Nicola è un ricercatore e fa il monitoraggio dei terremoti
nell'Istituto di geofisica di Bologna A maggio gli scade il quarto
contratto a termine consecutivo e non potrà essere assunto

 "Dodici anni in bilico
nel Rischiatutto della mia università"

"Ero pronto a fare l'uomo delle pulizie. Ma non ci sono più neanche quei posti"
"Il vero ammortizzatore sociale dell'Italia atipica sono i genitori"

Michele Smargiassi, la Repubblica 11.2.2009

BOLOGNA
Se la Turchia si muove, se l'Africa si avvicina all'Europa anche solo di un millimetro, Nicola Cenni si mette al computer e dopo un po' riesce a dirti se, poniamo, sull'Appennino pistoiese è cresciuto il rischio tellurico. Questo fanno i geofisici come lui. Ma quali terremoti siano in agguato, il cielo non voglia, nel suo futuro prossimo di precario intellettuale, questo non è in grado di prevederlo. Ora meno che mai. «In questi dodici anni mi ha sempre sorretto un pensiero. Se mi va proprio male, avrò fatto una bella esperienza, avrò studiato cose interessanti con persone gradevoli: vorrà dire che andrò a fare l'uomo delle pulizie. Di fame non muoio di certo. E problemi di autostima non ne ho. Questo pensiero è stato il mio vero, privato ?ammortizzatore sociale'. Ma da qualche mese mi guardo attorno e vedo che non assumono più neanche gli addetti alle pulizie. Adesso mi sento davvero senza paracadute».

I geofisici non sono persone scaramantiche. Sulla sua scrivania, nella vecchia palazzina dell'Istituto di geofisica dell'Università di Bologna, ha appeso un calendario con le foto del terrificante sisma di Messina del 1908. Il catastrofico è nel loro orizzonte. Lavorano per limitarne i danni. Nicola, in particolare, gestisce una rete di rilevatori sul crinale tosco-emiliano: col sistema Gps, ma con apparecchi un po' più sofisticati dei nostri navigatori da macchina, sorveglia ogni giorno i loro microscopici spostamenti tettonici. Informazioni essenziali per tracciare le mappe delle aree a rischio. Ogni tanto deve fare il giro per controllarli di persona. «Ma non posso usare l'auto del dipartimento, perché sono un precario e non sono assicurato». Nicola è assegnista di ricerca. Significa: ricercatore a tempo, contratto rinnovato ogni anno. Ma non infinitamente. Quattro consecutivi al massimo. Il suo quarto scade appunto a maggio. E Nicola deve cercarsi un altro posto se vuole lavorare. Forse ce l'ha già: all'università di Siena, dove cominciò come borsista, lo stimano, si sente in buona posizione per vincere il concorso. «Devo fare un concorso per continuare a fare quello che sto facendo da anni». Così è la vita del precario. È un lavoro "a progetto", no? E i progetti hanno una fine, l'ha detto chiaro il ministro Brunetta. «Ma i movimenti tettonici mica finiscono. Qualcuno prenderà il mio posto. Qualcuno da formare daccapo, da inserire in un'équipe. Non è un'assurdità ricominciare ogni anno, buttare via le esperienze maturate, le competenze accumulate?».

Ma a questa giostra i precari sono ormai rassegnati. Il guaio arriva quando la giostra si ferma. Siena è uno degli atenei scritti sulla lavagna dei "cattivi", quanto a gestione finanziaria, dunque Nicola non sa ancora se ci saranno i soldi, se il concorso si farà e quando. Dal prossimo giugno, la sua agenda è vuota. E anche la sua busta paga. Solo che, a 39 anni, Nicola ha nel frattempo deciso che non si poteva più aspettare a fare un figlio. Sette mesi fa è arrivata Diana. Fabiana, sua moglie, lavora anche lei nel sismico: all'Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia. Fa le stesse cose pagata da un ente diverso. «Di solito lavora in questa scrivania qui, ma adesso è di là in assemblea». È messa maluccio anche lei, quanto a certezze: con la legge salva-precari del governo Prodi ha fatto il concorso di conferma e l'ha vinto, peccato che abbia vinto una carta bianca, perché l'Infv non ha posti in pianta organica, «così è diventata una precaria a tempo indeterminato», e se a giugno di posti non se ne liberano, secondo le circolari Brunetta, non solo non vince il contratto pieno, perde anche quello precario. «È il Rischiatutto. Anzi peggio, perché almeno lì se davi la risposta giusta a Mike, vincevi. Qui il merito non conta, anche se dai tutte le risposte giuste puoi perdere tutto».

Una famiglia italiana sull'orlo. Come milioni. Non in crisi, perché ora le cose vanno. Nicola prende 1229 euro al mese, «ma apparenti: se divido per 12 il mio netto sul Cud, viene meno di mille euro. E da gennaio mi hanno tagliato 15 euro, chissà perché». Comunque assieme allo stipendio di Fabiana fanno quasi 2.700 mensili. Più la fortuna di non avere affitti né mutui da pagare, «la casa ce l'hanno comprata i consuoceri». Il vero ammortizzatore sociale dell'Italia atipica: i genitori. «Papà ha 70 anni ma lavora ancora, lo fa per permettere a me di lavorare». Vacanze in Sardegna dai genitori di lei, niente spese pazze, ma comunque si vive e ne rimane anche da mettere ogni mese nel libretto della Coop vincolato a nome di Diana, «per la sua laurea, soldi che non si toccano mai». Ma se a giugno il vento gira male? «C'è la cassa integrazione». Ma non ne avete diritto. Ride: «Mica quella vera. La nostra, familiare. Abbiamo un po' di fieno in cascina. Sul conto corrente bancario, voglio dire. Abbiamo calcolato, ci basta per vivere sei mesi». Poi qualcosa si troverà. È la vita da Tarzan dei precari, si salta da una liana all'altra. Se si è in due, si spera che mentre uno salta nel vuoto, l'altro sia saldamente aggrappato. Ma è proprio questa la relativa certezza che è sempre meno certa.

Nicola è nato in un'Italia diversa. «Il 6 luglio ?88 diedi l'orale della maturità. Il 20 luglio il mio primo colloquio di lavoro. Azienda privata, tempo indeterminato. Dissi di no: volevo studiare». Andò in vacanza con gli amici, sull'Etna, ovviamente. «Nel ?96 mi sono laureato, con 110. Mandai il curriculum: quell'azienda era ancora disposta a prendermi. Io però volli provare a entrare nella carriera universitaria. Vinsi subito una borsa di studio per il dottorato, poi la catena degli incarichi a termine. Adesso quel posto di lavoro non c'è più. Di sicuro non per me: mi considerano già troppo vecchio». Curioso: per l'università è troppo giovane. «L'ultimo ricercatore qui è stato assunto dieci anni fa. Si favoleggia di un imminente concorso per un posto, uno solo. Lo farò, ma ho davanti almeno dieci colleghi con più anzianità di me». L'università è una gerontocrazia che si regge su un'invisibile piattaforma di ragazzi che invecchiano in lista d'attesa.

Ma è un'università spendacciona, baronale, sprecona. Va "ripulita", raddrizzata a colpi di forbice, così il governo. Nicola ride: «Sa cosa faccio quando ho tempo? Smonto i computer rotti, prima che vadano buttati. Non si potrebbe, ma così salvo i pezzi di ricambio, schede, eccetera, quando se ne rompe un altro lo riparo, e si risparmia. Virtuoso, vero? Ma non serve a niente fare le formichine. Quel che non spendi del budget attrezzature non puoi usarlo, che so, per fare un contratto in più. Torna indietro. Lo spenderà chi è meno virtuoso. Non c'è incentivo alla buona gestione. L'unico taglio facile siamo noi». A Bologna i ricercatori precari sono già più del 38 per cento del corpo docente: 1214 su 3184. Sono anche quelli che lavorano spesso gratis: «Se vuoi costruire curriculum e pubblicare, devi accettare incarichi esterni che però non ti possono retribuire, è vietato dal contratto. Per due anni ho insegnato informatica a Farmacia, sede di Imola. Per 500 euro netti l'anno. Spese a mio carico. Per fortuna ho un'auto a gpl». Quelli che se li tagli nessuno se ne accorge. «Chiude una fabbrica con cinquanta operai e voi fate i titoli sul giornale. Scadono senza rinnovo cinquanta contratti di ricerca e state zitti. Capisco: io non sarò mai ufficialmente "licenziato", non andrò in cassa integrazione. Noi precari non siamo neppure un indice di crisi». Pensa mai al suo futuro a medio termine, Nicola? «Non so se farò tutta la vita questo lavoro. Sono disposto ad adattarmi. Ma ci saranno alternative? Ci saranno posti di lavoro per chi come me è un giovane troppo vecchio? Le ho detto che non m'importa di scendere nella scala sociale. Ma temo che stiano demolendo i gradini».