Fenomeni

Pubblico di seguito il mio contributo al Dodecalogo, il Libro di cui si occupa Stefano Borgarelli nella sua recensione che abbiamo ripreso da Professione Docente. L'intervento non ha ovviamente il taglio delle pubblicazioni web, è piuttosto lungo e consigliamo di stamparlo per leggerlo in tutta comodità.

Gianfranco Giovannone, DocentINclasse 15.2.2009

Nessuno può servire due padroni; perché o odierà l'uno e amerà l'altro, o avrà riguardo per l'uno e disprezzo per l'altro. Voi non potete servire Dio e Mammona, Matteo 6:24.

Avevo pensato di titolare il mio contributo “Fenomenologia dell’insegnante medio”, ma poi mi sono reso conto che “fenomeni” sintetizzava perfettamente l’immagine dell’insegnante che mi ero fatta mentre scrivevo Perché non sarò mai un insegnante e soprattutto dopo, andando in giro a presentarlo per l’Italia. Del resto, il senso figurato e popolare del termine descrive perfettamente i miei contrastanti sentimenti nei confronti di una figura sociale o forse sarebbe meglio dire di un tipologia antropologica della quale , se pure con un senso di inquietudine e disagio sempre crescenti, anch’io faccio parte: “Oggetto di meraviglia e di ammirazione (spesso con una sfumatura di compiacimento o benevola ironia)”. Per intenderci: se Cesare Previti, Lele Mora e l’ormai dimenticato Mario Chiesa occupano una delle due polarità gli insegnanti, come le Dame di san Vincenzo o i volontari di Emergency , si piazzano sicuramente nella polarità opposta. Sembra un gran complimento, ma non lo è. Non nel nostro paese, almeno, non nell’Italia cinica e arraffona dei nostri giorni, o forse di sempre, con buona pace di Beppe Grillo e della immacolata ma fantomatica Società civile. Perché l’incredibile galleria di furbi, furbetti e mascalzoni dei film di Alberto Sordi non era solo un affresco incredibilmente efficace dell’Italia del dopoguerra, basterebbe ripercorrere la cronache del sottobosco politico-affaristico degli ultimi vent’anni per rendersi conto che ancora oggi sarebbe Albertone l’interprete più efficace dell’italiano medio, e non Carlo Verdone, la sua versione edulcorata e buonista. E se qualcosa è cambiato è cambiato in peggio, l’Italia contemporanea è solo più cinica e ignorante, più arrogante e volgare di quella dei film di Alberto Sordi. Pensate alle intercettazioni telefoniche di Ricucci o di Moggi, esempi mirabili di commedia all’italiana contemporanea. Nel film I nuovi mostri un uomo qualunque mangia e guarda la tv, lasciando che un uomo muoia sul marciapiede, un nuovo ricco si sbarazza della madre chiudendola in un ospizio, due genitori permettono alla figlia minorenne di interpretare un film porno per quattro milioni. Episodi che allora, alla fine degli anni settanta, potevano ancora far ridere perché grotteschi, esagerati, larger than life. Oggi che mamme rampanti e sgomitanti farebbero di tutto e farebbero fare alle loro figlie di tutto per far loro avere il ruolo in una soap o per diventare velina o letterina farebbero ancora ridere?Oggi che le veline diventano ministri della Repubblica e bellone coinvolte in commerci squallidi capitalizzano lo scandalo occhieggiando dai manifesti pubblicitari di biancheria intima dicendo sì, sono proprio io, quella della tresca col portaborse?Quello che è nuovo nelle vicende di un Fabrizio Corona o di Elisabetta Gregoraci non è quello che hanno fatto ma la spregiudicatezza con cui hanno saputo trarre vantaggio degli scandali che li hanno coinvolti, non diversamente da quanto hanno fatto altri personaggi non solo dello spettacolo, ma anche dello sport, degli affari e dalla politica. Lo scandalo paga, forse è sempre stato così, ma oggi è diventata una regola che quasi non ammette eccezioni. E sarebbe illusorio pensare che tutto quello che accade sull’olimpo del successo e della celebrità non abbia conseguenze per la società nel suo insieme. Ogni volta infatti l’asticella che divide ciò che è lecito da ciò che è illecito, ciò che è morale da ciò che è immorale viene spostata un po’ più in alto, e non c’è bisogno di evocare la società liquida di Bauman, per affermare che viviamo tutti in un universo etico estremamente instabile e incerto, in cui siamo costretti direi quotidianamente a ridefinire i nostri sistemi valoriali. Si prenda l’esempio del fenomeno conosciuto con il nome di mani pulite: un gruppo di magistrati svegli e determinati scopre quasi per caso un sistema di corruzione politico- affaristico complesso e ramificato che ha per epicentro Milano. Giorno dopo giorno i cittadini italiani vedono allargarsi spaventosamente l’entità del fenomeno ma il senso comune, allora ancora capace di scandalizzarsi e di indignarsi, suggerisce che se vi fossero stati a Palermo e a Napoli, ma anche a Firenze e a Perugia magistrati altrettanto determinati avrebbero scoperto una rete di corruzione non dissimile da quella emersa a Milano e dintorni. Tutti conosciamo persone che forniscono merci o servizi per gli enti pubblici e tutti sappiamo che per avere gli appalti,a qualsiasi livello, occorre placare l’avidità di politici e portaborse. Quindi la domanda vera che molti si sono fatta ai tempi di tangentopoli è stata : perché solo a Milano? La cosiddetta seconda Repubblica è nata sulle ceneri di tangentopoli ma ad un certo punto è iniziata una campagna ossessiva tesa a riabilitare i politici corrotti e a far passare i magistrati per torturatori e carnefici, tanto che anche la stampa indipendente ha cominciato ad usare con incredibile disinvoltura il termine “giustizialismo” e impercettibilmente, giorno dopo giorno anche il senso comune ha cominciato a considerare quella di mani pulite una stagione di eccessi e persecuzioni esecrabili. E, a stare ai sondaggi, per oltre metà degli italiani è stata questa la narrazione che ha prevalso, con conseguenze devastanti sulla fibra morale del nostro paese. Il così fan tutte di Bettino Craxi in parlamento, la rivendicazione sfacciata della corruzione politica con la chiamata di correo di tutta la classe politica italiana è diventata la parola d’ordine di una parte non minoritaria degli italiani, quelli che , è stato detto con efficace metafora, parcheggiano in doppia fila. Quelli che deturpano il paesaggio con l’abusivismo edilizio, che evadono in massa le tasse, che invadono le nostre città con l’arroganza ostentata e inquinante dei SUV. La scuola non sa più trasmettere valori scrivono di tanto in tanto opinionisti come Umberto Galimberti o Ernesto Galli della Loggia, come se fossimo ancora nell’ottocento vittoriano o nell’immediato dopoguerra in cui esisteva una solida cornice di valori condivisi e i comportamenti devianti costituivano un’ eccezione stigmatizzata dall’opinione pubblica nel suo insieme. Se nel 1929, quando Freud pubblicava Il disagio della civiltà, il problema poteva ancora essere il prevalere del principio di realtà su quello del piacere, con un superego invasivo e soffocante, fonte di ogni tipo di nevrosi, oggi il problema è esattamente opposto: oggi, nell’epoca della deregulation, il principio del piacere domina incontrastato. Come scrive Bauman, "la libertà individuale regna sovrana; è il valore in base al quale ogni altro valore deve essere valutato e la misura con cui la saggezza di ogni norma e decisione sovra-individuale va confrontata". Del resto non è neppure una novità, già Max Weber parlava di “politeismo di valori”, figuriamoci oggi, oggi che le gerarchie assiologiche diventano obsolete prima ancora di imporsi compiutamente. Far finta che non sia così, immaginare che vi sia un sistema di valori condivisi che l’insegnante dovrebbe solo trasmettere significa far finta che viviamo ancora ai tempi di De Amicis e non in quelli di You Tube. Ma a differenza di quelli che fanno loro le prediche spesso razzolando malissimo – per esempio ricorrendo a mezzi illeciti e truffaldini per conseguire a tutti i costi il successo editoriale o accademico - gli insegnanti non fanno finta, ci credono davvero. Purtroppo.

Qualche collega, ogni tanto, si fa palpeggiare il sedere dai ragazzini delle medie. Qualcun'altra se li porta addirittura a letto. Altre permettono o organizzano gare per stabilire quali tra gli alunni ce l’abbiano più lungo. E poi c’è quello che fa il saluto fascista e si masturba in classe (in momenti diversi, immaginiamo). E quello che fuma lo spinello in classe o forse era solo una sigaretta. Chissà. E qualche volta, senza che gli episodi finiscano su You Tube, succede anche di peggio. Ma tutto questo non intacca la mia convinzione che l’insegnante medio si caratterizzi per una forte – e desueta, isolatissima , singolare – impronta etica.
In fondo, non è cambiato niente dai tempi in cui fu pubblicato il libro Le vestali dalla classe media. Il libro di Marzio Barbagli e Marcello Dei era tutto teso a dimostrare che la classe docente costituiva uno strumento formidabile di controllo sociale, una categoria dagli orientamenti politici conservatori se non apertamente reazionari. Non so quanto l’analisi fosse corretta nel 1969, l’anno in cui venne pubblicato il libro, certo è che oggi le accuse che vengono mosse agli insegnanti nel loro complesso sono esattamente opposte, segnatamente di essere egemonizzati da uno spirito egualitario che si rifà al ’68, di mortificare la meritocrazia e l’eccellenza e, appunto, di non sapere più trasmettere valori. Gli autori dell’indagine riscontravano nel campione intervistato un’ideologia difensiva che nasceva dalla minaccia della democratizzazione della scuola con l’istituzione della scuola media unica:

“Avendo un livello di reddito inferiore a quello di altre categorie della classe media, gli insegnanti riescono ancora a distinguersi e a difendersi con il livello di istruzione. E’ per questo che…essi contrappongono la cultura alla ricchezza, lo “spirito” alla “materia”. Ma il processo di estensione dell’istruzione alle classi sociali inferiori minaccia di togliere anche quest’ultima arma, anche quest’ultima caratteristica distintiva”.


Ripeto, non saprei dire quanto fosse corretto alla fine degli anni sessanta attribuire questa ideologia difensiva alla democratizzazione dell’ istruzione. Quello che è certo è che questa ideologia difensiva che fa appello ai valori dello spirito o della cultura in contrapposizione a quelli esteriori della ricchezza e del successo costituisce ancora oggi l’ideologia dominante dell’insegnante medio. E’ incredibile, ma quello che dichiaravano gli insegnanti intervistati negli anni ’60 sarebbe sottoscritto con orgoglio dalla maggior parte degli insegnanti all’inizio del secondo millennio:

“Il nostro prestigio è diminuito per motivi economici. Oggi si valuta tutto con il metro della ricchezza. Che poi è una ricchezza apparente, perché quello che conta è la ricchezza spirituale”.


“Perché si dà poca importanza a quelli che sono i valori morali. C’è stata una svalutazione di quegli ideali che prima erano sentiti”.

“Il prestigio dell’insegnante è diminuito perché forse per l’opinione pubblica i valori più importanti non sono l’intelligenza e la cultura e noi che facciamo parte di quel mondo siamo un po’ isolati”.

“Il nostro prestigio è diminuito perché la società attuale gradua il prestigio in base alla cilindrata dell’auto. E’ la considerazione economica che conta. Il nostro è considerato un lavoro inutile, vendiamo delle chiacchiere: questa è l’opinione della gente comune”.


Che brutto mondo signora mia, che tempi!La contrapposizione tra valori esteriori ed esteriori, tra valori spirituali e materiali è stata rilevata dalle due ricerche coordinate dal prof. Alessandro Cavalli e pubblicate dal Mulino rispettivamente nel 1994 e nel 2000 con il titolo Gli insegnanti nella scuola che cambia, Prima e Seconda indagine IARD sulle condizioni di vita e di lavoro nella scuola italiana. Anche da queste recenti indagini si ricava l’immagine di una categoria asserragliata nel fortino dei valori – coesione familiare, serietà, onestà, altruismo, solidarietà – che vedono in rapido declino nella società che li circonda e nella quale si sentono sempre più dei marziani. Mentre vedono avanzare l’Italia dei furbi e dei furbetti che invece celebra l’importanza del denaro, l’apparenza e l’immagine esteriore, il successo rapido, la furbizia, l’improvvisazione. Nelle conclusioni relative alla ricerca del 1994 Alessandro Cavalli parlava di “sindrome di delusione e pessimismo etico”, un quadro di scoramento che nella seconda ricerca si è ulteriormente rabbuiato. Personalmente, sarei tentato di dire che basta accendere la televisione, in qualsiasi momento, per veder trionfare i disvalori dell’apparenza, dell’immagine esteriore, del successo rapido e, aggiungerei, della volgarità non più irrisa ma esibita e celebrata. Però se i ricercatori che hanno curato l’indagine considerano quella degli insegnanti una reazione in qualche modo eccessiva e forse conservatrice, viene da pensare che se le stesse domande fossero state rivolte a campioni sociologici diversi le risposte sarebbero state diverse. Sarebbe infatti interessante vedere se altre categorie – i liberi professionisti, ad esempio, i bancari, le commesse, i piccoli imprenditori del Nord-Est, gli operatori dei call-center – condividono la severità e l’allarme con cui gli insegnanti guardano alle evoluzioni – o involuzioni - assiologiche della nostra società. Probabilmente no. Il sociologo Cavalli, in un articolo apparso ormai diversi anni fa su Reset, si soffermava sulla peculiarità della categoria dei docenti rispetto al resto della società:

“La pluralità dei sistemi valoriali compresenti in una stessa società e in una stessa epoca, ha implicazioni molto serie sul ceto degli insegnanti, che, come abbiamo visto sono in una posizione cruciale nella trasmissione dei valori. Gli insegnanti sono, da questo punto di vista, e non soltanto da questo, un ceto assai particolare. Essi, in generale, hanno interiorizzato un sistema di valori, di quei valori che legittimano appunto le gerarchie, diverso sia da quello delle società tradizionali (cioè, dai codici di valore aristocratici), sia da quello delle moderne società capitalistiche (i valori dell'imprenditorialità, dei meriti e delle prestazioni) e questo credo che sia un punto importante. Gli insegnanti, in altri termini, hanno interiorizzato un altro criterio di legittimazione delle gerarchie sociali, delle disuguaglianze, cioè la cultura; il valore massimo al quale questo ceto sociale attribuisce significato è il valore della cultura. La cultura non è né sangue né denaro, è un valore che collide sia con i valori tradizionali delle società aristocratiche, sia con i valori moderni delle società industriali e capitalistiche. Questa particolare importanza attribuita alla "cultura", non strumentalmente ma come valore in sé, non è un tratto comune a tutti i ceti "colti" delle società moderne, ma è senz'altro un tratto di società, ad esempio, come quella italiana e tedesca, nelle quali i valori "borghesi" non sono mai stati a pieno titolo valori dominanti”.


Un’analisi che coincide, in parte, con quella che ne Le vestali della classe media della classe media veniva definita “ideologia difensiva”. Un’analisi forse insufficiente, perché forse più che alla “cultura” bisognerebbe ricorrere a categorie forse più antiquate ma più esaustive come ad esempio i “valori dello spirito”, in cui certo la “cultura” gioca un ruolo fondamentale ma non esclusivo. E occorrerebbe prendere in considerazione altri aspetti, ad esempio l’influenza della formazione cattolica su una parte non certo minoritaria degli insegnanti, o il fatto che, a stare agli studi sui flussi elettorali, la maggior parte degli insegnanti vota generalmente per la sinistra o comunque nell’ambito del centro-sinistra. Un fattore, quest’ultimo, che potrebbe spiegare un certo conservatorismo nei confronti delle dinamiche evolutive della società – che evidentemente gli insegnanti considerano involutive: il denaro facile, il successo rapido, il consumismo esasperato, ecc. Ma il merito a mio avviso formidabile dell’analisi di Alessandro Cavalli sta nel mettere in luce il rapporto degli insegnanti con il denaro, e quindi con valori come la competizione, l’imprenditorialità, il profitto. Un rapporto che, credo di poter affermare con assoluta certezza, nella maggior parti dei casi è di aperta ostilità. Sarebbe stato interessante inserire nella ricerca IARD una batteria di domande relativa alla cultura economco-finanziaria degli insegnanti. Non penso a domande su strumenti sofisticati come gli hedge fund o i future , ma perlomeno verificare quanto è chiara la distinzione tra bond e azioni, se si conosce il significato di termini come dividendi o corporate bond, se si sa in termini generici come funziona un Piano di accumulo o un fondo ETF. Sono sicuro che le risposte evidenzierebbero una conoscenza modesta dei più semplici meccanismi economici e dei più diffusi strumenti di investimento, una ignoranza tanto più singolare in una categoria che, statistiche alla mano, risulta tra le più vivaci nel nostro paese per il consumo culturale e di informazioni, come attestano entrambe le ricerche IARD di cui abbiamo parlato. Un esempio personale: appena il computer della sala insegnanti si libera mi connetto con il sito del Sole24ore per controllare come vanno le cose a Piazza Affari. Lo faccio però con un senso di disagio, perché sento gli sguardi di disapprovazione o di stupore dei colleghi che di tanto in tanto si avvicinano e si rendono conto di cosa sto facendo. Forse se insegnassi in un tecnico commerciale o in un professionale dove ci sono colleghi che come secondo lavoro fanno i commercialisti o gli ingegneri mi sentirei meno a disagio, ma vi posso assicurare che per un insegnante di liceo è anomalo e forse anche un po’ sospetto interessarsi del mercato azionario. O dei soldi in genere. Una volta una collega mi chiese cosa stessi cercando su internet e risposi che appena ho un’ora libera mi fiondo sui siti pornografici. Quando vide che in realtà mi interessavo di finanza mi disse che forse forse sarebbe stato più perdonabile se mi fossi interessato di sesso piuttosto che di soldi. Era, come me, una cattolica che votava per il PD, anche se il suo cattolicesimo era più sentito e profondo del mio. Scherzava, ovviamente. Ma solo fino a un certo punto. Perché c’è un aspetto dell’esperienza e della predicazione di Don Milani che permea ancora profondamente il sistema valoriale degli insegnanti, ed è l’atteggiamento nei confronti del denaro e del profitto. So che la collocazione politica del prete di Barbiana è materia controversa, ma si può senz’altro affermare che nella sua visione si intrecciano elementi pauperistici e anti-moderni sia di matrice cattolica – in particolare legate alle tesi emerse dal Concilio Vaticano II che marxiste.

Più genericamente si potrebbe ricorrere a Max Weber, come sembra fare implicitamente Alessandro Cavalli quando cita l’esempio della Francia e della Germania come nazioni in cui lo spirito borghese ha tardato ad affermarsi. In particolare il Calvinismo, che considera la ricchezza il segno più visibile e sicuro .E’ il beruf, il lavoro e il successo che ne consegue che assicura il calvinista che Dio è con lui, che egli è l’eletto, il predestinato. L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, non è stata esente da critiche, anche radicali, come quella di Luciano Pellicani che ne La genesi del capitalismo e le origini della modernità scrive:

“Una volte che si tenga presente la reale natura del protestantesimo in tutte le sue versioni non ci si può non rendere conto che Weber ha cercato la source dello spirito capitalistico moderno là dove non c'era e non poteva esserci. Nulla si può immaginare di più estraneo e antitetico al moderno spirito capitalistico della predicazione delle sette riformate, tutte ossesivamente pervase dall'orrore nei confronti di Mammona, percepito - e stigmatizzato - come il maligno corruttore di ogni cosa fisica e morale".


Rimane però il fatto che, il liberismo economico si è diffuso soprattutto nei paesi anglosassoni e in paesi come l’Olanda dove l’influenza del calvinismo o dei protestantesimo “non conformista” è stata più forte e profonda. Non si tratta di una divisione accademica, perché come spiega con un bell’esempio lo stesso Cavalli, la differenza ad esempio tra un’etica – e di conseguenza una pedagogia - basata sulla competizione e una basata sulla solidarietà è molto profonda:

“Il conflitto tra un'etica della competizione e un'etica della solidarietà si riproduce a scuola durante i compiti in classe ogniqualvolta un alunno copii, una traduzione o la soluzione di un problema, da un compagno o favorisca la copiatura. In alcune scuole e università americane e inglesi vige, ad esempio, il cosiddetto "honor system", un codice d'onore che, una volta spontaneamente accettato, impone una serie di regole, tra le quali il divieto di copiare e di far copiare i compagni. Il docente può entrare in classe, dettare il compito (uguale per tutti) e ritornare dopo qualche ora per ritirare i compiti svolti con la ragionevole certezza che nessuno oserà copiare, o, se lo tentasse, verrebbe denunciato dai compagni. Il valore della competizione leale premia in questo caso sul valore della solidarietà. Vedere un compagno in palese difficoltà non induce in questo caso a "dargli una mano" e peraltro a questi non verrebbe mai in mente di chiederla. Non c'è bisogno di controllo esterno, l'efficacia dei controlli interni individuali e dell'autocontrollo collettivo bastano per garantire l'applicazione della norma.
Chi non ha cancellato i ricordi di quando era sui banchi di scuola, sa come da noi sarebbe difficile una forma del genere di regolazione dei comportamenti. Da noi prevale la regola della solidarietà e chi non vuol perdere i suoi diritti di cittadinanza nella classe farà bene a sfidare il controllo dell'insegnante e a passare il compito a un compagno meno bravo di lui. Non voglio giudicare della relativa superiorità o inferiorità dell'uno o dell'altro codice, ma non vi è dubbio che si tratti di due codici incompatibili, che possono essere resi compatibili soltanto differenziandone i campi di applicazione. Si può, ad esempio, favorire in tutti i modi e in tutte le occasioni possibili l'aiuto reciproco tra compagni (i meno bravi hanno sempre molto da imparare dai più bravi e questi ultimi saranno meno arroganti se condivideranno il compito di far crescere il livello di competenza dell'intera classe), ma le regole della solidarietà devono essere sospese nelle procedure di valutazione delle prestazioni”.


Senza entrare nel merito, mi sembra che l’esempio possa efficacemente illustrare quanto concretamente i sistemi valoriali dei docenti possano influire nella pratica didattica e influenzare profondamente gli allievi, soprattutto quando non sono esplicitati come avviene nelle “prediche” che di tanto in tanto ammanniamo ai nostri studenti. E a proposito di etica della competizione e etica della solidarietà: sono sicuro che, al di là dell’esempio della copiatura, il novanta per cento degli insegnanti si riconosce nella seconda, direi quasi naturalmente, inconsapevolmente, magari ritenendo aberrante che qualcuno possa pensare che esista una scelta tra le due alternative, in quanto quella della solidarietà viene ritenuta l’unica scelta possibile. Quanti potrebbero essere infatti gli insegnanti che ritengono che la competizione, la concorrenza, il libero mercato e il profitto possano essere considerati valori e non disvalori? Quanti oserebbero sostenerlo apertamente?

Non sono questioni da poco: si pensi ad esempio allo slogan che noi tutti condividiamo che la scuola non è un azienda, nato per contrastare alcuni tentativi - della Moratti ma in parte dello stesso Berlinguer – di introdurre nella scuola criteri e parametri “produttivistici” in quella che è e deve rimanere un’istituzione dove si formano cittadini e non si forniscono servizi ai “clienti”, assolvendo ai fini che sono stati stabiliti dalla nostra Carta Costituzionale. Spesso però si invoca lo stesso principio un po’ a sproposito. Per esempio spesso ci si oppone al raccordo, preziosissimo soprattutto per le scuole tecniche e professionali, tra la scuola e la società, la scuola e il mondo del lavoro,la scuola e il territorio, ed è un opposizione sostanzialmente ideologica. La scuola delle tre I che immagino ci verrà presto riproposta è un aberrazione, ma demonizzare le imprese, principalmente in relazione a segmenti del nostro sistema educativo che non si propongono di preparare gli studenti per l’università ma per il mondo del lavoro è un’aberrazione speculare e incomprensibile. Anche se, occorre riconoscere, è un pregiudizio che nasce da un dibattito ventennale sulla configurazione della nostra scuola tecnica e professionale, se essa debba cioè soltanto essere professionalizzante o formativa, un dibattito generoso e appassionante che, quando ha prevalso l’orientamento formativo propugnato da Beniamino Brocca, ha fatto sì che si sperimentasse ad esempio l’introduzione sperimentale della filosofia – un’ora alla settimana – anche in alcuni Istituti Tecnici Commerciali. L’alternativa tra indirizzo formativo e indirizzo professionalizzante ha visto contrapporsi, in anni recenti, il centro-destra e il centro-sinistra, una contrapposizione in cui quest’ultima difendeva il diritto degli studenti, di tutti gli studenti, ad una formazione integrale, vedendo nell’opzione meramente professionalizzante una sperequazione nei confronti dei figli delle classi sociali più svantaggiate che in massa si iscrivono alle scuole tecniche e in particolare a quella professionale. Si tratta ovviamente di un dibattito serio, una volta tanto, e di un problema politico non indifferente. In linea di principio è difficile non essere d’accordo con chi sostiene che tutti i nostri studenti dovrebbero avere diritto ad una formazione il più possibile completa, una formazione che li renda cittadini consapevoli, informati e con pari opportunità di orientarsi in una società avanzata e complessa, e di accedere al consumo culturale diffuso. Per intenderci: perché negare Foscolo, o anche Kant, ai ragionieri e ai periti meccanici? Nella realtà dei fatti, però, queste buone intenzioni generose e democratiche rischiano di diventare una tortura intollerabile per coloro che dovrebbero esserne i beneficiari, e rischiano, concretamente, di alimentare il fenomeno degli abbandoni e della mortalità scolastica. Scrivevano qualche tempo fa Andrea Ragazzini e Valerio Vagnoli su Notizie Radicali, a proposito del programma presentato dall’Unione alle elezioni del 2006:

“Fra le pochissime cose che, a proposito della scuola, il Centro-sinistra ha indicato nel suo programma elettorale, vi è quella di un biennio unitario per tutti alla fine della scuola media di primo grado in modo da evitare, sembra d’intuire, una scelta precoce di natura classista tra “ricchi” destinati agli studi e “poveri” destinati al lavoro; quasi a voler davvero istituzionalizzare una gerarchia culturale e sociale che di fatto ha imperato fino ai giorni nostri. Da questo pregiudizio deriva anche la semi-licealizzazione “progressista” che affligge da diversi anni gli istituti professionali spesso sovraccaricati da una mole enorme di materie umanistiche e scientifiche che hanno finito per snaturarli e per farne altro rispetto al loro fine principale e, in molti casi, delle vere e proprie “bolge per dannati”.
Le conseguenze di tale impostazione sono un altissimo numero di abbandoni e di bocciature e, per moltissimi studenti, un fortissimo disagio quotidiano causato dal veder tradite le loro attese, proiettate soprattutto sull’operatività grazie alla quale, i docenti lo sanno, potrà essere poi possibile recuperare interesse per una cultura più astratta e “alta”. Perciò un programma sulla scuola serio e integrato nel contesto storico in cui si vive dovrebbe garantire una rigorosa formazione professionale, innanzitutto perché vi sono, ogni anno, decine di migliaia di adolescenti per i quali è problematico o impossibile entrare perfino nell’esperienza scolastica della scuola media di primo grado. Anche a questi studenti si devono offrire delle serie possibilità di formazione e istruzione attraverso percorsi appropriati perché, se obbligati a due anni di liceo - ma forse è più onesto parlare di due anni di prolungamento della scuola media di primo grado- verranno sottoposti a nuove frustrazioni, disagi, noia invece di poter cogliere possibili chance offerte da una seria, qualificata, stimolante formazione professionale (come quella prevista dal progetto della Commissione Bertagna) in grado di valorizzare le loro potenzialità e aspirazioni.
Un cittadino consapevole lo si forma se gli facciamo fare una scuola di cui è consapevole e che è rispondente ai propri reali interessi che sono fondamentali per evitargli l’insuccesso scolastico, con tutto ciò che talvolta ne consegue anche sul piano della devianza giovanile. Inoltre, come possiamo ignorare che è proprio nel passaggio tra la pre-adolescenza e l’adolescenza stessa che i ragazzi aspirano a misurarsi con esperienze nuove, dinamiche, coinvolgenti e, soprattutto, che abbiano per loro un senso?
L’aver ignorato o svalutato, da parte della sinistra politica e sindacale, la profonda ricchezza che poteva e potrebbe scaturire da una seria istruzione e formazione professionale, ha contribuito a diffondere l’errata convinzione, nella stragrande maggioranza della popolazione, che una scuola che pur offre o potrebbe offrire ai ragazzi strumenti operativi e culturali per innestare un albero, per progettare e realizzare circuiti elettrici, manifesti pubblicitari e gioielli, è cultura di serie B rispetto a quella liceale”.


Non so se se Ragazzini e Vagnoli siano confluiti, come la maggior parte dei Radicali nel Partito Democratico, o abbiano aderito alla pattuglia dei liberal-democratici del PDL che fanno capo al deputato Della Vedova. Personalmente mi auguro che abbiano scelto il centro-sinistra , in modo da rendere più laica, più realistica e meno ideologica la discussione all’interno del centro-sinistra.

Un altro punto attorno al quale si manifestano i pregiudizi in parte di matrice cattolica, in parte di origine sessantottina, di molti insegnanti è ovviamente la questione della meritocrazia. Qui però bisogna essere molto chiari: non solo il “concorsone” inventato da Berlinguer era davvero un “concorsaccio”, abborracciato, frettoloso e dilettantesco, ma gli articoli allarmati che in questi ultimi anni si sono succeduti sulla stampa del nostro paese sull’urgenza di “premiare i migliori” non sono mai andati oltre l’invettiva accorata: toni da ultima spiaggia e semplificazione vergognosa di un problema che è apparso estremamente complesso e spinoso a tutti coloro che, in Europa e negli Strati Uniti, hanno provato ad affrontarlo seriamente. Nessuno, che io sappia, è mai andato al di là dello slogan facile e demagogico. Si invoca la meritocrazia nella scuola come se la soluzione fosse già lì bella e pronta, e solo la protervia corporativa degli insegnanti e dei loro sindacati avesse fino ad ora impedito di metterla in pratica. Non solo: a nessuno sfuggirà, spero, che dietro gli appelli accorati perché nei prossimi contratti siano previsti aumenti differenziati in modo da premiare i migliori si nasconde un giudizio molto pesante sulla qualità della classe docente. Del resto il concorsaccio di Berlinguer ipotizzava che i “migliori” da premiare fossero una sparuta minoranza, con il postulato implicito che il resto, la stragrande maggioranza della nostra categoria, sia composta da una massa indifferenziata di caproni ignoranti incapaci e fannulloni.

Ma attenzione: mentre in passato potevamo, come ho fatto io in Perché non sarò mai un insegnante, imputare questo giudizio sommario a quella che ho chiamato la “sindrome dello sfascio” che affliggeva il discorso e il dibattito mediatico sulla scuola e sostenere la dignità professionale della categoria del suo insieme che, nonostante l’alternarsi tra la disattenzione e l’attenzione perversa che la politica dedicava alla scuola ha sostanzialmente “retto”, garantendo al paese un livello formativo discreto con punte di eccellenza nei licei e nella scuola primaria, oggi questa argomentazione, per me ancora valida, è difficilmente sostenibile. Perché anno dopo anno veniamo sommersi dai risultati e dalle conclusioni del rapporto OCSE-PISA con i deprimenti titoli a carattere cubitali di tutti i quotidiani tipo “Bocciata la scuola italiana” “Studenti italiani:i più somari d’Europa”. E il coro di esperti, studiosi e politici è unanime: occorre una riqualificazione della classe docente, occorre introdurre con urgenza la meritocrazia nelle scuole, basta con i finanziamenti uguali per tutte le scuole, bisogna premiare gli istituti di eccellenza ecc. ecc. Raramente, e certo non sulla stampa quotidiana o attraverso le dichiarazioni di esponenti politici o istituzionali, si leggono analisi non affrettate della fotografia della scuola italiana che emerge dal rapporto OCSE-PISA. Eppure sarebbero i dati stessi ad incoraggiare un’analisi più attenta e meno approssimativa della situazione, come si può desumere, ad esempio, dalle conclusioni dell’INVALSI su PISA-2006:


“• gli studenti di liceo conseguono risultati migliori a quelli di tutti gli altri indirizzi di studio, seguiti dagli studenti degli istituti tecnici e da quelli degli istituti professionali. Il punteggio medio degli studenti dei licei (518) è più alto di quello degli studenti degli istituti professionali (414) di oltre una deviazione standard;
• gli studenti dei licei conseguono mediamente risultati superiori alla media OCSE, quelli degli altri indirizzi di studio risultati inferiori;
• il punteggio medio conseguito dagli studenti varia dal Nord al Sud del paese: Nord Ovest 501, Nord Est 520, Centro 486, Sud 448, Sud Isole 432;
• gli studenti del Nord Est si collocano al di sopra della media OCSE, quelli del Nord Ovest al livello della media OCSE, quelli del Centro leggermente al di sotto di questa media, quelli del Sud e del Sud Isole si collocano nettamente al di sotto della media OCSE;
• al di sopra della media OCSE si collocano gli studenti dei licei del Nord Ovest, del Nord Est e del Centro; gli studenti degli istituti tecnici del Nord Ovest e del Nord Est.”
 

Di fronte all’evidenza di questi dati non sarebbe più saggio, prima di avventurarsi in ipotesi di soluzione azzardate e ad incriminazioni sommarie degli insegnanti da gettare in pasto all’opinione pubblica, porsi alcune domande semplici semplici tipo “Cosa succede nelle nostre scuole professionali?” “Cosa succede nel nostro meridione?” E ancora: “E’ ineluttabile che nelle scuole professionali e nelle scuole meridionali nel loro complesso gli studenti debbano avere performance così deprimenti non solo per quanto riguarda la lettura, ma anche per le competenze scientifiche e matematiche, notoriamente meno esposte all’influenza del background socio-familiare? Non mi risulta che questi interrogativi abbiano mai accompagnato gli articoli che di anno in anno riferiscono sui risultati del rapporto OCSE-PISA, né che i soggetti politici ed istituzionali abbiano promosso indagini o inchieste focalizzate sui reali punti di sofferenza del nostro sistema educativo: il meridione e l’istruzione tecnico-professionale. Ma non solo: è evidente che se i test dell’OCSE-PISA misurano le competenze dei quindicenni, non si può evitare di porsi un’altra serie di interrogativi su un’altra questione fondamentale: la qualità della nostra scuola media. Una domanda inevitabile se si tiene conto che un altro rapporto internazionale mette in luce l’eccellenza della nostra scuola elementare, come riportato dalla “Stampa” del 12 dicembre 2007:

“Non sarebbero del tutto negativi i risultati dell’indagine Ocse-Pisa sulle competenze degli studenti italiani: a rivelarlo è un’analisi di Tuttoscuola, secondo cui nei giorni scorsi sarebbe stato del tutto trascurato l’ottimo piazzamento (sesto posto su quaranta paesi analizzati) fatto registrare dagli alunni italiani di nove anni nelle competenza in lettura.
Dall’indagine condotta in 40 Paesi (cinque anni fa erano 26 i Paesi partecipanti), l’Italia è risultata sesta, preceduta in Europa solamente dal Lussemburgo. Per l’Italia il campione ha riguardato quasi 4 mila alunni di quarta elementare dell’età media di circa nove anni e mezzo.
Il risultato è contenuto in una ricerca, analoga a quella “Pisa” sui quindicenni, chiamata “Pirls-Icona” (Progress in International Reading Literacy Study) ed è stato raggiunto anche grazie alle buone performance dei ragazzi del Sud: «l’Italia - fa sapere oggi la rivista on line - ha migliorato le sue performance, grazie anche ai risultati del Sud e delle Isole pressoché uguali a quelli delle altre aree italiane dove il Centro e il Nord Est hanno avuto, comunque, le risultanze migliori».
Secondo Tuttoscuola la trascuratezza dei dati sarebbe ascrivibile ai mass-media, più attenti alle ombre che alle luci emersi da questo tipo di indagini: «la stampa nazionale - commentano della redazione diretta da Vinciguerra- si è soffermata più sui dati Ocse-Pisa che su quelli Pirls-Icona ».
«I primi - continua la rivista - non molto confortanti, l’hanno fatta da padrone nelle prime pagine, mentre i secondi, notevolmente positivi, sono stati un po’ trascurati. Eppure proprio questi ultimi dati meritano più di una considerazione attenta, a cominciare dal fatto che la lettura (oggetto dell’indagine) consiste nell’abilità di capire e usare quelle forme di linguaggio scritto richieste dalla società e apprezzate dall’individuo».”


Sulla rapacità con cui la stampa si lancia sui risultati negativi per l’Italia trascurando invece rapporti lusinghieri come Pirls-Icona fa bene ad insistere Tuttoscuola , ma la domanda da porsi, come ha fatto Gigi Brustia della Gilda, analizzando i due rapporti a confronto è “Perché i nostri alunni peggiorano tanto?”. Non mi risulta che altri, (se non Antonio Gasperi che su docentinclasse.it ha scritto un articolo dal titolo “Eccellenza della scuola elementare e modelli educativi”) si siano posti lo stesso cruciale interrogativo. Occorre dire, per la verità, che in questo caso l’ex-ministro della Pubblica Istruzione Giuseppe Fioroni ha promosso un ottima iniziativa, come riporta Repubblica on line del 19 marzo 2008:

“Definita la "prova nazionale" di licenza media: la cosiddetta "quarta" prova scritta. L'appuntamento è per martedì 17 giugno, quando circa 600 mila ragazzini iscritti in terza media sosterranno un'unica prova scritta nazionale di italiano e matematica. Il provvedimento è contenuto nella circolare sugli scrutini e gli esami del primo ciclo (scuola primaria e secondaria di primo grado) resa nota dal ministro della Pubblica istruzione, Giuseppe Fioroni. E' la prima volta, ricorda lo stesso Fioroni, che a conclusione del primo ciclo di istruzione tutti gli studenti vengono chiamati a svolgere uno stesso compito nel medesimo giorno: un esame che ricorda quello della maturità.
La novità, introdotta lo scorso ottobre, serve a dare un unico metro di valutazione relativo alle competenze fondamentali dei quattordicenni italiani. Ed è stato introdotto sulla scia dei disastrosi risultati delle ultime rilevazioni nazionali (Invalsi) e internazionali sui quindicenni (Ocse-Pisa). "L'introduzione di una prova a carattere nazionale, uguale per tutti gli studenti del terzo anno della scuola secondaria di primo grado che affrontano l'esame - spiegano da viale Trastevere - ha la funzione di integrare gli elementi di valutazione di cui già dispongono gli esaminatori, verificando anche i livelli di apprendimento conseguiti dagli studenti in alcune discipline oggetto della stessa prova". Considerate le tante promozioni con il minimo dei voti, il ministero quest'anno vuole vederci chiaro”.


Purtroppo, a dimostrazione della superficialità e del sensazionalismo con cui i media si occupano delle questioni relative al sistema formativo del nostro paese, la notizia ha avuto una scarsissima eco sui giornali e in televisione, mentre credo che si tratti non solo di una novità rilevante, ma del primo tentativo serio sia di rispondere alle questioni poste dai confronti internazionali tipo OCSE-PISA e Pirls-Icona sia di implementare un sistema di valutazione nazionale come auspicato nel già citato Quaderno Bianco. Attendo con molta curiosità le conclusioni di questo test e l’elaborazione che ne farà l’ INVALSI, ma temo che, in mezzo a tante chiacchiere sulla meritocrazia e sulla “chiamata diretta “ da parte dei presidi, non avranno la risonanza che meriterebbero, risonanza che, qualunque siano i risultati, se nel nostro paese ci fosse un’attenzione seria ai problemi dell’educazione dovrebbe essere enorme e spingere la classe politica a scelte – finalmente – operative. Molto più facile, ahimè, inveire contro “la classe asinina che siede dietro le cattedre” e invocare stipendi differenziati in base al “merito” senza che i tanti anni nessuno abbia provveduto seriamente a definire quali dovrebbero essere i modelli di questo “merito”.

Questo per dire che gli insegnanti hanno mille ragioni per essere diffidenti e di temere soluzioni pasticciate e pericolose, come quelle che con ogni probabilità l’attuale governo di centro-destra ha già allo studio e nel prossimo futuro tenterà di imporci, con il tacito o forse neppure troppo tacito assenso del Partito Democratico che della meritocrazia nella scuola ha fatto un uso altrettanto sloganistico del PDL in campagna elettorale. La diffidenza degli insegnanti nei confronti delle proposte di introdurre il merit pay è quindi non solo giustificata, ma sacrosanta, vista la modestia e anche la pericolosità delle proposte stesse. Se si escludono le riflessioni serie e problematiche contenute nel Quaderno Bianco che si presume verranno presto messe in soffitta, non abbiamo visto circolare che versione caricaturali della meritocrazia, come quelle sostenute da anni dall’ associazione TREELLLE o dalla stessa Gelmini nella proposta di legge presentata nella scorsa legislatura (“Delega al Governo per la promozione e l'attuazione del merito nella società, nell'economia e nella pubblica amministrazione e istituzione della Direzione di valutazione e monitoraggio del merito presso l'Autorità garante della concorrenza e del mercato"), e che si possono riassumere nella parola d’ordine “tutto il potere ai presidi”. Occorre subito aggiungere però che l’opposizione degli insegnanti a queste forme inaccettabili di meritocrazia sarebbe oggi più autorevole e se gli insegnanti stessi avessero avuto un atteggiamento meno ideologico e pregiudiziale verso qualsiasi tentativo di misurare l’efficacia del loro lavoro, tanto più che da anni ormai, come ho appena detto, le comparazioni internazionali individuano nel sistema educativo del nostro paese aree di sofferenza che si cronicizzano nel tempo, un divario che sembra ampliarsi piuttosto che ridursi. Se la categoria avesse avuto un atteggiamento più “laico” e meno ideologico nei confronti dell’istituzione di un sistema di valutazione nazionale ora avrebbe le carte in regola per opporsi alle pericolose semplificazioni e forse alle aberrazioni che ben presto ci verranno proposte o imposte. Al contrario, gridare al lupo al lupo anche quando il lupo non c’era, non ci rende credibili ora che sarebbe essenziale mettere alcuni importanti paletti rispetto al tema della meritocrazia: ad esempio, esigere che prima di parlare di stipendi differenziati a seconda dei risultati, si istituisca e si renda efficiente un sistema di valutazione nazionale in grado non solo di distinguere le scuole o gli insegnanti eccellenti ma , come affermato nel Quaderno Bianco di cogliere i progressi nel tempo delle singole scuole. Che sarebbe, a mio avviso, l’unico modo serio per promuovere un miglioramento qualitativo della scuola italiana, in particolare dei suoi segmenti più deboli. Altrimenti non capisco cosa significa premiare le scuole e gli insegnanti eccellenti: dare più soldi a coloro che insegnano nei licei classici e scientifici e meno a quelli che lavorano nel settore tecnico- professionali? Premiare le scuole dei centri storici frequentate dai figli della buona borghesia e penalizzare chi lavora in trincea, nelle periferie degradate delle grandi città?Ma soprattutto, se fossimo più credibili, dovremmo porre la questione delle questioni: si premino pure le eccellenze (se si troverà un sistema serio per farlo e che non sia controproducente, come spesso è avvenuto nei paesi in cui si è provato ad introdurre il merit pay)ma senza barare, senza pensare di risolvere così il problema dello spaventoso divario economico in cui versano gli insegnanti italiani nei confronti della media europea. Non scherziamo: prima stipendi dignitosi per tutti, poi il merito. Ma mi chiedo: abbiamo la forza e la credibilità per farlo?

A proposito di stipendi. Più di una volta ho dovuto presentare il cedolino dello stipendio, per avere ratei di elettrodomestici, per l’auto, ecc. L’ultima volta, la più umiliante è stata con un avvocato: non voleva credere ai suoi occhi. Ha fatto una smorfia tra l’incredulo e l’indignato, poi ha alzato lo sguardo verso di me e ha fatto: “Certo vi diamo proprio una miseria”. Io ho allargato le braccia senza sapere cosa dire, ma poi, uscendo, ho pensato che usando la prima persona plurale l’avvocato aveva dimostrato di essere una persona intelligente. Non “vi danno” oppure “lo stato” , no, “noi” la società vi diamo poco più di un’elemosina, per quello che avete studiato, per quello che valete, per quello che fate per i nostri figli. Perché molti davvero non lo sanno, e quando vengono davvero a sapere quanto guadagniamo se ne stupiscono. Alcuni, certo, perché per altri prendiamo anche troppo per quello che facciamo. Qualche tempo fa sul blog del giornalista della Stampa Massimo Gramellini apparvero una serie di post che rispecchiano l’immagine che una parte dell’opinione pubblica ha di noi:

Paolo, intanto Pasqua+ Natale + 1 mese 1/2 = il doppio di un qualsiasi altro lavoratore dipendente. Sugli esami di maturita' sei pagato in piu' e la maggior parte dei prof non li fanno+ cosa fai dal 1 settembre fino al 20? Lavori sodo senza alunni? La preparazione degli insegnanti e' facoltativa, se vuoi puoi tranquillamente andare al cinema e non spiegare facendo leggere il libro agli studenti, come fanno la maggioranza dei professori. Perche' non si possono licenziare prof incapaci


Per Luca. Un insegnante non ha bisogno più di tanto di prepararsi le lezioni perchè se lo facesse, dopo anni passati a ripetere sempre le stesse cose, sarebbe da portare alla neuro. I compiti da correggere non penso che portino via tutto sto tempo....al liceo in media facevo tre temi in classe al quadrimestre...per non parlare dell'aggiornamento...e dove li metti tre mesi di ferie pagate? Vallo a dire ad un operatore call-center che gli insegnanti sono degli eroi!

Marcello e Ubimel! Sono Evaristo, e lavoro ai mercati generali di Ancona. Mi occupo, in effetti, di carni ovine. Mi sveglio tutte le mattine alle 4, adesso che la mattina comincia a fare freschino e con qualche acciacco artritico che comincia a farsi sentire carico e scarico merci dalla cella frigorifera al camioncino, e dal camioncino all'androne in cui, mentre voi e i vostri alunni dormite al caldo, cominciamo a trattare con grembiali sporchi di sangue. Imparate il rispetto, razzisti!!

Come dimostrano i risultati di una recente ricerca dell'OCSE gli insegnanti italiani sono mediamente peggiori persino dei loro colleghi francesi. A giudicare dalla mia esperienza personale di ex studente l'unica cosa che sanno fare benissimo ¨¨ costantemente incolpare gli studenti... oltre che da "Esemplari" impiegati pubblici scioperare, ammalarsi, urlare, non spiegare, discriminare. La PUBBLICA DISTRUZIONE ¨¨ una delle principali cause del declino italiano (leggere ultimo libro di Giavazzi).

Pienamente d'accordo. Bisognerebbe finirla con il principio "ti pago poco, pretendo poco" soprattutto nell'istruzione, dove le ricadute sono drammatiche per la società presente e future.


Discorsi da bar, si dirà. Ma come ha acutamente osservato lo scrittore Javier Marias:

“In Italia è stata ormai chiaramente abbattuta la frontiera tra ciò che si può dire o non dire in pubblico. Il linguaggio da bar, quello che io preferisco chiamare il “linguaggio da caverna” si è trasferito alla politica. E’ una forma superiore di demagogia, perchè non si tratta solo di dire alla gente ciò che vuole sentire: il fatto che i politici adottino in pubblico il linguaggio crudo e brutale che dovrebbe essere confinato nel privato gli dà legittimità. E ricompare nella bocca dei cittadini, ma con una veemenza molto superiore”.


Il grande scrittore spagnolo si riferiva alla situazione politico- culturale che si è determinata in Itala dopo la vittoria elettorale del centro-destra, ma la sua definizione si adatta perfettamente al linguaggio dei giornalisti. L’intervento dell’ultimo lettore ad esempio, rispecchia perfettamente quanto lo stesso Gramellini aveva scritto nell’articolo che ha scatenato il florilegio dei lettori:


“Basterebbe osservare qualche regola di liberalismo: meno insegnanti, orari più lunghi, stipendi più alti. Così salterebbe il patto perverso «sottopagati ma iperprotetti» che sta scassando il sistema e bloccando il ricambio, a scuola come altrove.
Facciamo un sogno: digressione astratta e spesso inconcludente, dunque maschile. Una schiera selezionata di prof che restano in istituto fino a sera per correggere compiti, preparare lezioni, seguire studenti. A loro andrebbe raddoppiato il compenso, ma impedito di concedere consulti a pagamento, tanto meno ai propri allievi. E gli insegnanti in eccesso? A casa, con l’autorizzazione a dare lezioni private in esclusiva e la possibilità di rientrare nel giro, se lo meritano. Per gli apatici e gli scansafatiche, l’ideale sarebbe un biglietto aereo per il pianeta della sciatteria, ma la quantità di stipendiati da far salire a bordo - e mica solo fra gli insegnanti, intendiamoci - renderebbe estremamente difficile il decollo”.


A parte l’immagine grottesca dei professori che si trattengono a scuola fino al crepuscolo per correggere compiti e preparare lezioni – spia sicura di un atteggiamento punitivo e rancoroso nei nostri confronti , quello che colpisce, a dispetto dei dati ormai ampiamente disponibili che attestano come l’orario di cattedra dei professori si attesti in tutto il mondo attorno alle diciotto ore è la vecchia, inaccettabile equazione tra bassi salari e poco lavoro. Non si può certo pretendere che gli inferociti bloggers del giornalista si leggano i rapporti OCSE o le relazioni dell’OECD, ma da un giornalista stimato come Gramellini sì, possiamo pretenderlo, e possiamo pretenderlo anche dall’osannato Gian Antonio Stella che in un recente, pessimo articolo sul Corriere avanzava lo stesso, stantio concetto dello scambio “politico” tra basse remunerazioni e lavoro “part-time” degli insegnanti.

Comunque, ci sono anche giornalisti seri che si documentano prima di parlare o di scrivere, e nelle interviste che ho rilasciato dopo la pubblicazione del mio libro ne ho incontrati molti che non avevano difficoltà a riconoscere la fondatezza delle mie tesi. Mi permetto di citare a questo proposito un brano di una delle prime recensioni, apparsa su “Repubblica” a cura di Giovanni Valentini:

“Da questo originale pamphlet, dunque, il declino di una professione considerata “fuori mercato” emerge in tutta la sua drammatica realtà. Né l’impegno culturale né la passione per l’insegnamento impediscono a Giovannone di mettere il dito sulla piaga del trattamento economico che mortifica un’intera categoria , a dispetto delle funzioni e delle responsabilità sociali che le vengono attribuite nell’educazione dei giovani. L’autore non risparmia critiche alla politica e al sindacato, alla riforma Berlinguer e alla riforma Moratti. Ma contemporaneamente chiama in causa anche gli intellettuali e i giornalisti inclini a celebrare la “retorica dello sfascio” ovvero, come la chiama Pacchiano “la letteratura del lamento scolastico”. Di fronte alla cultura dominante, riassunta nella formula “denaro-potere- immagine”, il libro interpella però tutta la società, in rapporto al ruolo che la scuola è chiamata a svolgere nella trasmissione del sapere e dei valori. Fino a quando la professione degli insegnanti non sarà restituita alla dignità che le compete, a cominciare proprio dalla condizione economica, risulterà compromessa la crescita generale del Paese”.


E ne potrei citare altri, come Corrado Augias o Mario Pirani dei quali tutti apprezziamo l’attenzione e il rispetto con cui guardano ai problemi della scuola e alla condizione degli insegnanti. E soprattutto Piero Dorfles, che mi ha invitato spesso nelle sue trasmissioni e che abbiamo l’onore di avere tra i collaboratori di docentinclasse. it . Però proprio Dorfles, in una telefonata dopo una puntata del Baco del Millennio, mi mise una pulce nell’orecchio. Mi disse più o meno che, a quello che lui risultava, il mio libro era stato apprezzato più dai giornalisti e dagli intellettuali che dai miei colleghi, che si dimostravano un po’ infastiditi dalla mia insistenza sulla questione degli stipendi, mentre i problemi, secondo loro erano “ben altri”. Non che non lo sospettassi già prima, ma nei mesi successivi, andando in giro per l’Italia a presentare il mio libro, e attraverso i contatti avuti con molti insegnanti, inclusi i militanti di base del Partito Democratico, mi sono convinto che se ormai sui maggiori quotidiani gli insegnanti vengono esplicitamente collocati tra “i nuovi poveri” la responsabilità non è tanto dei media, della politica o della società, ma soprattutto nostra. Agli insegnanti, in realtà, nonostante i loro mugugni, non interessa affatto un miglioramento del loro status socio economico, sono rassegnati ai bassi stipendi come un fatto ineluttabile, come l’abnorme evasione fiscale del nostro paese, l’impossibilità di sconfiggere la mafia e la scomparsa delle mezze stagioni E c’è anche di peggio: molti sono convinti che guadagniamo meno dei nostri colleghi tedeschi o francesi perché loro lavorano molto più di noi, oppure che solo una esigua minoranza di “lodevoli eccezioni” meritino davvero di più. Ma al di là di queste aberrazioni – molto più diffuse in realtà di quanto si pensi – io credo che le dicotomie di cui parlavo all’inizio tra valori spirituali e materiali, o se volete tra cultura e denaro indichino con tutta chiarezza come, più dell’indifferenza dei politici o dell’incapacità dei sindacati, siano gli insegnanti stessi i primi responsabili della loro mortificante condizione socio-economica, una condizione accettata non solo con rassegnazione ma con una sorta di condivisione delle pseudo-spiegazioni con cui dall’esterno si giustifica tale condizione.

C’è una recente intervista della nostra illustre collega Paolo Mastrocola (Repubblica 11 giugno 2008) che spiega molto bene quello che voglio dire. Il giorno prima, il ministro dell’ Istruzione, Maria Stella Gelmini, illustrando alla commissione cultura della Camera il programma del suo ministero aveva detto:

"Questa legislatura deve vedere uno sforzo unanime nel far sì che gli stipendi degli insegnanti siano adeguati alla media Ocse"… Non possiamo ignorare che lo stipendio medio di un professore di scuola secondaria superiore dopo 15 anni di insegnamento è pari a 27.500 euro lordi annui, tredicesima inclusa. Fosse in Germania ne guadagnerebbe 20 mila in più, in Finlandia 16 mila in più. La media Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) è superiore ai 40 mila euro l'anno".


Bene: invitata il giorno dopo a commentare queste affermazioni la Mastrocola ha dichiarato testualmente:

“Che barba. Quando i ministri parlano di soldi , o di risorse, come dicono loro, vuol dire che il problema della scuola è molto grave. Se fosse solo una questione di soldi staremmo a posto, ce li dessero allora e si risolverebbe tutto. La questione economica esiste ma ce ne sono molte altre”.


Sarebbe facile dire che le parole della Mastrocola si commentano da sole. Ma il punto è che questo “benaltrismo” , questa snobistica diffidenza o aristocratica noncuranza della nostra drammatica situazione economica è estremamente diffusa, direi prevalente tra la nostra categoria. Il giorno 12 giugno, ancora su Repubblica, una nostra collega di Brescia, Emma Bontempi, se ne usciva con queste considerazioni:

“Nella scuola c’è un problema più importante dei soldi: il rispetto. Quando sui banchi c’ero io, la professoressa entrava, noi ci alzavamo in piedi, e se c’era un minimo di confusione l’insegnante batteva appena la mano sulla cattedra: silenzio assoluto. Adesso, per ottenerlo nelle mie classi, impiego tra i cinque e i dieci minuti”.

Parlare di soldi è riduttivo, fuorviante, disdicevole. I problemi sono “ben altri”. Questo mi sono sentito dire spesso quando sono andato a presentare il mio libro. Magari accompagnato dalla considerazione secondo cui “molte colleghe non si meritano neppure quella miseria che ci danno”. Oppure, durante un convegno del Partito Democratico sulla scuola un collega ha preso il microfono e ha detto, testualmente: “E’ illusorio attenderci soddisfazione dagli aumenti economici. La nostra soddisfazione devono essere i nostri ragazzi, dobbiamo emozionarli e dobbiamo saperci emozionare. Tanti i soldi non arriveranno mai”. E ancora, una maestra napoletana ospite come me di una trasmissione radiofonica: “Certo, il professor Giovannone ha ragione, i soldi sono importanti, ma sono altre le soddisfazioni a cui dobbiamo mirare. Ad esempio io mi commuovo quando dopo magari vent’anni incontro un mio ex alunno che mi riconosce e mi dice con le lacrime agli occhi: lei è stata la mia maestra!”.


Il problema grave è che queste considerazioni imbarazzanti non vengono sussurrate in privato. Ho sentito affermazioni simili e anche peggiori espresse in pubblico, ad esempio nelle riunioni del PD alle quali erano presenti funzionari e sottosegretari dello scorso governo di centro-sinistra come Emanuele Barbieri e Luciano Modica. E ho pensato che il messaggio per loro assai rassicurante che giungeva dalla base (e che avrebbero riportato a Roma) era che gli insegnanti non sono affatto interessati ad un riconoscimento sociale della loro professionalità e del loro ruolo culturale, non c’è alcun bisogno di lambiccarsi il cervello per trovare le risorse per adeguare gli stipendi alla media OCSE. L’impressione che mi sono fatto frequentando gli insegnanti del Partito Democratico - figuriamoci gli altri – è che è molto più divertente e intrigante spettegolare e inveire contro le “mele marce” e chiedere che vengano premiati i migliori, cioè loro stessi. Di alcuni di questi “migliori” però conoscevo fatti e misfatti e devo dire che non è affatto paradossale che a chiedere l’introduzione della meritocrazia tra gli insegnanti spesso siano colleghi che sono fuggiti dalle cattedre o che considerano il lavoro quotidiano in classe un fastidio insopportabile. E agiscono di conseguenza, rovinando intere generazioni di studenti. Ora, io voglio sperare che le parole del nuovo ministro riportate sopra siano sincere e che nel corso della legislatura voglia metterle in pratica ma ciò dipenderà solo dalla buona volontà della Gelmini, di Brunetta e di Tremonti, visto che non c’è da sperare in una capacità di mobilitazione o in un sussulto d’orgoglio della categoria dei docenti. E certo, la loro buona volontà non sarà certo stimolata dalle dichiarazioni come quelle delle colleghe Mastrocola, Bontempi e tante altre. E tanti altri, perché io non sono affatto convinto che questo scarsissimo senso della dignità professionale sia dovuto soltanto alla femminilizzazione della categoria, al fatto cioè che per mote colleghe sposate con professionisti o imprenditori l’insegnamento sia considerato un’attività part-time da cui ricavare i soldi per i “vizi”. I nostri colleghi maschi, per come li conosco io, non sono meglio, non manifestano una mentalità da professionisti. Come afferma Cavalli nelle sue ricerche prevale nella categoria – maschi e femmine – un atteggiamento “vocazionale”, che io traduco con “missionario”. Perché gli insegnanti, come dicevo all’inizio, sono e si sentono diversi, si sentono in fondo custodi dei valori dello spirito, della cultura e della morale e per loro tutto ciò che è connesso al profitto, alla carriera, alla concorrenza, ai soldi, non solo quelli facili o illeciti, suscita sospetto, diffidenza, ostilità. La popolarità di autori come Umberto Galimberti o Paola Mastrocola tra gli insegnanti sono una spia evidentissima di questa mentalità moralistica, missionaria , orgogliosamente “diversa” che ci differenzia da qualsiasi altra categoria professionale e non lascia alcuno spazio all’ottimismo sulla nostra capacità di assumere un’identità – e uno status - da professionisti. Spero, naturalmente, di essere smentito.