatto come quei
soldati giapponesi che continuavano a combattere, ignari, a guerra
conclusa. Anche perché la guerra non è conclusa e la “messa” non è
finita. Sappiamo perfettamente che le esperienze di tempo pieno
degli anni ’70 e ’80 sono datate e probabilmente irripetibili, dato
il contesto, ecc. Né è nostra intenzione riproporre sic et
sempliciter quei modelli organizzativi. Riteniamo però che
sarebbe stupido, oltre che profondamente sbagliato sul piano
pedagogico, gettare con l’acqua sporca anche il bambino. Oppure non
tenere nella giusta considerazione quelli che sono stati gli aspetti
innovativi di un’esperienza educativa che si è protratta a lungo nel
tempo con esiti altamente positivi. Indichiamo pertanto alcuni punti
rilevanti, alcuni “valori” che riteniamo particolarmente
significativi e attuali:
a) il modello pedagogico del team teaching. Il
“lavorare in gruppo” ha costituito un valore aggiunto nel panorama
del nostro sistema di istruzione. A cosa altro sono dovuti i
risultati di eccellenza ottenuti dalla scuola primaria rispetto ad
altri ordini di scuola, secondo anche le più recenti indagini
internazionali, se non a questo fattore, a questo “surplus”
didattico-organizzativo?
b) un organico funzionale tale da consentire attività
per gruppi classe di alunni, quindi la possibilità di ore di
compresenza dei docenti. Solo questo permette forme di
insegnamento individualizzate, per gruppi di alunni, attività
laboratoriali, ecc. In questo senso, questa è una conditio sine
qua non per una differenziazione della didattica e per offrire
maggiori opportunità formative agli alunni
c) un Progetto educativo di scuola. Quello che una
volta si chiamava “Progetto di tempo pieno”. In esso debbono essere
ribaditi i cardini pedagogici e metodologico-didattici dell’impianto
formativo:
- la pluralità delle figure educative: assoluta parità degli
insegnanti con alternanza di ruoli e di orari
- il rispetto dei ritmi di apprendimento dei bambini in tempi
distesi, che presuppone e postula l'assoluta unità didattica
mattino/pomeriggio con articolazione della giornata senza
subordinazioni gerarchiche tra le attività da svolgere al mattino o
al pomeriggio, con riconoscimento della piena e paritaria valenza
formativa delle educazioni, con il "pranzo insieme"
- solo in una giornata di 8 ore i bambini hanno la
possibilità di alternare momenti di massima concentrazione a momenti
di libertà espressiva nel pieno rispetto dei loro ritmi di
attenzione/concentrazione . Il tempo disteso assume in modo
intenzionale, deliberato e controllato il significato strategico di
risorsa formativa
- utilizzare la diversità come risorsa e differenziare la
proposta formativa rendendola proporzionale alle difficoltà
e alle esigenze di ciascuno: a tutti gli alunni deve essere offerta
la possibilità di sviluppare al meglio le proprie potenzialità
- valorizzare le molteplici risorse esistenti sul
territorio (genitori, enti locali, associazioni culturali e
professionali, società sportive, gruppi di volontariato, ecc.) allo
scopo di realizzare un progetto educativo ricco e articolato
affinché l'offerta formativa della scuola non si limiti alle sole
attività curricolari e assuma un più ampio ruolo di promozione
culturale e sociale
d) la flessibilità organizzativa. Infine, insieme alla
necessità di eliminare le situazioni patologiche del modello, anche
nelle situazioni fisiologiche bisogna fare uno sforzo per introdurre
tutti quegli elementi di flessibilità (“la flessibilità buona”)
che l’autonomia delle istituzioni scolastiche esigerebbe, ma che non
sono costume quotidiano della stragrande maggioranza delle scuole
italiane, anche nei casi in cui abbiamo avuto organici di base
docenti più compresenze più contemporaneità. Se vogliamo mantenere
gli organici che giustamente reclamiamo, dobbiamo utilizzare una o
più delle ipotesi di flessibilità previste dal regolamento
sull’autonomia:
- l'articolazione modulare del monte ore annuale di ciascuna
disciplina e attività;
- la definizione di unità di insegnamento non coincidenti con
l'unità oraria della lezione e l'utilizzazione, nell'ambito del
curricolo obbligatorio, degli spazi orari residui;
- l'attivazione di percorsi didattici individualizzati, nel rispetto
del principio generale dell'integrazione degli alunni nella classe e
nel gruppo, anche in relazione agli alunni in situazione di handicap
secondo quanto previsto dalla legge 5 febbraio 1992, n. 104;
- l'articolazione modulare di gruppi di alunni provenienti dalla
stessa o da diverse classi o da diversi anni di corso;
- L’impiego dei docenti con modalità organizzative coerenti con il
Piano dell’Offerta Formativa
- L’organizzazione dell’orario complessivo del curricolo e delle
singole discipline anche su base plurisettimanale.
Se, invece, non ci sporchiamo le mani seriamente con questi
esemplari paradigmi di qualità del servizio scolastico, saremo
costretti a fare i conti con la flessibilità cattiva,
che tenta di predeterminare centralmente il Miur
- con una organizzazione a compartimenti-stagno tra attività
obbligatorie, attività facoltative ed
attività aggiuntive
- con una gerarchia tra docenti addetti alle varie attività
- con una sorta di curatore dell’attività didattica (il
maestro unico e/o prevalente) ,
E’ esattamente da qui che la discussione sul tempo pieno deve
ripartire, al di là della “quantità” oraria. Tutto sommato, a noi
interessa poco difendere un tempo scuola lungo (il problema, visto
sotto il profilo assistenziale, può riguardare al massimo i
genitori) se non è riempito da contenuti significativi sul
piano didattico-organizzativo. Anzi, un tempo scuola lungo
privo di stimoli culturali e didattici rischia di diventare
oppressivo, noioso, controproducente per gli stessi alunni e la loro
formazione. A noi piuttosto sta a cuore continuare a ragionare su un
modello pedagogico qualitativamente più avanzato delle nostalgie
tremontiane di “ritorno al passato” (un insegnante, una classe, 24
ore). Perché questo ritorno al passato altro non sarebbe che una
scuola pubblica misera, impoverita di risorse e di opportunità
formative per gli alunni, assolutamente inadeguata. A questo non
possiamo rassegnarci.
Ritroviamo tutti l’entusiasmo del bel tempo che fu (in fondo,
paradossalmente, la Moratti prima e la Gelmini poi ci hanno fatto
l’enorme piacere di farci incontrare nuovamente migliaia di genitori
ed insegnanti “di lotta e di governo”) ed identifichiamoci nei
piloti pazzi del “Comma 22” (“chi è pazzo può chiedere di essere
esentato dalle missioni di guerra, ma chi chiede di essere esentato
non è pazzo”).
Torniamo ad essere quei pazzi-non pazzi che hanno rivoluzionato, a
suo tempo, la vecchia scuola ossificata ed inventiamoci un modello
più forte di Tempo pieno, in grado di resistere agli attacchi del
“futuro ricco di passato” del modello Tremonti-Gelmini.
(*) Nota
vedi in particolare gli scritti di Giancarlo Cerini “Mitico (?!)
Tempo pieno” su Edscuola, sezione Riforme e “Idee di tempo, idee di
scuola”, Tecnodid.