Fenomeni Pubblico di seguito il mio contributo al Dodecalogo, il Libro di cui si occupa Stefano Borgarelli nella sua recensione che abbiamo ripreso da Professione Docente. L'intervento non ha ovviamente il taglio delle pubblicazioni web, è piuttosto lungo e consigliamo di stamparlo per leggerlo in tutta comodità. Gianfranco Giovannone, DocentINclasse 15.2.2009 Nessuno può servire due padroni; perché o odierà l'uno e amerà l'altro, o avrà riguardo per l'uno e disprezzo per l'altro. Voi non potete servire Dio e Mammona, Matteo 6:24. Avevo pensato di titolare il mio contributo “Fenomenologia dell’insegnante medio”, ma poi mi sono reso conto che “fenomeni” sintetizzava perfettamente l’immagine dell’insegnante che mi ero fatta mentre scrivevo Perché non sarò mai un insegnante e soprattutto dopo, andando in giro a presentarlo per l’Italia. Del resto, il senso figurato e popolare del termine descrive perfettamente i miei contrastanti sentimenti nei confronti di una figura sociale o forse sarebbe meglio dire di un tipologia antropologica della quale , se pure con un senso di inquietudine e disagio sempre crescenti, anch’io faccio parte: “Oggetto di meraviglia e di ammirazione (spesso con una sfumatura di compiacimento o benevola ironia)”. Per intenderci: se Cesare Previti, Lele Mora e l’ormai dimenticato Mario Chiesa occupano una delle due polarità gli insegnanti, come le Dame di san Vincenzo o i volontari di Emergency , si piazzano sicuramente nella polarità opposta. Sembra un gran complimento, ma non lo è. Non nel nostro paese, almeno, non nell’Italia cinica e arraffona dei nostri giorni, o forse di sempre, con buona pace di Beppe Grillo e della immacolata ma fantomatica Società civile. Perché l’incredibile galleria di furbi, furbetti e mascalzoni dei film di Alberto Sordi non era solo un affresco incredibilmente efficace dell’Italia del dopoguerra, basterebbe ripercorrere la cronache del sottobosco politico-affaristico degli ultimi vent’anni per rendersi conto che ancora oggi sarebbe Albertone l’interprete più efficace dell’italiano medio, e non Carlo Verdone, la sua versione edulcorata e buonista. E se qualcosa è cambiato è cambiato in peggio, l’Italia contemporanea è solo più cinica e ignorante, più arrogante e volgare di quella dei film di Alberto Sordi. Pensate alle intercettazioni telefoniche di Ricucci o di Moggi, esempi mirabili di commedia all’italiana contemporanea. Nel film I nuovi mostri un uomo qualunque mangia e guarda la tv, lasciando che un uomo muoia sul marciapiede, un nuovo ricco si sbarazza della madre chiudendola in un ospizio, due genitori permettono alla figlia minorenne di interpretare un film porno per quattro milioni. Episodi che allora, alla fine degli anni settanta, potevano ancora far ridere perché grotteschi, esagerati, larger than life. Oggi che mamme rampanti e sgomitanti farebbero di tutto e farebbero fare alle loro figlie di tutto per far loro avere il ruolo in una soap o per diventare velina o letterina farebbero ancora ridere?Oggi che le veline diventano ministri della Repubblica e bellone coinvolte in commerci squallidi capitalizzano lo scandalo occhieggiando dai manifesti pubblicitari di biancheria intima dicendo sì, sono proprio io, quella della tresca col portaborse?Quello che è nuovo nelle vicende di un Fabrizio Corona o di Elisabetta Gregoraci non è quello che hanno fatto ma la spregiudicatezza con cui hanno saputo trarre vantaggio degli scandali che li hanno coinvolti, non diversamente da quanto hanno fatto altri personaggi non solo dello spettacolo, ma anche dello sport, degli affari e dalla politica. Lo scandalo paga, forse è sempre stato così, ma oggi è diventata una regola che quasi non ammette eccezioni. E sarebbe illusorio pensare che tutto quello che accade sull’olimpo del successo e della celebrità non abbia conseguenze per la società nel suo insieme. Ogni volta infatti l’asticella che divide ciò che è lecito da ciò che è illecito, ciò che è morale da ciò che è immorale viene spostata un po’ più in alto, e non c’è bisogno di evocare la società liquida di Bauman, per affermare che viviamo tutti in un universo etico estremamente instabile e incerto, in cui siamo costretti direi quotidianamente a ridefinire i nostri sistemi valoriali. Si prenda l’esempio del fenomeno conosciuto con il nome di mani pulite: un gruppo di magistrati svegli e determinati scopre quasi per caso un sistema di corruzione politico- affaristico complesso e ramificato che ha per epicentro Milano. Giorno dopo giorno i cittadini italiani vedono allargarsi spaventosamente l’entità del fenomeno ma il senso comune, allora ancora capace di scandalizzarsi e di indignarsi, suggerisce che se vi fossero stati a Palermo e a Napoli, ma anche a Firenze e a Perugia magistrati altrettanto determinati avrebbero scoperto una rete di corruzione non dissimile da quella emersa a Milano e dintorni. Tutti conosciamo persone che forniscono merci o servizi per gli enti pubblici e tutti sappiamo che per avere gli appalti,a qualsiasi livello, occorre placare l’avidità di politici e portaborse. Quindi la domanda vera che molti si sono fatta ai tempi di tangentopoli è stata : perché solo a Milano? La cosiddetta seconda Repubblica è nata sulle ceneri di tangentopoli ma ad un certo punto è iniziata una campagna ossessiva tesa a riabilitare i politici corrotti e a far passare i magistrati per torturatori e carnefici, tanto che anche la stampa indipendente ha cominciato ad usare con incredibile disinvoltura il termine “giustizialismo” e impercettibilmente, giorno dopo giorno anche il senso comune ha cominciato a considerare quella di mani pulite una stagione di eccessi e persecuzioni esecrabili. E, a stare ai sondaggi, per oltre metà degli italiani è stata questa la narrazione che ha prevalso, con conseguenze devastanti sulla fibra morale del nostro paese. Il così fan tutte di Bettino Craxi in parlamento, la rivendicazione sfacciata della corruzione politica con la chiamata di correo di tutta la classe politica italiana è diventata la parola d’ordine di una parte non minoritaria degli italiani, quelli che , è stato detto con efficace metafora, parcheggiano in doppia fila. Quelli che deturpano il paesaggio con l’abusivismo edilizio, che evadono in massa le tasse, che invadono le nostre città con l’arroganza ostentata e inquinante dei SUV. La scuola non sa più trasmettere valori scrivono di tanto in tanto opinionisti come Umberto Galimberti o Ernesto Galli della Loggia, come se fossimo ancora nell’ottocento vittoriano o nell’immediato dopoguerra in cui esisteva una solida cornice di valori condivisi e i comportamenti devianti costituivano un’ eccezione stigmatizzata dall’opinione pubblica nel suo insieme. Se nel 1929, quando Freud pubblicava Il disagio della civiltà, il problema poteva ancora essere il prevalere del principio di realtà su quello del piacere, con un superego invasivo e soffocante, fonte di ogni tipo di nevrosi, oggi il problema è esattamente opposto: oggi, nell’epoca della deregulation, il principio del piacere domina incontrastato. Come scrive Bauman, "la libertà individuale regna sovrana; è il valore in base al quale ogni altro valore deve essere valutato e la misura con cui la saggezza di ogni norma e decisione sovra-individuale va confrontata". Del resto non è neppure una novità, già Max Weber parlava di “politeismo di valori”, figuriamoci oggi, oggi che le gerarchie assiologiche diventano obsolete prima ancora di imporsi compiutamente. Far finta che non sia così, immaginare che vi sia un sistema di valori condivisi che l’insegnante dovrebbe solo trasmettere significa far finta che viviamo ancora ai tempi di De Amicis e non in quelli di You Tube. Ma a differenza di quelli che fanno loro le prediche spesso razzolando malissimo – per esempio ricorrendo a mezzi illeciti e truffaldini per conseguire a tutti i costi il successo editoriale o accademico - gli insegnanti non fanno finta, ci credono davvero. Purtroppo.
Qualche collega, ogni tanto, si fa palpeggiare il sedere dai ragazzini
delle medie. Qualcun'altra se li porta addirittura a letto. Altre
permettono o organizzano gare per stabilire quali tra gli alunni ce
l’abbiano più lungo. E poi c’è quello che fa il saluto fascista e si
masturba in classe (in momenti diversi, immaginiamo). E quello che
fuma lo spinello in classe o forse era solo una sigaretta. Chissà. E
qualche volta, senza che gli episodi finiscano su You Tube, succede
anche di peggio. Ma tutto questo non intacca la mia convinzione che
l’insegnante medio si caratterizzi per una forte – e desueta,
isolatissima , singolare – impronta etica. “Avendo un livello di reddito inferiore a quello di altre categorie della classe media, gli insegnanti riescono ancora a distinguersi e a difendersi con il livello di istruzione. E’ per questo che…essi contrappongono la cultura alla ricchezza, lo “spirito” alla “materia”. Ma il processo di estensione dell’istruzione alle classi sociali inferiori minaccia di togliere anche quest’ultima arma, anche quest’ultima caratteristica distintiva”.
“Il nostro prestigio è diminuito per motivi economici. Oggi si valuta tutto con il metro della ricchezza. Che poi è una ricchezza apparente, perché quello che conta è la ricchezza spirituale”.
“Il prestigio dell’insegnante è diminuito perché forse per l’opinione pubblica i valori più importanti non sono l’intelligenza e la cultura e noi che facciamo parte di quel mondo siamo un po’ isolati”. “Il nostro prestigio è diminuito perché la società attuale gradua il prestigio in base alla cilindrata dell’auto. E’ la considerazione economica che conta. Il nostro è considerato un lavoro inutile, vendiamo delle chiacchiere: questa è l’opinione della gente comune”.
“La pluralità dei sistemi valoriali compresenti in una stessa società e in una stessa epoca, ha implicazioni molto serie sul ceto degli insegnanti, che, come abbiamo visto sono in una posizione cruciale nella trasmissione dei valori. Gli insegnanti sono, da questo punto di vista, e non soltanto da questo, un ceto assai particolare. Essi, in generale, hanno interiorizzato un sistema di valori, di quei valori che legittimano appunto le gerarchie, diverso sia da quello delle società tradizionali (cioè, dai codici di valore aristocratici), sia da quello delle moderne società capitalistiche (i valori dell'imprenditorialità, dei meriti e delle prestazioni) e questo credo che sia un punto importante. Gli insegnanti, in altri termini, hanno interiorizzato un altro criterio di legittimazione delle gerarchie sociali, delle disuguaglianze, cioè la cultura; il valore massimo al quale questo ceto sociale attribuisce significato è il valore della cultura. La cultura non è né sangue né denaro, è un valore che collide sia con i valori tradizionali delle società aristocratiche, sia con i valori moderni delle società industriali e capitalistiche. Questa particolare importanza attribuita alla "cultura", non strumentalmente ma come valore in sé, non è un tratto comune a tutti i ceti "colti" delle società moderne, ma è senz'altro un tratto di società, ad esempio, come quella italiana e tedesca, nelle quali i valori "borghesi" non sono mai stati a pieno titolo valori dominanti”.
Più genericamente si potrebbe ricorrere a Max Weber, come sembra fare implicitamente Alessandro Cavalli quando cita l’esempio della Francia e della Germania come nazioni in cui lo spirito borghese ha tardato ad affermarsi. In particolare il Calvinismo, che considera la ricchezza il segno più visibile e sicuro .E’ il beruf, il lavoro e il successo che ne consegue che assicura il calvinista che Dio è con lui, che egli è l’eletto, il predestinato. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, non è stata esente da critiche, anche radicali, come quella di Luciano Pellicani che ne La genesi del capitalismo e le origini della modernità scrive: “Una volte che si tenga presente la reale natura del protestantesimo in tutte le sue versioni non ci si può non rendere conto che Weber ha cercato la source dello spirito capitalistico moderno là dove non c'era e non poteva esserci. Nulla si può immaginare di più estraneo e antitetico al moderno spirito capitalistico della predicazione delle sette riformate, tutte ossesivamente pervase dall'orrore nei confronti di Mammona, percepito - e stigmatizzato - come il maligno corruttore di ogni cosa fisica e morale".
Non sono questioni da poco: si pensi ad esempio allo slogan che noi tutti condividiamo che la scuola non è un azienda, nato per contrastare alcuni tentativi - della Moratti ma in parte dello stesso Berlinguer – di introdurre nella scuola criteri e parametri “produttivistici” in quella che è e deve rimanere un’istituzione dove si formano cittadini e non si forniscono servizi ai “clienti”, assolvendo ai fini che sono stati stabiliti dalla nostra Carta Costituzionale. Spesso però si invoca lo stesso principio un po’ a sproposito. Per esempio spesso ci si oppone al raccordo, preziosissimo soprattutto per le scuole tecniche e professionali, tra la scuola e la società, la scuola e il mondo del lavoro,la scuola e il territorio, ed è un opposizione sostanzialmente ideologica. La scuola delle tre I che immagino ci verrà presto riproposta è un aberrazione, ma demonizzare le imprese, principalmente in relazione a segmenti del nostro sistema educativo che non si propongono di preparare gli studenti per l’università ma per il mondo del lavoro è un’aberrazione speculare e incomprensibile. Anche se, occorre riconoscere, è un pregiudizio che nasce da un dibattito ventennale sulla configurazione della nostra scuola tecnica e professionale, se essa debba cioè soltanto essere professionalizzante o formativa, un dibattito generoso e appassionante che, quando ha prevalso l’orientamento formativo propugnato da Beniamino Brocca, ha fatto sì che si sperimentasse ad esempio l’introduzione sperimentale della filosofia – un’ora alla settimana – anche in alcuni Istituti Tecnici Commerciali. L’alternativa tra indirizzo formativo e indirizzo professionalizzante ha visto contrapporsi, in anni recenti, il centro-destra e il centro-sinistra, una contrapposizione in cui quest’ultima difendeva il diritto degli studenti, di tutti gli studenti, ad una formazione integrale, vedendo nell’opzione meramente professionalizzante una sperequazione nei confronti dei figli delle classi sociali più svantaggiate che in massa si iscrivono alle scuole tecniche e in particolare a quella professionale. Si tratta ovviamente di un dibattito serio, una volta tanto, e di un problema politico non indifferente. In linea di principio è difficile non essere d’accordo con chi sostiene che tutti i nostri studenti dovrebbero avere diritto ad una formazione il più possibile completa, una formazione che li renda cittadini consapevoli, informati e con pari opportunità di orientarsi in una società avanzata e complessa, e di accedere al consumo culturale diffuso. Per intenderci: perché negare Foscolo, o anche Kant, ai ragionieri e ai periti meccanici? Nella realtà dei fatti, però, queste buone intenzioni generose e democratiche rischiano di diventare una tortura intollerabile per coloro che dovrebbero esserne i beneficiari, e rischiano, concretamente, di alimentare il fenomeno degli abbandoni e della mortalità scolastica. Scrivevano qualche tempo fa Andrea Ragazzini e Valerio Vagnoli su Notizie Radicali, a proposito del programma presentato dall’Unione alle elezioni del 2006:
“Fra le pochissime cose che, a proposito della scuola, il
Centro-sinistra ha indicato nel suo programma elettorale, vi è
quella di un biennio unitario per tutti alla fine della scuola media
di primo grado in modo da evitare, sembra d’intuire, una scelta
precoce di natura classista tra “ricchi” destinati agli studi e
“poveri” destinati al lavoro; quasi a voler davvero
istituzionalizzare una gerarchia culturale e sociale che di fatto ha
imperato fino ai giorni nostri. Da questo pregiudizio deriva anche
la semi-licealizzazione “progressista” che affligge da diversi anni
gli istituti professionali spesso sovraccaricati da una mole enorme
di materie umanistiche e scientifiche che hanno finito per
snaturarli e per farne altro rispetto al loro fine principale e, in
molti casi, delle vere e proprie “bolge per dannati”.
Un altro punto attorno al quale si manifestano i pregiudizi in parte di matrice cattolica, in parte di origine sessantottina, di molti insegnanti è ovviamente la questione della meritocrazia. Qui però bisogna essere molto chiari: non solo il “concorsone” inventato da Berlinguer era davvero un “concorsaccio”, abborracciato, frettoloso e dilettantesco, ma gli articoli allarmati che in questi ultimi anni si sono succeduti sulla stampa del nostro paese sull’urgenza di “premiare i migliori” non sono mai andati oltre l’invettiva accorata: toni da ultima spiaggia e semplificazione vergognosa di un problema che è apparso estremamente complesso e spinoso a tutti coloro che, in Europa e negli Strati Uniti, hanno provato ad affrontarlo seriamente. Nessuno, che io sappia, è mai andato al di là dello slogan facile e demagogico. Si invoca la meritocrazia nella scuola come se la soluzione fosse già lì bella e pronta, e solo la protervia corporativa degli insegnanti e dei loro sindacati avesse fino ad ora impedito di metterla in pratica. Non solo: a nessuno sfuggirà, spero, che dietro gli appelli accorati perché nei prossimi contratti siano previsti aumenti differenziati in modo da premiare i migliori si nasconde un giudizio molto pesante sulla qualità della classe docente. Del resto il concorsaccio di Berlinguer ipotizzava che i “migliori” da premiare fossero una sparuta minoranza, con il postulato implicito che il resto, la stragrande maggioranza della nostra categoria, sia composta da una massa indifferenziata di caproni ignoranti incapaci e fannulloni. Ma attenzione: mentre in passato potevamo, come ho fatto io in Perché non sarò mai un insegnante, imputare questo giudizio sommario a quella che ho chiamato la “sindrome dello sfascio” che affliggeva il discorso e il dibattito mediatico sulla scuola e sostenere la dignità professionale della categoria del suo insieme che, nonostante l’alternarsi tra la disattenzione e l’attenzione perversa che la politica dedicava alla scuola ha sostanzialmente “retto”, garantendo al paese un livello formativo discreto con punte di eccellenza nei licei e nella scuola primaria, oggi questa argomentazione, per me ancora valida, è difficilmente sostenibile. Perché anno dopo anno veniamo sommersi dai risultati e dalle conclusioni del rapporto OCSE-PISA con i deprimenti titoli a carattere cubitali di tutti i quotidiani tipo “Bocciata la scuola italiana” “Studenti italiani:i più somari d’Europa”. E il coro di esperti, studiosi e politici è unanime: occorre una riqualificazione della classe docente, occorre introdurre con urgenza la meritocrazia nelle scuole, basta con i finanziamenti uguali per tutte le scuole, bisogna premiare gli istituti di eccellenza ecc. ecc. Raramente, e certo non sulla stampa quotidiana o attraverso le dichiarazioni di esponenti politici o istituzionali, si leggono analisi non affrettate della fotografia della scuola italiana che emerge dal rapporto OCSE-PISA. Eppure sarebbero i dati stessi ad incoraggiare un’analisi più attenta e meno approssimativa della situazione, come si può desumere, ad esempio, dalle conclusioni dell’INVALSI su PISA-2006:
Di fronte all’evidenza di questi dati non sarebbe più saggio, prima di avventurarsi in ipotesi di soluzione azzardate e ad incriminazioni sommarie degli insegnanti da gettare in pasto all’opinione pubblica, porsi alcune domande semplici semplici tipo “Cosa succede nelle nostre scuole professionali?” “Cosa succede nel nostro meridione?” E ancora: “E’ ineluttabile che nelle scuole professionali e nelle scuole meridionali nel loro complesso gli studenti debbano avere performance così deprimenti non solo per quanto riguarda la lettura, ma anche per le competenze scientifiche e matematiche, notoriamente meno esposte all’influenza del background socio-familiare? Non mi risulta che questi interrogativi abbiano mai accompagnato gli articoli che di anno in anno riferiscono sui risultati del rapporto OCSE-PISA, né che i soggetti politici ed istituzionali abbiano promosso indagini o inchieste focalizzate sui reali punti di sofferenza del nostro sistema educativo: il meridione e l’istruzione tecnico-professionale. Ma non solo: è evidente che se i test dell’OCSE-PISA misurano le competenze dei quindicenni, non si può evitare di porsi un’altra serie di interrogativi su un’altra questione fondamentale: la qualità della nostra scuola media. Una domanda inevitabile se si tiene conto che un altro rapporto internazionale mette in luce l’eccellenza della nostra scuola elementare, come riportato dalla “Stampa” del 12 dicembre 2007:
“Non sarebbero del tutto negativi i risultati dell’indagine Ocse-Pisa
sulle competenze degli studenti italiani: a rivelarlo è un’analisi
di Tuttoscuola, secondo cui nei giorni scorsi sarebbe stato del
tutto trascurato l’ottimo piazzamento (sesto posto su quaranta paesi
analizzati) fatto registrare dagli alunni italiani di nove anni
nelle competenza in lettura.
“Definita la "prova nazionale" di licenza media: la cosiddetta
"quarta" prova scritta. L'appuntamento è per martedì 17 giugno,
quando circa 600 mila ragazzini iscritti in terza media sosterranno
un'unica prova scritta nazionale di italiano e matematica. Il
provvedimento è contenuto nella circolare sugli scrutini e gli esami
del primo ciclo (scuola primaria e secondaria di primo grado) resa
nota dal ministro della Pubblica istruzione, Giuseppe Fioroni. E' la
prima volta, ricorda lo stesso Fioroni, che a conclusione del primo
ciclo di istruzione tutti gli studenti vengono chiamati a svolgere
uno stesso compito nel medesimo giorno: un esame che ricorda quello
della maturità.
Questo per dire che gli insegnanti hanno mille ragioni per essere diffidenti e di temere soluzioni pasticciate e pericolose, come quelle che con ogni probabilità l’attuale governo di centro-destra ha già allo studio e nel prossimo futuro tenterà di imporci, con il tacito o forse neppure troppo tacito assenso del Partito Democratico che della meritocrazia nella scuola ha fatto un uso altrettanto sloganistico del PDL in campagna elettorale. La diffidenza degli insegnanti nei confronti delle proposte di introdurre il merit pay è quindi non solo giustificata, ma sacrosanta, vista la modestia e anche la pericolosità delle proposte stesse. Se si escludono le riflessioni serie e problematiche contenute nel Quaderno Bianco che si presume verranno presto messe in soffitta, non abbiamo visto circolare che versione caricaturali della meritocrazia, come quelle sostenute da anni dall’ associazione TREELLLE o dalla stessa Gelmini nella proposta di legge presentata nella scorsa legislatura (“Delega al Governo per la promozione e l'attuazione del merito nella società, nell'economia e nella pubblica amministrazione e istituzione della Direzione di valutazione e monitoraggio del merito presso l'Autorità garante della concorrenza e del mercato"), e che si possono riassumere nella parola d’ordine “tutto il potere ai presidi”. Occorre subito aggiungere però che l’opposizione degli insegnanti a queste forme inaccettabili di meritocrazia sarebbe oggi più autorevole e se gli insegnanti stessi avessero avuto un atteggiamento meno ideologico e pregiudiziale verso qualsiasi tentativo di misurare l’efficacia del loro lavoro, tanto più che da anni ormai, come ho appena detto, le comparazioni internazionali individuano nel sistema educativo del nostro paese aree di sofferenza che si cronicizzano nel tempo, un divario che sembra ampliarsi piuttosto che ridursi. Se la categoria avesse avuto un atteggiamento più “laico” e meno ideologico nei confronti dell’istituzione di un sistema di valutazione nazionale ora avrebbe le carte in regola per opporsi alle pericolose semplificazioni e forse alle aberrazioni che ben presto ci verranno proposte o imposte. Al contrario, gridare al lupo al lupo anche quando il lupo non c’era, non ci rende credibili ora che sarebbe essenziale mettere alcuni importanti paletti rispetto al tema della meritocrazia: ad esempio, esigere che prima di parlare di stipendi differenziati a seconda dei risultati, si istituisca e si renda efficiente un sistema di valutazione nazionale in grado non solo di distinguere le scuole o gli insegnanti eccellenti ma , come affermato nel Quaderno Bianco di cogliere i progressi nel tempo delle singole scuole. Che sarebbe, a mio avviso, l’unico modo serio per promuovere un miglioramento qualitativo della scuola italiana, in particolare dei suoi segmenti più deboli. Altrimenti non capisco cosa significa premiare le scuole e gli insegnanti eccellenti: dare più soldi a coloro che insegnano nei licei classici e scientifici e meno a quelli che lavorano nel settore tecnico- professionali? Premiare le scuole dei centri storici frequentate dai figli della buona borghesia e penalizzare chi lavora in trincea, nelle periferie degradate delle grandi città?Ma soprattutto, se fossimo più credibili, dovremmo porre la questione delle questioni: si premino pure le eccellenze (se si troverà un sistema serio per farlo e che non sia controproducente, come spesso è avvenuto nei paesi in cui si è provato ad introdurre il merit pay)ma senza barare, senza pensare di risolvere così il problema dello spaventoso divario economico in cui versano gli insegnanti italiani nei confronti della media europea. Non scherziamo: prima stipendi dignitosi per tutti, poi il merito. Ma mi chiedo: abbiamo la forza e la credibilità per farlo? A proposito di stipendi. Più di una volta ho dovuto presentare il cedolino dello stipendio, per avere ratei di elettrodomestici, per l’auto, ecc. L’ultima volta, la più umiliante è stata con un avvocato: non voleva credere ai suoi occhi. Ha fatto una smorfia tra l’incredulo e l’indignato, poi ha alzato lo sguardo verso di me e ha fatto: “Certo vi diamo proprio una miseria”. Io ho allargato le braccia senza sapere cosa dire, ma poi, uscendo, ho pensato che usando la prima persona plurale l’avvocato aveva dimostrato di essere una persona intelligente. Non “vi danno” oppure “lo stato” , no, “noi” la società vi diamo poco più di un’elemosina, per quello che avete studiato, per quello che valete, per quello che fate per i nostri figli. Perché molti davvero non lo sanno, e quando vengono davvero a sapere quanto guadagniamo se ne stupiscono. Alcuni, certo, perché per altri prendiamo anche troppo per quello che facciamo. Qualche tempo fa sul blog del giornalista della Stampa Massimo Gramellini apparvero una serie di post che rispecchiano l’immagine che una parte dell’opinione pubblica ha di noi: Paolo, intanto Pasqua+ Natale + 1 mese 1/2 = il doppio di un qualsiasi altro lavoratore dipendente. Sugli esami di maturita' sei pagato in piu' e la maggior parte dei prof non li fanno+ cosa fai dal 1 settembre fino al 20? Lavori sodo senza alunni? La preparazione degli insegnanti e' facoltativa, se vuoi puoi tranquillamente andare al cinema e non spiegare facendo leggere il libro agli studenti, come fanno la maggioranza dei professori. Perche' non si possono licenziare prof incapaci
“In Italia è stata ormai chiaramente abbattuta la frontiera tra ciò che si può dire o non dire in pubblico. Il linguaggio da bar, quello che io preferisco chiamare il “linguaggio da caverna” si è trasferito alla politica. E’ una forma superiore di demagogia, perchè non si tratta solo di dire alla gente ciò che vuole sentire: il fatto che i politici adottino in pubblico il linguaggio crudo e brutale che dovrebbe essere confinato nel privato gli dà legittimità. E ricompare nella bocca dei cittadini, ma con una veemenza molto superiore”.
Comunque, ci sono anche giornalisti seri che si documentano prima di parlare o di scrivere, e nelle interviste che ho rilasciato dopo la pubblicazione del mio libro ne ho incontrati molti che non avevano difficoltà a riconoscere la fondatezza delle mie tesi. Mi permetto di citare a questo proposito un brano di una delle prime recensioni, apparsa su “Repubblica” a cura di Giovanni Valentini: “Da questo originale pamphlet, dunque, il declino di una professione considerata “fuori mercato” emerge in tutta la sua drammatica realtà. Né l’impegno culturale né la passione per l’insegnamento impediscono a Giovannone di mettere il dito sulla piaga del trattamento economico che mortifica un’intera categoria , a dispetto delle funzioni e delle responsabilità sociali che le vengono attribuite nell’educazione dei giovani. L’autore non risparmia critiche alla politica e al sindacato, alla riforma Berlinguer e alla riforma Moratti. Ma contemporaneamente chiama in causa anche gli intellettuali e i giornalisti inclini a celebrare la “retorica dello sfascio” ovvero, come la chiama Pacchiano “la letteratura del lamento scolastico”. Di fronte alla cultura dominante, riassunta nella formula “denaro-potere- immagine”, il libro interpella però tutta la società, in rapporto al ruolo che la scuola è chiamata a svolgere nella trasmissione del sapere e dei valori. Fino a quando la professione degli insegnanti non sarà restituita alla dignità che le compete, a cominciare proprio dalla condizione economica, risulterà compromessa la crescita generale del Paese”.
C’è una recente intervista della nostra illustre collega Paolo Mastrocola (Repubblica 11 giugno 2008) che spiega molto bene quello che voglio dire. Il giorno prima, il ministro dell’ Istruzione, Maria Stella Gelmini, illustrando alla commissione cultura della Camera il programma del suo ministero aveva detto: "Questa legislatura deve vedere uno sforzo unanime nel far sì che gli stipendi degli insegnanti siano adeguati alla media Ocse"… Non possiamo ignorare che lo stipendio medio di un professore di scuola secondaria superiore dopo 15 anni di insegnamento è pari a 27.500 euro lordi annui, tredicesima inclusa. Fosse in Germania ne guadagnerebbe 20 mila in più, in Finlandia 16 mila in più. La media Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) è superiore ai 40 mila euro l'anno".
“Che barba. Quando i ministri parlano di soldi , o di risorse, come dicono loro, vuol dire che il problema della scuola è molto grave. Se fosse solo una questione di soldi staremmo a posto, ce li dessero allora e si risolverebbe tutto. La questione economica esiste ma ce ne sono molte altre”.
“Nella scuola c’è un problema più importante dei soldi: il rispetto. Quando sui banchi c’ero io, la professoressa entrava, noi ci alzavamo in piedi, e se c’era un minimo di confusione l’insegnante batteva appena la mano sulla cattedra: silenzio assoluto. Adesso, per ottenerlo nelle mie classi, impiego tra i cinque e i dieci minuti”. Parlare di soldi è riduttivo, fuorviante, disdicevole. I problemi sono “ben altri”. Questo mi sono sentito dire spesso quando sono andato a presentare il mio libro. Magari accompagnato dalla considerazione secondo cui “molte colleghe non si meritano neppure quella miseria che ci danno”. Oppure, durante un convegno del Partito Democratico sulla scuola un collega ha preso il microfono e ha detto, testualmente: “E’ illusorio attenderci soddisfazione dagli aumenti economici. La nostra soddisfazione devono essere i nostri ragazzi, dobbiamo emozionarli e dobbiamo saperci emozionare. Tanti i soldi non arriveranno mai”. E ancora, una maestra napoletana ospite come me di una trasmissione radiofonica: “Certo, il professor Giovannone ha ragione, i soldi sono importanti, ma sono altre le soddisfazioni a cui dobbiamo mirare. Ad esempio io mi commuovo quando dopo magari vent’anni incontro un mio ex alunno che mi riconosce e mi dice con le lacrime agli occhi: lei è stata la mia maestra!”.
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